Che bello il Doom!
Se c’è un (sotto)genere metal che in Redazione non ci stanca mai e che, presumibilmente, mai ci potrà stancare, è il Doom.
Ma perché? Cos’ha di particolare?
Sarà che ci rimanda subito ai Sabbath e, quindi, agli albori del nostro Genere
Preferito; sarà che, di riffa o di raffa, il 99% delle band con il Doom ci
devono fare i conti (a meno che non ti chiami Seth Putnam); sarà che quell’aura
che viene creata dal Doom è, appunto, senza tempo e che le emozioni che veicola
attingono direttamente a un portato che, chi più chi meno, tutti abbiamo e a
cui siamo sensibili.
Sensazioni intrecciate di “fine
imminente” ed “eternità”, di ferite interiori che bruciano ma che, al contempo,
possono essere sanate. Anche se le cicatrici rimangono…
Tutto questo, e molto più, è il Doom.
A parte i Sabbath, siamo abituati
più o meno a rifarci, come punto di riferimento, ai nomi classici del genere: Mountain,
Witchfinder General, Pentagram e Saint Vitus prima; Trouble, Candlemass e Cathedral
poi. Le derivazioni italiane e quelle death doom di Paradise Lost e My Dying
Bride, infine. Ma, a dir tanto, vecchi metalheads come noi arrivano a quello
che il nostro Lost in Moments ha definito l’anno santo del Doom, il 1995, e poco oltre.
Di certo non ci esaltiamo per le
nuove leve di questo Terzo Millennio: Grand Magus o, soprattutto, Ghost. Bravi bravi,
per carità, un bel sentire. Ma certe pagliacciate in maschera non si confanno
al Doom. Così come non si confanno le nominations ai Grammy.
No, il Doom è roba seria. Il Doom
è vero dolore. Come ha scritto bene il nostro Dottore, qui c’è “assenza di
prospettive”, “dolore insanabile”, “destino fermo perché concluso in anticipo”
in quanto l’uomo viene al mondo già orfano di un paradiso, senza prospettive.
Senza speranza…
E poi arrivano i King Witch, 'sti quattro
ragazzi scozzesi e ci fanno rizzare sulle sedie. Niente orpelli, maschere o
strane cose: basso, chitarra, batteria e la paurosa voce di Laura Donnelly a
rimpastare gli stilemi classici del genere con una freschezza e ispirazione
fuori dal comune. Il loro “Body of Light”, uscito quasi un anno e mezzo fa si
candida a miglior disco doom da molto tempo a questa parte e, seppur con colpevole ritardo, ci
sentiamo di sponsorizzarlo sul nostro Blog. Chitarre grasse e potenti, sezione
ritmica avvolgente, melodie ispiratissime, scrittura senza cedimenti o cadute
di tono, produzione potente ma mai laccata: signori, questo è il doom che
vogliamo sentire nel 2020!
Brani pachidermici in pieno stile
doomico (“Call of the hunter”, “Solstice I – She burns”) si alternano a sparate
che vanno dritte in pancia (la title track, “Witches mark”) ma i nostri danno
il meglio di sé quando mischiano le carte e piazzano, nell’arco dello stesso
brano, tutti i clichè del genere, rivisitati dalla loro sensibilità metallica. Esemplificativa,
in tal senso, la splendida chiusura di “Beyond the black gate”.
E quindi ci chiediamo: in un genere in cui i margini di manovra non sono così ampi, cosa si può dire di più, o di diverso suonando doom, agli albori della terza decade del XXI secolo? Ha senso cimentarsi con questo genere?
A 25 anni da quell’“anno santo del doom”,
se lo suoni come lo suonano i King Witch ha senso eccome…
Voto: 8,5
Canzone
top: “Of rock and stone”
Momenti top: gli arpeggi "morriconiani" nell’intro di “Return to dust”; gli intrecci di chitarra e voce in
“Beyond the Black Gate”
Canzone flop: nessuna
Etichetta: Listenable rec.
Dati: 2020, 9 canzoni, 60’
A cura di Morningrise