10 giu 2020

KATATONIA VS PARADISE LOST: CHI E' PIU' IN FORMA OGGI?



Poco più di due anni fa ci dilettavamo a sondare lo stato di salute artistica di Opeth e Katatonia: un confronto che viene spontaneo fare per la storia che unisce le due formazioni, per il passato di amicizia e collaborazione, per le varie analogie stilistiche mostrate lungo la carriera. Oggi possiamo affermare che le due band si muovono entrambe entro il recinto della musica progressiva (cosa più marcatamente evidente per gli Opeth con la loro recente svolta vintage/settantiana), ma nei fatti le due proposte suonano molto distanti fra loro, con i Katatonia forti di un sound più moderno e aderente ai canoni del neo-prog tooliano

Contrariamente agli Opeth, inoltre, i Katatonia hanno mantenuto nel tempo un ruolo di rilievo in ambito gothic (nel senso ampio del termine), per questo oggi preferiamo confrontarli con una band che si gioca la propria partita sul medesimo terreno, ovvero i Paradise Lost. Una "sfida" resa ancora più credibile dal fatto che le due band hanno pubblicato di recente, e quasi in contemporanea, i loro ultimi lavori: “City Burials” (rilasciato il 24 aprile) per gli svedesi e “Obsidian” (edito lo scorso 15 maggio) per i veterani di Halifax. 

Dico veterani perché fra Paradise Lost e Katatonia non v’è rivalità storica né parità gerarchica, in quanto gli inglesi sono da considerare di una generazione precedente, nonostante fra le due carriere corrano solo due anni (i Paradise Lost nascevano nel 1989 ed esordivano discograficamente nel 1990, i Katatonia compivano gli stessi passi rispettivamente nel 1991 e nel 1992). Quando infatti gli svedesi si facevano notare con il loro secondo full-lenghtBrave Murder Day” (correva l’anno 1996), i Paradise Lost, riconosciuti come i padri fondatori del gothic-metal, erano già dei colossi, con un quinto album alle spalle (il capolavoro “Draconian Times”) ed uno status consolidato che li vedeva come punto di riferimento imprescindibile per chiunque in quegli anni si fosse voluto cimentare nel genere. 

Lo stesso Anders Nystrom sosteneva che senza un album come “Gothic” non sarebbero esistiti neppure i Katatonia. Eppure fin da subito i Nostri seppero virare verso un sound estremamente personale che attingeva a piene mani dagli intrecci melodici del black metal, tanto che in principio li si definiva ancora doom-black. Ma il tempo ha saputo livellare lo status delle due band, con i maestri in leggera flessione (per via di una seconda parte di carriera sicuramente non all’altezza della prima) e gli “allievi” in costante recupero grazie ad una attenta ricerca di perfezione stilistica portata avanti album dopo album. 

I Paradise Lost, protagonisti di una fulminante evoluzione nell’arco dei primi sei album (includendo anche il controverso, ma decisamente ambizioso e seminale, “One Second”), hanno poi sostato qualche anno nelle paludi di un goth-rock di impronta elettronica che certo costituiva il coerente compimento del loro cammino, ma che al tempo stesso era divenuto chiaramente un contesto che limitava le potenzialità della band. Cosa che i Nostri capirono presto, decidendo di riesumare quelle sonorità doom-death con le quali si erano distinti ad inizio carriera. Da "In Requiem" (anno 2007) i Paradise Lost avrebbero però navigato con il pilota automatico, assicurandosi di mettere a punto album equilibrati che potessero contenere tutti gli ingredienti vincenti della loro formula, dalle asprezze degli esordi a momenti più easy-listening tributari della tradizione dark-wave ottantiana. 

Più eterogeneo del predecessore "Medusa", quest'ultimo “Obsidian” offre un ascolto a mio parere ancora troppo poco appagante per parlare di "vera rinascita". L'inconsueto incipit acustico (con tanto di Nick Holmes introspettivo fra gli archi) dell’openerDarker Thoughts” mi aveva fatto drizzare il sopracciglio, ma si è trattato solo di un momento, visto che dalla seconda metà del brano fino alla fine dell’album capiremo che la solfa sarà più o meno sempre la stessa, con qualche acuto qua e là da parte del superlativo Gregor Mackintosh (un chitarrista fuori dal comune, senza dubbio) che non è tuttavia in grado di cambiare i connotati di un album che poggia quasi esclusivamente sul mestiere. La stessa “Ghosts”, l'episodio più godibile del lotto, finisce per stancare per l’eccessiva aderenza a quanto suonato e cantato dai Sisters of Mercy, da sempre musa ispiratrice della band. Da chi ha un'esperienza trentennale alle spalle, ci aspetteremmo un qualcosa di più di un'attitudine da cover-band

