5 nov 2023

25 CANZONI (+1) PER ORIENTARSI NEL NUOVO 'NUOVO METAL' (3/3)

 




Chiudiamo la nostra riflessione sul nuovo 'nuovo metal' con la terza e ultima puntata della nostra rassegna, dove andremo a estrarre altre 10 canzoni rappresentative, dando spazio anche, in calce, alle consuete conclusioni.

Riprendiamo da dove meglio non si potrebbe con...

17) “Genesis” (Devin TOWNSEND – “Empath”, 2019)

Quello che definii nel 2019 il disco ‘impossibile’ di Devin Townsend, oltre ad essere un tassello fondamentale in quanto ad innovazione ed evoluzione (coloratissima!) del sound ‘deviniano’ (confermato poi nello splendido “Lightwork” del 2022), è anche una sfida rivolta al metal tutto. L’album è un composito monolite ‘babelico’ (ossimoro voluto) caratterizzato da azzardi e funambolismi sonori che solo l’esperienza e la ‘messa a fuoco’ artistica del Nostro sono capaci di maneggiare. Una miscellanea stilistica dove bordate death si giustappongono ad aperture solari, in cui elegie orchestrali sono interrotte da beat danzerecci o riffoni math-thrash. “Genesis” rappresenta al meglio tale audacia. Ma non è la sola, ovviamente, all’interno del platter.

Se il ‘nuovo’ metal, nelle sue varie forme, avrà un decimo della freschezza e della credibilità compositiva di “Empath”, allora possiamo dormire sonni tranquilli…

18) “Excelsior” (IMPERIAL TRIUMPHANT – “Alphaville”, 2020)

Non ho mai avuto simpatia per le band i cui membri celano il proprio volto. E gli Imperial Triumphant non fanno eccezione. A rendermeli ancora più antipatici è l’hype mediatico che si è creato intorno al loro monicker e alla loro proposta già con il precedente “Vile Luxury” (2018). Artisti illuminati e ’avanti’ o saltimbanchi ai limiti della gaglioffata? Ho ascoltato parecchio i loro dischi e la sensazione di esser preso per i fondelli dai tre newyorkesi è sempre più forte. Si prenda, ad esempio, questa “Excelsior” (e soprattutto se ne guardi il videoclip!), idealtipica di questo non-genere suonato dagli Imperial Triumphant. Metal d’avanguardia lo potremmo definire, che prende a prestito da diversi stilemi estremi (death, black, doom) per miscelarli con la fusion e con suggestioni metropolitane grazie ad un uso dell’elettronica a tratti spregiudicato. Tanto da risultare forzato e artisticamente poco sincero, almeno alle mie orecchie. La pietanza finale è qualcosa di fortemente indigesto per il sottoscritto che però, ahimè, non può negare che questo tipo di esperimenti potranno essere (anzi, lo sono già…) un terreno fecondo per il ‘nuovo’ metal…

19) Hypnosis” (SLEEP TOKEN – “This Place Will Become Your Tomb”, 2021)

Non so se vi ho già detto che non prova molta simpatia per le band i cui membri celano il proprio volto…e gli Sleep Token non fanno eccezione. Oddio, con loro non so neppure se stiamo parlando di metal (Metal Archives neppure li inserisce in database). Ma tant’è…Sleep Token di qua, Sleep Token di là, tutti li cercano e tutti li vogliono. E (quasi) tutti li incensano. C’è chi, addirittura, parla di ‘cambio di paradigma’ per il metal con la band (collettivo?) londinese. Il "mega cappello" sotto il quale li si fa ricadere è l’alternative metal che, come abbiamo già avuto modo di dire più volte su Metal Mirror, non identifica alcunchè. Vessel 1 e 2 (!), i membri stabili del progetto (ma non bastavano i Ghost a usare questi espedienti per catturare l’attenzione?!?), si muovono tra l’indie rock, il nu e il post metal e la sempre più invasiva contemporary R&B, incorporando elementi di pop, soul ed elettronica. Provando anche a scimmiottare penosamente i Tool. Il tutto guidato da una emo-voce, quella di Vessel 1, lagnosa fino all’inverosimile. “Hypnosis” è emblematica di quanto sopra, compresa una coda di una settantina di secondi in cui i Nostri provano a mostrare il lato duro della cosa, con partitura djent (ma perché?!?) e un improvviso switch della voce in fry scream (ri-perché?!?). La sensazione è di un’operazione studiata a tavolino, con i brani che miscelano gli ingredienti in modo freddo, scolastico. Non armonioso.

