Mi ricollego al trittico di articoli sul nuovo "nuovo metal" appena pubblicati sul nostro blog e lo faccio con un paio di live-report di happening musicali che secondo me ben esprimono lo spirito dei nostri tempi: parlo del Perpetual Flame, evento ideato da Lingua Ignota, e del Beyond the Redshift, festival curato dai Cult of Luna. Ci siamo infatti molto interrogati in passato su quale fosse il futuro del metal, abbiamo cercato di individuare delle traiettorie in divenire, ma forse sbagliando il punto di partenza, ossia circoscrivere la nostra indagine all'interno del metal, quando in realtà è proprio al confine, o poco al di là dello stesso, che si possono rintracciare tendenze che veramente sanno guardare al futuro e che riguardano il nostro genere preferito più di quanto ci si possa aspettare.
Il Perpetual Flame, giunto quest'anno alla seconda edizione, è un evento musicale ideato da Kristin Hayter, artisticamente nota come Lingua Ignota, e KW Campol dei Vile Creature (sludge/doom metal dall'Ontario). Non è un festival vero e proprio, considerato il numero esiguo di gruppi, ma una due-giorni che vede protagonista la Hayter entrambe le serate come headliner con diversi artisti e gruppi a farle da spalla: la violoncellista londinese Jo Quail e il duo electro-dark HIDE il primo giorno, gli avant-extreme metaller Ashenspire e i post-hardcore noise-rocker KEN Mode il secondo. Insomma, una “festa” in musica fondata sulla libertà di espressione e sul crossover fra generi e che sa mettere insieme metal estremo e cantautorato, hardcore, noise, elettronica ed altro ancora. Quanto a noi, abbiamo avuto il piacere di partecipare alla seconda giornata dell'evento, tenutasi il 14 ottobre scorso.
Fa un po’ effetto ritornare all’Inslington Assembly Hall dopo così tanto tempo. E' da prima della pandemia che non vi ho più fatto ritorno, anzi, fu proprio qui che ebbe luogo il mio ultimo concerto prima della pandemia (Abbath, 27/01/2020). Mi sta particolarmente a cuore l'Islington Assembly Hall, ci ho sempre visto buoni concerti (Ulver, Batushka, Therion, Primordial, Katatonia, Daughters i primi che mi vengono in mente), goduti in uno spazio confortevole (né troppo grande né troppo piccolo) e con un’ottima acustica. Il piacere è raddoppiato nell’immergersi in un pubblico variegato (metallari estremi, goth, hipster, intellettualoidi, casi umani di varia natura ed estrazione) che fa da specchio ad una serata ibrida e gender fluid per eccellenza.
Aprono gli Ashenspire, autori di uno degli album più dirompenti degli ultimi anni, quell'“Hostile Architecture” che l'anno scorso si è aggiudicato pareri positivi un po' ovunque e in modo trasversale, nonostante la proposta di ultra-nicchia. La band, dichiaratamente anti-capitalista ed artisticamente di vocazione destrutturante, è un destabilizzante pugno nello stomaco, la sublimazione definitiva dell'avant-gard metal, ma l’impatto scenico è ancora più destabilizzante. Si presentano in sei sul palco e mai compagine è apparsa ai miei occhi più bizzarra e sconclusionata.
Nell’ordine: chitarrista metallaro con frangia anni ottanta (pessima presenza), chitarrista nerd con barba e maglietta casual (già meglio, seppur fuori luogo), bassista tarchiato dai tratti orientali (basso a cinque corde - più un personaggio da fusion che da metal), batterista nella media (che poi, ridendo e scherzando, è Alasdair Dunn, il leader e cantante dalla band, ma che dal vivo non canta). E poi, dulcis in fundo, i pezzi meglio: uno scatenatissimo sassofonista in pantaloncini blu dell’Adidas, scarpe da tennis e fasce in latex su petto nudo, e il live-vocalist Rylan Gleave, coscia lunga, mini pantaloncini aderenti, vistosamente truccato e splendidamente iper-effemminato (insomma, un Achille Lauro dell’avant black!). Sono questi ultimi due a catturare l'attenzione del pubblico con gesti scomposti e plateali, laddove gli altri sembrano essere maggiormente focalizzati sui propri strumenti.
