Il primo passo nel metal dell’estremo oriente lo muoviamo dalla Mongolia.
Perché proprio dalla Mongolia? Per nessun motivo.
Per lo stesso motivo, ci approcciamo al mongometal senza particolari riserve, anche perché noi non possiamo dire di avere un pregiudizio antimongolico: sostanzialmente ignoriamo le peculiarità di queste terre. La Mongolia ha la più bassa densità di popolazione al mondo, e il 30% sono nomadi, quindi vai a sapere quanti sono, se nono stanno fermi mentre li contano. Pochi comunque. La densità di band metal però non è zero, a differenza di paesi popolatissimi come la Nigeria, per esempio.
Il tenue legame tra metal e mondo mongolico potrebbe essere dato, trasversalmente, dal personaggio di Gengis Khan, celebre brano dei Maiden, che tuttavia non ci chiariscono molto le idee, essendo uno strumentale. Perché i Maiden, che hanno dedicato ad Alessandro il Grande e ad altri protagonisti della Storia dei brani normali, su Gengis Khan optano per uno strumentale? Ebbene, un senso parrebbe che alla fine ci sia: il ruolo marginale della voce. I metallari mongolici hanno qualche questione in sospeso con le corde vocali. Forse in relazione ad uno stilema del folk mongolico, i cantanti si assestano spesso su una tonalità baritonale afona. In futuro quindi niente sarà più come prima: se avete l’impressione di ascoltare uno strumentale, avrete sempre il dubbio di trovarvi semplicemente alle prese con del metal made in Mongolia.
Sull’epica si parte subito in quarta. Cavalcate di folk-epico, con uso di violini e strumenti acustici, incluso lo scacciapensieri e una cosa che dovrebbe somigliare a un corno alpino. Il tutto accompagnato a tratti da una voce prodotta in una camera di risonanza che la rende una vibrazione grave e vagamente umana, in continuità con le altre.
Cercando informazioni in rete, ci si imbatte facilmente nel video “40 minutes of mongolian folk metal”, ovvero quel che si annuncia come una mattonata in capo. L’effetto “colonna sonora” non è male, così come naturale risulta la fusione tra strumenti tradizionali mongoli e vibrazioni metalliche. A tratti sembra di sentire qualche tappeto vocale basso. Non vi posso dare garanzia che si tratti effettivamente di voce umana. C’è perfino un cantante che pontifica sulla fusione tra canto tradizionale mongolico e cantato metal, e non si può dargli torto, anche perché non è chiaro cosa intenda per “cantato”, se non una gamma di vibrazioni che ha arbitrariamente deciso di interpretare come di derivazione umana.
Gli Aravt offrono una ritmica folk-epic variegata, arieggiata da tastiere, che spazia da soluzioni maideniane a sfuriate thrash. La voce è growl e – caso forse unico – a frequenze tali da non essere recensibile solo dalle zanzare.
Il death predilige la forma con ritmica a zappa, quella che è facile riprodurre battendo forsennatamente con una zappetta da giardinaggio su un terreno da dissodare. Suoni sordi e secchi. Dipenderà dal tabacco che circola in Mongolia, che non fa venire i catarri, ma la voce tende a somigliare al suono dell’accensione a vuoto del motorino. Se paragonammo John Tardy a Fantozzi, per la sua inflessione strascicata e sofferente, quasi caricaturale, allora il death mongolico è Fracchia. La versione sfiatata, pavida. Ci provano gli Zugeer I, Ayasiin Salhi, ma l’effetto “sanatorio per tisici” rimane dietro qualsiasi effetto e tonalità. Un gruppo più arguto tenta goffamente di mascherare questo strano fenomeno stilistico dandosi come nome “Tortured voice”, ma non funziona. Più che torturati, semplicemente sfiatati. Alla fine si arrendono, e si autodefiniscono black ambient, nel marasma, dove crediamo che l’elemento ambient dovrebbe essere la voce, tipo folata di vento sul microfono.
I Temple of the Maggot giocano sulla distorsione, allineando però anche il resto degli strumenti, e fanno quindi di necessità mongolica mongolica virtù. Il loro “Black Mass Apocalypse” regge come esempio di black sperimentale, con contaminazioni industrial, ambient, campionamenti, parti rumoristiche o cacofoniche spinte, intramezzate da litanie acustiche. La vocazione ce l’hanno, compositivamente parlando ci si mettono, e non risultano neanche indisponenti come il 90% dei gruppi ambient-industrial.