Ma com’è il detto? Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace.

E gli Sleep Token piacciono, come dimostrano le visualizzazioni a 7 cifre dei loro video. Facciamocene una ragione…

20) “To the Hellfire” (LORNA SHORE – “…and I Return to Nothingness”, 2021)

iTunes, TikTok, reactions, likes, engagements, Spotify visualizations…il nuovo metal corre anche (soprattutto?) su questi canali/piattaforme veicolate dalla Rete. Capaci di generare, ad arte, il famigerato hype per determinate uscite a venire. È quello che è successo con gli americani Lorna Shore e questo loro EP del 2021 che ha saputo pavimentare la strada per il boom dell’anno successivo, avvenuto con “Pain Remains”. Se da un lato i Lorna Shore hanno avuto un passato piuttosto sfigato, è certo che hanno davanti a sé un futuro radioso. Merito di quei canali su elencati, di un’immagine che tira e un frontman, Will Ramos, che in questi ultimi anni ha fatto parlare molto di sé e del suo cantato. Symphonic death metal, la loro proposta, capace di riprendere la tradizione di band vecchie (Dimmu Borgir, Cradle of Filth) e nuove (su tutte, i nostri Fleshgod Apocalypse) e rinverdirle alla luce del metalcore e di uno spleen tutto contemporaneo. La produzione e il battage della Century Media, il vestiario non-metal, le pose da depressi e il look di Ramos fanno il resto.

Occhio però a non farsi ingannare dal bellissimo logo della band in stile True Norwegian BM

21) “Móló” (THY CATAFALQUE – “Vadak”, 2021)

Non saprei dire se l’avantgarde metal di Mr. Tamás Kátai dall’Ungheria possa rappresentare un filone rappresentativo di ‘nuovo’ metal. Ma non posso non notare quanto metal (e già ne abbiamo visto degli esempi importanti in questa rassegna), a maggior ragione se parliamo di one-man-band, sempre più concepisca lunghe suite progressive in cui veicolare non solo la propria formazione 'metallara' (spesso estrema e facente riferimento al black o al death) ma anche tutte quelle sensazioni interiori, più ‘mature’. Con uno sguardo rivolto da un lato alla propria interiorità e dall’altro alla Natura e al folklore delle proprie radici nazionali. Si usano sempre più strumenti provenienti, appunto, dalla tradizione popolare (nel caso di Kátai, oltre agli ormai sdoganati sax, violino, violoncello e cornamusa, anche molti strumenti di provenienza araba e indiana). Il risultato è a volte, come per i Thy Catafalque, talmente elevato che il Nostro, dopo vent’anni di musica composta in studio e lì rimasta, ha deciso, proprio dopo la pubblicazione del pluri-acclamato “Vadak”, di aprirsi ai live. 

“Móló”, nei suoi 10’ di durata, è un ottimo esempio di questo filone che passa senza timori da una forma di extreme metal, in cui trovano spazio stilemi doom, death, black e prog, per arrivare ad una coda elettronica che rimanda alla kosmische.