Fra luci rosse e gialle passano nel sottofondo immagini in bianco e nero di palazzi che crollano a rinforzare l’aura decadente e nichilista che permea la musica della band: un extreme metal schizzato e dissonante, sconquassato da continui cambi di tempo, squarciato da rasoiate di sax e dal recitato delirante di Gleave. L’impressione, nel complesso, è di assistere ad una jam session fra Ved Buens Ende....., Dodheimsgard e Current 93. Un plauso al buon Gleave, sorta di David Tibet spiritato che con le proprie folli declamazioni, via via acuite in un acido screaming, regala una performance vocale energica e pregna di pathos.
Colpisce subito nel segno l'imponente opener “Béton Brut”, una decina di minuti in cui capita praticamente di tutto, fra blast-beat e fughe di sax ai limiti del free-jazz ed affossanti rallentamenti che fanno emergere il lato più metal e blackish della proposta. L’effetto sorpresa scema un poco con il procedere dei brani, ma il set rimane coinvolgente, visto che la musica dei Nostri ha sempre un asso nella manica pronto per stupire o deliziare il pubblico (si pensi all’incipit jazz-noir di “The Law of Asbestos”). Ma il brano che più di tutti si fa piacere è la visionaria “Mariners at Perdition’s Lighthouse”, quella che fu il primo singolo della band e che poi venne inclusa nel debut album "Speak not of the Laudanum Quandary", resa stasera in modo magnifico fra epici mid-tempo e tragiche immagini "marinaresche" a fare da sfondo.
Bravi, ma faranno ancora meglio i KEN Mode che arrogantemente non mi ero preoccupato di capire chi fossero e cosa facessero prima di vederli salire sul palco. Mi aveva scoraggiato il nome: essendo quest’anno uscito il film su Barbie ho automaticamente pensato ad un monicker ironico che si rifacesse a Ken. KEN, in verità, non è il nome del patinato fidanzato della bambola più famosa del mondo, ma un acronimo che sta per Kill Everyone Now. E c'è da dire che la band sul palco sa tener fede al proprio monicker.
Non si tratta del resto di gente alle prime armi: la formazione canadese è a giro da più di vent’anni e con ben nove album alle spalle. Nati come terzetto, i Nostri hanno di recente accolto nell'organico la tastierista/sassofonista Kathryn Kerr, che porta punte di avanguardia ad un ottimo mix di (rabbiossissimo) post-hardcore e noise-rock. Jesse Matthewson, diviso fra microfono e chitarra, non lesina energie, ma tutto il gruppo sembra voler dare il meglio di sé, con il fratello Shane solidissimo dietro alle pelli e Skot Hamilton che si fa valere alle quattro corde (veramente impressionante la sua prestazione, tanto che lo definirei uno dei bassisti più brutali che abbia mai visto dal vivo, sia per la presenza fisica – sembrerebbe egli avere una età anagrafica maggiore rispetto ai suoi compagni – che per il suo basso iper-distorto e il modo muscolare con cui viene suonato).
Suoni al vetriolo, ritmiche secche e precise e voci corrosive (Hamilton dà una mano anche dietro al microfono) per brani dall’incedere apocalittico che trovano il proprio apice nei dieci minuti di “Lost Grip”, che parte pacata ed ossessiva (con piano e sintetizzatori a conferire stralci di dolente melodia) per poi esprimersi e prendere corpo in un inesorabile crescendo, fino all'esplosione definitiva che oserei definire di intensità neurosiana. Tolta questa parentesi, i quattro preferiscono settarsi sulla "modalità uccidi tutti adesso", viaggiando su ritmi più sostenuti e martellanti, ma senza mai annoiare, mostrando una varietà che non mi sarei aspettato da una band di estrazione noise/hardcore. I Nostri meritano un approdondimento e per chi fosse interessato consiglio l'ottimo “Null” del 2022.
Come si suol dire in questi casi: tutto molto bello, ma il meglio deve ancora venire. Giunge l'atteso momento della divina Kristin Hayter alias Lingua Ignota. Sono passati circa quattro anni dall’ultima volta che la vidi dal vivo e devo ammettere che nel frattempo la ragazza ne ha fatta di strada. Se all’epoca eravamo tutti strippati in una saletta di ridotte dimensioni, adesso siamo stipati in un locale ben più ampio che stasera registra il sold-out (voglio ricordare che sono ben due le date suonate a Londra). Un'affluenza di pubblico che è certamente dovuta al fatto che questi sono gli ultimi colpi dal vivo con il monicker Lingua Ignota, visto che nel novembre dello scorso anno è stata annunciata la fine del progetto: trattandosi della trasposizione in musica di traumi legati a molestie ed abusi sessuali subiti in passato, la Nostra ha dichiarato la volontà di non indugiare ulteriormente su esperienze tanto dolorose per lei e dunque guardare avanti (il 20 ottobre - una settimana circa dopo il concerto - sarebbe poi uscito "Saved!", il primo album della nuova era sotto la denominazione Reverend Kristin Michael Hayther, nda).
