Ottava puntata: Judas Iscariot - "Thy Dying Light" (1996)
Si riparte dalla Norvegia, ma con un gruppo.... americano! Questo perché l'influenza di Darkthrone e Burzum è evidentissima nella musica dei Judas Iscariot, dei veri antesignani dell'US Black Metal, operanti in anni in cui tutti i riflettori erano rivolti sull'Europa.
È interessante notare come le prime manifestazioni del depressive black metal, anche in forma non ancora compiuta, siano germogliate in aree decentrate rispetto alle scene principali dove il black metal si è affermato e ha vissuto i suoi fasti. Ribadiamo dunque l'idea, già espressa, per cui un sotto-genere si forma nel momento in cui si compie una deviazione della strada maestra. Ed evidentemente affinché potesse attecchire un genere così morboso e degradato come il DBM, c'era bisogno di stare isolati, lontani dalle interferenze altrui, distanti dalle "luci della ribalta". Questo probabilmente è anche il caso di Akhenaten, faraonico nome d'arte di Andrew Jay Harris, che dall'Illinois ha portato avanti la sua crociata solitaria, divenendo un precursore per il movimento del DBM ed in particolare dell'ondata americana di cui I Shalt Become, Xasthur e Leviathan sono i nomi più rappresentativi.
Neanche in questo caso siamo al cospetto di una forma compiuta di DBM, nemmeno a livello tematico: nei testi di Andrew Jay Harris non si parla di morte, depressione e suicidio. Gli assunti concettuali su cui si regge il messaggio artistico dei Judas Iscariot sono da un lato un feroce anticristianesimo e dall'altro un anti-capitalismo in cui questo sistema economico e sociale viene fatto coincidere con il materialismo. L'idea di fondo, paradossalmente, è promuovere una musica che si faccia veicolo di messaggi "positivi" per le persone affinché non soccombano sotto il peso soverchiante della religione organizzata e del sistema capitalistico. A fare ponte fra romanticismo e misticismo, troviamo l'invadente influenza di poeti quali William Blake e Percy Bisshe Shelley.
La componente "depressive" va dunque ricercata altrove: nella musica. Il linguaggio è quello di un black metal selvaggio, bestiale, arcigno. Il Nostro si occupa di tutti gli strumenti, inclusa la batteria. No, in questo caso non si ricorrerà alla tanto abusata drum-machine - e questo lo si capisce non tanto dalla perizia o dal tocco di chi maneggia le bacchette, ma dalle imprecisioni, dai colpi fuori posto, dalla fatica tangibile che si percepisce dietro ai blast-beat: aspetti che, lungi dallo stonare, conferiscono grande umanità al tutto. La produzione artigianale evoca le famigerate cantine norvegesi, ma la ruvidità dei suoni non conduce in questo caso al classico impasto indifferenziato di distorsioni e gracidii. I diversi strumenti sono percepibili come entità distinte, incluso il basso che peraltro fa un lavoro egregio. Tutto questo calza a pennello alle composizioni scarne ed irriverenti di "Thy Dying Light", opera seconda che segue di pochi mesi il debutto "The Cold Earth Slept Below...", uscito nello stesso anno (il 1996).
L'aderenza assai fedele agli stilemi del black metal scandinavo ha forse reso poco eclatante ed innovativa la proposta dei Judas Iscariot, che nel corso della loro breve carriera non sono andati oltre lo status di band di culto. Ma il rispetto non è mai mancato, soprattutto da quegli artisti che, successivamente, rinsalderanno le fila del DBM. E' innegabile che gli album rilasciati dalla band rilucano tutt'oggi di un fascino particolare, odorino di intransigenza e di purezza artistica: emozioni che si possono affettare con il coltello, come miasmi fantasmatici che esalano dalle cripte di un cimitero abbandonato.
L'attacco della opener "But Eternals Beheld his Vast Forests..." è darkthroniano allo stato puro e nel corso dei suoi otto minuti si dipanerà come uno spossante tour de force dove le braccia di chi siede dietro le pelli saranno messe a dura prova. Seguono altri due brani molto lunghi, "His Eternal Life, like a Dream was Obliterated..." (più di nove minuti) e "Helpless It Lay, like a Worm in his Frozen Track..." (quasi undici), ma questa volta la dimensione non è tanto quella della iper-velocità quanto quella dei tempi cadenzati con la chitarra arpeggiata a spalancare scenari di una mestizia assoluta. Aleggia il fantasma burzumiano, rivive attraverso riff ripetuti con ostentata ossessività e rancidi arpeggi che tirano fuori il lato più malinconico del progetto, sebbene si tratti di una malinconia dal carattere fiero e solenne.
Su queste coordinate si costruiscono i 52 minuti del platter, fatta eccezione per la lieve variazione di tema costituita dalla strumentale "Thy Dying Light and Desolate Darkness..." tripudio di distorsioni che si intrecciano con grande acume melodico e dove spicca una minacciosa nenia dal vago sapore slayeriano. Le influenze provenienti dal metal a stelle e strisce (per chi ce le vuol vedere) si esauriscono qui, anche se sarebbe opportuno segnalare il fatto che il fragore deragliante delle chitarre porta con sé quella violenza sguaiata mutuata direttamente dall'hardcore che diverrà componente rilevante nel (post) black metal americano.
Nel 2002, dopo cinque full-lenght, Andrew Jay Harris dichiarerà conclusa l'esperienza con i Judas Iscariot, ritirandosi a vita privata in Germania (sua nuova patria d'adozione) e facendo perdere le tracce di sé, in coerenza con l'intransigenza con cui ha portato avanti la sua missione artistica. Pur nella loro breve carriera (una decina di anni, considerati i primi passi del progetto mossi sotto il monicker Heidegger agli inizi degli anni novanta) i Judas Iscariot sono stati indubbiamente un bel pezzo della storia del black metal underground d'Oltreoceano: sarebbero stati fra i primi a calare con una certa credibilità gli umori del black metal del Nord Europa entro le lande americane, e questo sarebbe successo ancora prima che operassero gli imprescindibili Weakling, dai quali sarebbe originato il più ampio universo dell'US Black Metal così come lo conosciamo oggi.
Più di ogni altra cosa, le lunghe e lente composizioni, il carattere ossessivo del riffing, l'approccio senza compromessi, l'alone isolazionista, desolante, irriducibilmente misantropico della musica di questo americano che amava l'Europa diverranno centrali nello sviluppo degli stilemi del depressive black metal ed in particolare delle sue (validissime e fondamentali per l'intero movimento) propaggini americane.
Avanti tutta!