Qualcuno di voi ricorderà il concetto proustiano della “memoria involontaria” cioè un odore, un colore, un sapore di qualcosa che abbiamo vissuto e che non riusciamo a ricordare più. Proust nella Recherche restituisce senso al tempo che contiene la memoria di ciò che si è dimenticato e, allo stesso tempo, alla memoria che contiene il tempo di ciò che si è perduto.
Sotto questa ottica ho pensato di approfondire l’opera dei Cradle of Filth nell’ultimo ventennio, perché in fondo al mio cervello c’è qualcosa che riescono a far affiorare su me stesso, su di loro e sul senso generale della vita.
È come se dovessi far loro giustizia di fronte alla critica, un compito che mi sento di dover assolvere ripercorrendo la loro discografia dal quarto album in poi.
La nostra Ricerca del Dani perduto inizia quindi, secondo i nostri criteri, nell’anno 2000 con l’album “Midian”.
Come Proust ha usato la letteratura, cioè l’arte, come mezzo di introspezione dei sentimenti più intimi e grazie alla scrittura ha ritrovato il tempo che passa per vivere la vita vera, allo stesso modo Dani è l’autore di una sola grande opera composta dai nove dischi realizzati dal 2000 in poi, dove ognuno è un pezzo d’un puzzle che se uniti rivelano il senso dell’opera intera.
Il protagonista nel primo caso è Proust, in prima persona, che conduce il lettore nei differenti milieux da lui vissuti, dalla borghesia di cui fa parte all’aristocrazia che lo affascina.
Il tempo perduto forse con l’opera di Dani è il nostro, ma fino a quel momento i tre precedenti dischi (+ l’ep "V Empire") rappresentano un percorso di una grande band sinfonica black. E poi? Qualcosa si perde o forse semplicemente muta, matura, cresce come un mostro nei sotterranei.
Come già anticipato, la nostra analisi parte da “Midian” perché è il primo disco dove Dani inizia realmente a percepire che qualcosa stava perdendo in termini di novità, ma anche sotto l’aspetto musicale; e così, commercialmente, le prova tutte.
Decide di farlo uscire ad Halloween negli Stati Uniti, ricorre a Martin Powell, storico violinista dei My Dying Bride per aumentare il senso gotico, alcune canzoni sono narrate dall’attore Bradley che ha interpretato Pinhead nella serie di Hellraiser e si ispira al romanzo di Baker “Cabal” per i testi.
Onestamente più di così il Nostro non poteva fare; un povero ragazzo che ha la consapevolezza di aver smarrito la formula magica. Eppure ne viene fuori un album di spessore, uno di quelli che ascolto più frequentemente, perché la qualità si percepisce ancora e il senso gotico oscuro resta in piedi. Come quando sbadatamente rovesci per terra il piatto che hai cucinato, ma ti metti a mangiare la parte superiore che non è sporca e la apprezzi guardandoti allo specchio come fossi uno chef stellato. Così mi sento adesso mentre ascolto Midian, non voglio pensare al futuro e al passato ma abbandonatemi in questa città.
Le puttanate vere e proprie iniziano tre anni dopo con “Damnation and a Day” dove si esagera in tutto e non in modo coerente. La major Sony (ma perché?) propone loro un contratto, a questo abbiniamo un coro di oltre trenta elementi e l’ Hungarian Film Orchestra di Budapest e capite bene che la misura si è persa.
Se con “Midian” viaggiavano sul filo della coerenza, pur perdendo qualcosa in termini compositivi, adesso si sbaglia proprio indirizzo. Come far gestire l’oceano ad un pescatore di merluzzi, Dani si trova di fronte al mercato dei balocchi. Onestamente però non può neanche essere tutta colpa sua, la teatralità riesce a mantenerla però come resistere di fronte alla proposta della Sony? Il nano inglese si veste di tutto punto per andare a mostrare i suoi nuovi anelli nella sede dalla casa discografica, rifinisce e approfondisce i suoni, cesella in modo manierista l’anima del disco che un’anima però non ce l’ha. È basato sul tema dell'apocalisse e sul Paradise Lost di Milton, ma chi si è perso forse è il nostro gruppo.
Non è tutto da buttare in quasi ottanta minuti di musica, soprattutto “Hurt and Virtue”, ma si affoga e si percepisce la fatica di un gruppo accecato dalle mille possibilità offerte dal rinnovato panorama musicale. Paul Allender resta l’unico chitarrista, coadiuvato dal tastierista Martin Foul che imbraccia la sei corde per tamponare buchi, ma non potevano prenderne un altro invece di mettere un coro con trenta voci? La sfortuna è che i passaggi a vuoto nella prolissità di questo album coinvolgono retroattivamente anche “Midian”; gli scricchiolii del disco precedente accendono il dubbio sui loro ascoltatori e diventano conferme con “Damnation and a day”. Le atmosfere vampiriche e il black metal sono reminiscenze, ma anche la malignità è stemperata in un sound elaborato con più componenti death e sinfoniche nella proposta.
Si apre una nuova era della band di Suffolk che non piacerà, si inaugura una stagione diversa che però contiene per me qualcosa. Una radice gotica e romantica che risulta piacevole ai miei orecchi, forse perché noiosa ma questa nuova stagione dei Cradle of filth assomiglia tanto ai difetti del tempo perduto, appunto, monumentale autobiografia e pittura d'ambiente, minuziosa e talvolta sterile indagine lirica sulla coscienza.
È solo l’inizio di questa saga, proprio alla vigilia dei momenti più zuccherosi e meno centrati, ma proprio per questo amorevoli come “Nymphetamine” e “Thornography”...
To be continued