Ricordo, inoltre, che la buona Kristin si allestiva da sola il palco e la scenografia, mentre oggi sono tre o quattro gli energumeni che posizionano per lei le luci e l’imponente pianoforte a coda che stanzia tronfio in mezzo al palco (quattro anni fa la Nostra disponeva invece solo di una tastiera). Questo farebbe pensare ad una artista che si è montata la testa. Niente di più lontano dalla realtà: durante tutto il concerto, oltre alla bravura, la cantante dispenserà grande umiltà, a partire dall'inconveniente verificatosi all'inizio dell'esibizione (qualche cavo difettoso o fuori posto?) che la vede prontamente scusarsi con il pubblico dopo il botto di un jack tolto o messo nel momento sbagliato.
Il palco è praticamente lasciato nell’oscurità, l'unica fonte di luce sono quattro lampade al neon disposte sul lato sinistro del palco: sembrano quattro ceri da chiesa, come a voler iniettare sacralità all'evento (scelta scenografica di grande suggestione). Sullo sfondo è installato un pannello dove verranno proiettate immagini bucoliche e legate all’America rurale. Lasciatesi alla spalle le asperità industriali, oggi l'artista parla infatti il linguaggio di un folk-cantautorato profondamente radicato nella tradizione gospel e spiritual americana e che, a livello di visioni, sembra volersi immergere in un torbido immaginario southern gothic.
A dominare è il rimbombo tetro del pianoforte, ora scordato, ora accompagnato dal suono sgangherato di catene e campane, ora funestato dai rigurgiti rumoristici che hanno caratterizzato il passato artistico della cantante. Per tutta la prima parte del set la Nostra canterà e basta, spalleggiata da musica pre-registrata: una scelta a cui si fa caso fino ad un certo punto, visto che tutta l’attenzione sarà calamitata dalle incredibili doti vocali. Dobbiamo toglierci dalla testa la prova fisica di qualche anno fa per calarci nei panni di una artista più matura e posata, interessata ad approfondire il lato più aulico della sua visione, in una sorte di ideale cammino dagli abissi alla Luce: siamo a metà strada fra una messa cantata ed una seduta di psicoanalisi.
L’ultimo album rilasciato come Lingua Ignota “Sinner Get Ready” (del 2022) viene riproposto per intero ed occupa la maggior parte della scaletta, contrariamente a quanto accaduto la sera precedente dove “Caligula” tornava a ruggire (per il sottoscritto una discreta botta di fortuna: entrambe le opzioni non mi sarebbero dispiaciute, ma potendo scegliere, avrei optato proprio per la scaletta di stasera, visto che il buon “Caligula” lo avevo testato dal vivo la volta precedente). La cantante, abbandonati canotta e leggings, si muove nella penombra in uno strano abito verde trasparente che pare una versione sobria del look adottato da Bjork nelle sue esibizioni dal vivo.
Attacca “Many Hands” e già tutti gli occhi e gli orecchi sono rapiti dal canto dolente di Kristin che risuona vibrante in un silenzio quasi chiesastico. Già con la successiva “The Order of Spiritual Virgins” troviamo un highlight della serata: il brano dal vivo diviene uno strazio che appare infinito, con la cantante che si porta su una passerella sul lato sinistro del palco, di spalle al muro (appena rischiarato dalla lampade, la parete del locale sembra quella di una chiesa). La voce portentosa gorgheggia dispensando dolore ed afflizione, un lamento che raggiunge vette operistiche e che va a scontrarsi con il fragore di minacciosi pattern industriali e percussioni dal cupo ed inesorabile incedere rituale.