Il genio più completo però, ancora maggiore che nel caso del gruppo black fantasma tanzaniano, è Baigaliin Haranhui. Ci inchiniamo. Formatisi nel 1999 nella capitale Ulan-Bator, i nostri poi…..fine. Suonano “black metal”, o meglio suonavano, perché si sono sciolti, ma non è dato sapere quando ciò è avvenuto (poco male, tutti voi lo ricorderete, tutti voi penso conserviate un trafiletto di qualche rivista specializzata che annunciò questo evento, questa spaccatura nella storia del metal). L’unico demo, "Hermel Tchetger", fu inciso nel 2000 (o 2001, c’è più di un’opzione su questa verità storica), e contiene del black metal “raw”, cioè crudo, poiché dato il basso livello di probabilità di esistenza, il grado di cottura di questo materiale mi pare scarso. Si ignorano i nomi dei componenti, (potrebbe trattarsi di una no-man band) si sa soltanto che si occuperebbero di “storia della Mongolia”. Per quale etichetta avrebbero inciso: unsigned/independent, cioè non hanno firmato per nessuno, oppure (a scelta) per un’etichetta indipendente, a tal punto indipendente da non essere tenuta ad avere un nome.
Spostandoci sul funeral doom, ecco gli Ornaments of Agony, protagonisti di un doom più ambient-psichedelico che davvero funeral, simile ai Pan Thy Monium. La voce non è male, dà l’idea di quanto si preme una bomboletta di panna montata ormai vuota. Nelle parti meglio scandite, sembra il Perozzi di Amici miei, quando, morente, chiama il prete sul capezzale e gli fa una supercazzola rantolante con le ultime forze. Ora, d’accordo che noi metallari ascoltiamo di tutto, anche i clisteri registrati dei Carpathian Forest e la vomitata di Steve Sylvester, ma perlomeno quelle durano pochi secondi. Qui abbiamo ornamenti d’agonia per un’ora e due minuti, e chiunque li ascolti per intero può ritenersi un eroe.
Gli Hurd sono un gruppo con una peculiarità: sono talmente popolari che producono più antologie che lavori originali. Addirittura la loro discografia parte subito con un “The best collection”, e non solo: volume 1 e volume 2. Dopo altri due full lenght, scatta inesorabile il "The best " volume 3. Ma per non stare con le mani in mano, al di là degli album (che sono un aspetto secondario) è già uscito un altro “Best of” autoprodotto. Il delirio antologico non si ferma qui, perché i nostri nel 2013 escono con un cofanetto ("Black box"), che comprende anche le antologie già edite, un’antologia di antologie. Questa orgia antologica non è comunque sufficiente a evitare che esca (ulteriore rispetto al Black box) anche la compilation Gli odori della mia terra.
Degli Hurd reperisco un video di taglio metal-rock, con attitudine “forsennata”, come lessi su una critica cinematografica a proposito dello stile recitativo dell’estremo oriente. Si intendevano dialoghi a tempo di ping-pong, in cui sembrava che i dialoganti si sfidassero a colpi di arti marziali più che parlare, con una inespressività innaturale e insieme un’enfasi monocorde. Il metal per gli Hurd non è comunque una prerogativa, e quindi potreste benissimo trovare dei brani assolutamente lontani dalle nostre acque territoriali.
La Mongolia ci ha stuzzicato, ironie a parte. La sua componente sperimentale è decisamente interessante (Temple of the Maggot e Ornaments of Agony), e il suo tributo al metal classico è rispettoso. Gli Ayasyn Salchi hanno iniziato a suonare nel 1985, in piena “Repubblica popolare di Mongolia”, e sono passati dal metal tipo new wave (titoli come "Hurricane") a thrash e death, in tempo reale, approdando a un titolo che non può non affascinarvi: "Coffin town under the moon".
La storia di questa nazione, così isolata per motivi geografici e politici dal mondo occidentale, si interseca in maniera paradossale con quella del più occidentale tra i generi.
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