Cioè, non so se mi spiego…(probabilmente no…)

22) “Ronin” (IBARAKI – “Rashomon”, 2022)

Volevo inserire nella rassegna sia i Trivium che Ihsahn ma poi questo sensazionale side-project di Matt Heafy mi ha consentito di prendere i canonici due piccioni con una fava. Il leader dei Trivium, volendo rendere omaggio alle sue origini natie nipponiche, imbarca Mr. Vegard Sverre Tveitan (Ihsahn) e butta giù un’ora buona di clamoroso metallo progressivo moderno-che-più-moderno-non-si-può. Nella concezione, nella cover, nella produzione, nel numero di ospiti illustri che-manco-Lucassen (troviamo pure prezzemolino Nergal nell’ottima “Akamu”), nell’impegnativo titolo che rimanda al capolavoro cinematografico del 1950 di Akira Kurosawa. E nella scelta delle sonorità. In “Ronin”, brano più rappresentativo e lungo del lotto con i suoi 9’ abbondanti, presenzia addirittura Gerard Way, singer dei pluripremiati e acclamati My Chemical Romance. Ma, si badi bene, siamo lontani da un metal plasticoso o easy listening. Anzi. Heafy, non rinunciando ad una notevole complessità di scrittura, riesce a compenetrare entrambe le caratteristiche dei progetti principali, cioè il metalcore progressivo dei Trivium e l’extreme metal sperimentale di Ihsahn in un mirabile e fragile equilibrio in cui pieni e vuoti, parti serrate e dilatate, brutalità deathcore e prelibatezze progressive, stanno assieme che è una gioia per le orecchie. Senza mai un calo di qualità o tensione. Le linee melodiche sono ispiratissime, le idee abbonano senza essere ridondanti o superflue e non si scade mai in orientalismi fini a se stessi (anzi, la tradizione giapponese è presente solo nei titoli e nella cover ma di fatto non fa parte integrante del sound).

Siamo perciò nell’ampio alveo di quel metal ‘bulimico’ prima menzionato. Un ‘nuovo’ metal che non teme di farsi sincretico in modo vertiginoso. Ed è davvero un gran bel sentire…

23) “Scourge of the Offspring” (CATTLE DECAPITATION – “Terrasite”, 2023)

Si può rendere ‘orecchiabile’ quello che, assieme al funeral doom, è il sottogenere metal più ‘respingente’? Cioè il brutal technical death? No, non parrebbe possibile.

Anzi, si. Si può.

Lo hanno fatto in passato e lo stanno facendo oggi i californiani Cattle Decapitation, ormai una delle realtà più affermate e apprezzate dai metalheads di mezzo mondo. Le band death metal, vecchie e nuove, durante la crisi del genere arrivata presto dopo gli sfarzi di inizio ’90, si sono trovate davanti a un bivio: o continuare a riproporre pedissequamente gli stilemi con cui il genere era nato, oppure provare a inserire piccole variazioni sul tema per evitare la sindrome da ‘fiato corto’. La tendenza del death metal ‘moderno’, ormai è chiaro, va verso lidi technical sulla scia di band fondamentali esplose tra fine ’90 e primi anni ’00 (Decapitated, Dying Fetus, Cryptopsy, Nile, Ulcerate, Rivers of Nihil fino ad arrivare alla next big thing dei Blood Incantation). Ma i Cattle Decap sono in assoluto coloro che hanno traghettato verso il mainstream (termine da prendere con le pinze, ovviamente) questo genere così ostico. Come? Essenzialmente grazie a una serie di accorgimenti tanto semplici quanto complessi da realizzare con credibilità: un sensazionale uso della voce di Travis Ryan, versatile ed incredibilmente espressiva; una produzione cristallina (finanzia la Metal Blade con Diego Otero dietro al mixer), capace di valorizzare tutti gli strumenti in modo nitido ma senza rinunciare all’impatto del sound; poi refrain che, in un contesto di brutalità, si aprono alla ricerca melodica e a una certa ariosità; e infine un uso delle tastiere mai invadente e volto a sottolineare alcuni passaggi carichi di pathos. Se a questi elementi tecnici aggiungiamo un fil rouge tematico, a sfondo ambientalista-apocalittico che lega i dischi dei Nostri, beh avremo quello che è attualmente il miglior death metal possibile. I brani che esprimono quanto sopra descritto sono molteplici nella discografia dei californiani (in particolare da “Monolith of Inhumanity”, 2012, ad oggi) quindi la soggettiva scelta di “Scourge of the Offspring” va considerata come semplice esempio in una miriade di grandissime songs in repertorio…