Al banco degli imputati continua a sedere un Nick Holmes reo di una prova poco sentita e carismatica, ancorata a soluzioni vocali riproposte oramai da troppi anni. Ma non è solo questo il problema, è l'intero ensamble a rivelarsi stanco. Personalmente parlando ho trovato più di ogni altra cosa sconfortante le parti più scolasticamente doom: musica che potevamo ascoltare con piacere nel 1995 anche da parte di una band qualsiasi come ce n'erano molte, ma che suscita grande disappunto laddove gli artefici sono gli stessi maestri. 

Il cammino artistico dei Katatonia, invece, ha il pregio di non aver vissuto un vero e proprio “pentimento”, nel senso che, album dopo album, gli svedesi si sono dimostrati sempre determinati a portare avanti un loro intento poetico. Come nel caso dei Paradise Lost, via via sono occorse novità (l’abbandono delle vocalità gutturali con “Discorauged Ones”, la svolta “modernista” con “Viva Emptiness”, l'addolcimento prog con “Night is the New Day”), ma nessuna di esse ha sconvolto una visione artistica che ha dimostrato una invidiabile coerenza nell’arco dell’intera carriera. 

Per certi aspetti gli stessi Paradise Lost furono anticipatori di molte loro mosse (dal passaggio al canto pulito all’adozione di pattern elettronici), ma laddove gli inglesi sembrano aver inseguito un cambiamento per il puro gusto del cambiamento (per poi tornare sui propri passi una volta esaurita la curiosità - o subentrata la convenienza), gli svedesi sembrano aver creduto intensamente ad ogni loro passo, mai rinnegandone mezzo, ma inglobando ogni tassello di sound esplorato in una formula che oggi sa annettere istanze contrastanti, dall’espressione di notevoli capacità tecniche nei passaggi più intricati all’introspezione di certo cantautorato. 

Sembra giovare al progetto la centralità sempre più spiccata di Jonas Renkse, già principale compositore nel precedente “The Fall of Hearts”, oggi indubbio regista all'interno della band, capace di dare unità, focalizzazione e direzione alla musica dei Katatonia (senza considerare il suo miglioramento costante dietro al microfono, che lo rende un interprete sempre più raffinato ed attento alle sfumature). Tutti i brani di "City Burials"  portano la firma del cantante, che li ha scritti in piena autonomia per poi passarli ad una formazione quasi del tutto rinnovata, dove Nystrom sembra fare un passo indietro per cedere spazio al talentuoso chitarrista Roger Ojersson (mai sentiti assoli così tecnici in un album dei Katatonia!).

Certo, i trent’anni sul groppone si sentono, e dietro ad arrangiamenti sopraffini ed elaborati non è difficile scovare le debolezze di brani che a volte sembrano girare a vuoto o addirittura smarrirsi. Epperò l’ascolto è decisamente più avvincente, a partire dalle evoluzioni imprevedibili dell’openerHeart Set to Divide” (sospesa fra spinta introspettiva e trame progressive) per proseguire con la rockeggiante (con inediti risvolti pristiani) “Behind the Blood” e la struggente ballata elettronica “Laquer”. Degna di menzione la bellissima "Fighters", con una coda in doppia-cassa da lacrime. Vincente, in definitiva, l’idea di snellire le composizioni e sgravarle da troppe impalcature strumentali, puntando semmai su un sound più semplice e diretto che forse avrà deluso qualche "palato" prog, ma che certo ha rincuorato coloro che, come me, avevano amato il minimalismo dei primi lavori.

E dunque, se per benevolenza avevamo concluso il match fra Opeth e Katatonia con un sostanziale pareggio, oggi ci sentiamo di proclamare la netta vittoria degli stessi Katatonia sui veterani Paradise Lost, più auto-indulgenti e stazionari in una consolidata comfort-zone. Condizione da perdenti, questa, che li rende inferiori anche ai loro veri rivali, i My Dying Bride, anch'essi freschi di stampa con il bel "Ghost of Orion" (ma questa è un'altra storia...).