“Repent Now Confess Now” alza i toni e nella sua ossessività innesca un climax che vedrà il suo apice con “Man Is like a Spring Flower”, a parere del sottoscritto il momento più intenso della serata. La cantante, che usa gli spazi del locale in modo dinamico e creativo (come già era successo la volta scorsa nella piccola saletta dell’Oslo), si porta al lato destro, il mio lato, praticamente ad un metro di distanza da dove mi trovo. Da quella pedana così vicina esplode finalmente la furia iconoclasta che era stata trattenuta fino a quel momento. La prova canora è da brividi e la Nostra torna a sfoderare quel feroce screaming che l'aveva caratterizzata in passato: niente effetti, niente filtri, solo la voce nuda, potentissima, lacerante.
La cantante dunque scende e continua a cantare penetrando fra il pubblico che crea varchi per lasciarla passare: un must di tutti i concerti di Lingua Ignota che, nonostante la crescita di popolarità, ama ancora darsi al pubblico in modo assoluto ed incondizionato. Le stesse sensazioni si avranno successivamente con la tesa “I Who Bend the Tall Grasses”, unico altro episodio in cui la cantante tira fuori gli artigli per squarciare l’ennesima perla di intimismo, questa volta supportata dalle trame austere di un organo.
Da segnalare inoltre la presenza in scaletta di due traditional (“Talk About Suffering” e “Nothing but the Blood of Jesus”), sofferti canti di dolore che si amalgamano perfettamente al repertorio della cantante e che vanno ad anticipare la svolta "spiritual" della sua ultima incarnazione artistica. Nel sottofondo continuano a scorrere immagini di praterie, fattorie, fiumi, erba ed alberi che si muovono al vento, immagini bucoliche che via via vengono scosse da scene di violenza o inquietanti vecchie riprese di feste e riti religiosi celebrati da comunità rurali. Sporadicamente compaiono e scompaiono scritte che hanno la consistenza di messaggi subliminali.
Giunge infine il momento di sedersi al pianoforte: la parte conclusiva del set inanella tre brani uno più bello dell’altro: “The Sacred Linament of Judgement”, “Perpetual Flame of Centralia” ed “If the Poison Won’t Take You My Dogs Will” (unico estratto da “Caligula” ed altro momento topico della serata). Il lirismo di Kristin raggiunge il suo apice in questa fase, mentre le dita stanche, ormai spossate dall’intensità di tutta l’ora precedente, ricadono pesantemente sui tasti di avorio. Il tutto poi si conclude con “Pennsylvania Furnace”, istant classic da "Sinner Get Ready".
Meno Diamanda Galàs e più Reverend Kristin Michael Hayther, la Nostra conserva una irrequietudine di fondo che ce la restituisce ancora molto tormentata nonostante il suo faticoso cammino verso la Luce. Soprattutto, è sempre dannatamente in grado di dispensare grandissime emozioni, da studio come dal vivo. E per una volta tanto il pubblico si dimostra all'altezza della situazione, seguendo con interesse, devozione e religioso silenzio la performance della cantante, che si riaffaccia un'ultima volta per ringraziare sentitamente il pubblico e fare gli onori di casa, visto che sta giungendo alla sua conclusione il Perpetual Flame (Volume 2).
Esco molto contento dal locale e mentre mi faccio i dieci minuti a piedi per arrivare alla stazione della metropolitana, mi riguardo i video appena fatti con il cellulare. Attraverso il quartiere di Angel, che trovo ulteriormente imbellito rispetto a come lo ricordavo, ricco di vita con i suoi ristoranti, pub e locali notturni. Alzo la testa dallo schermo mentre attraverso la strada e per un istante incrocio lo sguardo di una bellissima e giovanissima ragazza super-agghindata per il sabato sera. Noto che distoglie subito lo sguardo rivolgendolo altrove e passandomi velocemente oltre, chissà, forse intimorita dalla mia presenza (non nego che dopo un concerto in genere assumo le sembianze del classico pazzo di legno dagli occhi spiritati - per lo più sudato e spossato dalle emozioni e dall'alcol).
Poverina, si sarà ritenuta la regina della notte, avrà pensato che stessi nutrendo interesse per lei, non sospettando minimamente (e mi vien da sorridere) che di lei non me ne è fregato proprio un gran cazzo! Ero infatti in un altro mondo: nella testa, come nel cuore colmo di emozioni intensissime, avevo ancora l'eco e le vibrazioni di una serata spettacolare segnata dal carisma di Kristin Hayter, alias (ancora per poco) Lingua Ignota, Nostra Signora del Dolore...