24) “Abyss Perihelion Transit” (DØDHEIMSGARD - “Black Medium Current”, 2023)

A rinverdire l’audacia sperimentale che il black metal norvegese ha saputo esprimere già dalla metà degli anni novanta (Ved Buens Ende, In The Woods...), la band più credibile rimasta in gioco oggi sono senz’altro i DHG di Vicotnik che, dopo 8 anni di silenzio dal precedente “A Umbra Omega”, irrompono sul mercato con questi 70’ di metal d’avanguardia coi fiocchi. Impossibile da descrivere, il sound dei Nostri è un perenne vagare tra lo spazio infinito fuori di noi e quello, altrettanto infinito, dentro di noi…(The Abyss / It heard me speak / in its mind)

Con un approccio sempre progressivo, Vicotnik compone una musica estrema che ingloba rock sperimentale e il black più canonico, il post-rock e scorie industrial. E tanto altro. Optiamo per gli 11’ di “Abyss Perihelion Transit” perché, già dal titolo, è programmatica di come i DHG concepiscano il metal nel 2023. Senza paletti o steccati che ne limitino la portata. Perchè, ci sembrano voler dire già dalla copertina, l’uomo, di limiti, non ne ha…

25) “Atlantic” (THE OCEAN – “Holocene”, 2023)

Chiudiamo con quello che è, personalmente, un auspicio di quello che potrebbe essere un’importante branca del ‘nuovo’ metal. Cioè quanto proposto dai Campioni The Ocean che, con l’ultimo “Holocene”, hanno, come abbiamo già scritto su queste pagine, superato definitivamente il post-metal per rifondarlo in un’ottica, concettuale e compositiva, di rock a 360°. All’insegna di una delicatezza e raffinatezza di scrittura degne di pochi ‘illuminati’. C’è l’imbarazzo della scelta da cui pescare in questo capolavoro ma alla fine optiamo per “Atlantic”, simbolicamente posta al centro della tracklist, che, in quasi 9’, rappresenta il perfetto ponte di congiunzione di tutta la tradizione post-neurosisiana degli ultimi 20 anni con quel rock “aperto” che fa del sincretismo stilistico il suo credo, senza tema di pescare dall’elettronica come dal prog e dal jazz. Semplicemente, i migliori

+1) “Invincible” (TOOL – “Fear Inoculum”, 2019)

Non si può scrivere una rassegna del genere e far finta che non sia uscito un loro nuovo album. Li inseriamo a parte, però. I Tool. Che dire? Se ne escono con “Fear Inoculum” a 13 anni da “Lateralus”, ‘mangiando’ in testa al 95% della concorrenza. È ancora ‘nuovo’ metal il loro, come lo fu “Ænima” nel ‘96? Non saprei dire. Stilisticamente siamo sempre nella costellazione del Tool-sound che procede, con rigore e con coerenza evolutiva, alla destrutturazione del formato canzone, virando verso lidi sempre più rock con piglio progressivo; sfruttando l’enormità tecnico-compositiva dei suoi membri e un Keenan funzionalmente sotto le righe. Disco a trazione ritmica con l’accoppiata Carey-Chancellor che, come sempre, fa paura per precisione e inventiva: indescrivibili. Come sono indescrivibili i brani di questo disco. Più che canzoni, viaggi esperienziali, artwork sonori. Scegliamo “Invincible” ma qualsiasi momento della tracklist sarebbe andato bene ugualmente…si, un metal del futuro ma che sono in grado di comporre solo loro. Invincibili

Conclusioni: tirando le fila della precedente rassegna, il nostro mementomori era potuto giungere a delle ficcanti, e profonde, riflessioni sul ‘nuovo metal’, individuando due anni cardine nel passaggio dal ‘vecchio’ al ‘nuovo’ (1993 e 1996) e la relativa pubblicazione di dischi-pilastri di questo nuovo corso (“Undertow” e “Ænima” dei Tool; “Enemy of the Sun” e “Through Silver in Blood” dei Neurosis; “Filosofem” dei Burzum). Le direttrici lungo le quali il ‘nuovo metal’ si stava sviluppando erano quindi quelle di un neo-progressive, del post-hardcore e di un post-black con importanti caratteristiche stilistiche e concettuali, vicine ad un “intimo cantautorato”.

La nostra analisi, al contrario, ci pare dimostri una tendenza a lavorare in continuità con quelle linee, senza particolari innovazioni di linguaggio musicale ma, semmai, schiacciando il piede sul pedale della ‘contaminazione’, estremizzando il concetto di ‘mash-up’ che, ricordiamo, mira a mischiare matrici diverse per arrivare a una nuova unità coerente e autonoma. Da un lato, quindi, una sorta di post neo-prog che fa della ‘bulimia’ stilemica il suo trademark; e dall’altro un gran-calderone-post in cui, all’interno di un singolo disco, possiamo ritrovare sottogeneri diversissimi tra loro che copulano allegramente in santa pace. Un rimescolamento, quindi, delle carte in gioco, senza inserirne di nuove nel mazzo (?).

Quello che ci pare importante sottolineare, rispetto a questi ultimi 10 anni di storia metallica (2013-2023) è proprio l’allargamento del campo d’azione del Metallo: i suoi confini, se ancora esistono, sono amplissimi, gli steccati sono quasi del tutto abbattuti, sfociando in territori ‘altri’ (si pensi, a titolo esemplificativo, alla parabola artistica dei Leprous, paradigmatica di quanto detto). Certo, il metal ha da tempo flirtato con l’ambient, la drone, e l’elettronica ma quello a cui assistiamo oggi è sicuramente qualcosa di più strutturato, invasivo. E, se vogliamo, anche di più ‘naturale’. Frutto anche della maggior apertura mentale delle nuove generazioni di musicisti metal che accolgono, immaginiamo, più di buon grado le contaminazioni che, fino a 30 anni fa, erano invece viste con maggior sorpresa e/o diffidenza (quando non del tutto rigettate). In una contesto, quello odierno, in cui vi è sempre più metal 'autoriale' rispetto alle forme dello scorso secolo in cui il metal era vissuto in modo più 'comunitario', da consumare live con un pubblico fedele che formava un tutt'uno con la band sul palco.

A parer di chi scrive, il filone che sta dicendo le cose più interessanti continua a essere il black che, sdoganato anche nei ‘salotti bene’ e giustapposto persino ad altre forme di espressione artistica (video e body art, fotografia, pittura, la c.d. happening, ecc.) è quello che, per sua natura intrinseca, riesce a inglobare qualsiasi altro stilema in modo credibile e con risultati esaltanti.

Tutto oro quello che luccica? Assolutamente no. Il ‘mash-up’ di cui sopra, se non supportato da una chiara visione artistica, misura e capacità di scrittura ed esecuzione, rischia di produrre tanta confusione e risultati scadenti. Oltre a risultare di difficile ascolto, ‘pesante’. E gli esempi, in tal senso, abbondano (abbiamo provato a inserirne un paio di casi nella Rassegna).

E i generi classici? Beh, di certo non sono morti e le band storiche, utilizzando le nuove tecnologie in studio e appoggiandosi a un mestiere acquisito in diversi decenni, riescono ancora a rendersi interessanti, provando a innestare qualche ‘variazione sul tema’. Un passettino a destra, uno a sinistra, uno avanti (ma con lo sguardo rivolto legittimamente all’indietro). Thrash, death, heavy classico, prog, power, symphonic…tutti vivi e vegeti. E lo vediamo bene anche nelle bill dei festival estivi quando nomi storici e non di questi filoni sono ancora tra gli headliner e attirano fiumi di persone.

Quindi, cari defenders, non temete: gli Udo della Terza Decade del Terzo Millennio esistono, sono tanti e lottano insieme a noi!

Anzi, dopo questa abbuffata di Nuovo Metal, mi vado ad ascoltare a bomba il nuovo "Touchdown" di Mr. Dirkschneider, che ne ho bisogno. 

E arrivederci al ‘nuovo metal’ del 2034…

A cura di Morningrise