15 ott 2024

WHAT'S...NU? GUIDA RAPIDA AI 30 ANNI DEL "NU" METAL (2/2)


 


Proseguiamo il nostro countdown cronologico per celebrare i 30 anni del Nu Metal.

Nella scorsa puntata ci eravamo fermati alla posizione n.08, con i redivivi Linkin Park (da poco tornati in pista, dopo 7 anni di iato, con un nuovo album, "From Zero", e una nuova frontwoman, Emily Armstrong).

E ripartiamo dai...

07) LIMP BIZKIT – “Chocolate Starfish and the Hot Dog Flavored Water” (17/10/2000)

Tan tan, tantan tantan, tantan tantan

Quante c@#!o di volte avremo canticchiato in testa il motivetto di Mission Impossible: II (magari senza saperne titolo e autore)?

Ecco: colpa loro. Dei Limp Bizkit.

I Limp Bizkit: una sorta di bug. Una devianza. Amati da molti. Ma detestati, in ambito metal, dai più. Ma in questa Rassegna conta non solo la qualità, ma soprattutto la rappresentatività e l’importanza delle uscite discografiche selezionate.

Dopo due album di grande successo, i floridiani sono, nel 2000, sulla cresta dell’onda, grazie anche al succitato singolone, “Take a Look Around”, inserita qui in scaletta.

Fred Durst e i suoi fidi compari possono oggettivamente considerarsi tra i padri del nu metal, seppur esordirono 3 anni più tardi rispetto ai Korn. Ma, volenti o nolenti, bisogna farci i conti. Personalmente faccio fatica a digerirli ma è innegabile che i Nostri sappiano dire la loro, tanto nelle parti più groovy e danzerecce quanto in quelle melodiche e rilassate (si senta, a titolo esemplificativo, l’ottima “The One” od “Hold On”). Il disco, in cui anche DJ Lethal si ritaglia il suo spazio con scratching funzionali e mai invasivi, è ambizioso, di ampio respiro (1h e un quarto di durata) in cui il nu metal è usato per imbastardirlo con tutta una pletora di stilemi alt che vanno dal rap fino al (post)grunge. Il risultato è ipervitaminico (sontuosa prova in fase di produzione del solito Terry Date) e provocatorio a partire dal titolo e dalla copertina, volutamente oscena. Così come ispira una naturale antipatia il video del tormentone “Rollin’ (Air Raid Vehicle)”.

Per tanti questo album coinciderà con il sapore del titolo, una bevanda dal sapore di hot dog, e avrà effetti immediati sull’ultimo tratto del proprio intestino (il chocolate starfish, appunto…) ma, se si vuole ripercorrere la storia del nu metal, questa tappa al cess…ehm, all’ascolto dei Limp Bizkit va assolutamente percorsa…

06) PAPA ROACH – “Infest” (25/04/2000). Dalle sapienti mani del produttore Jay Baumgardner (già con Ugly Kid Joe, Helmet, Godsmack e compagnia alternative), esce questo instant classic dei Papa Roach, band che ho sempre spregiato non foss’altro che per l’orrendo monicker. Nel 1993, alla nascita del progetto, l’idea di base del frontman Jacoby Sheddix e del drummer Dave Buckner era quella di creare una rap/rock band. Ed effettivamente l’impostazione rap e hip hop dei californiani è evidente, in particolare nella metrica delle strofe che esplodono poi in ritornelli trascinanti. Trainati dai 199” del singolo-cult “Last Resort” (un brano che conoscono anche i sassi: ‘cause I’m losing my sight / losing my mind / wish somebody would tell me I’m fine) l’album, va detto, sa far muovere le chiappe: vi sfido a rimaner fermi al ritmo dell’opener/title track o della potente “Dead Cell”. La formula è semplice e ripetuta per tutto l’arco del disco che, nei suoi 45’ di durata, propone una tracklist di brani sempre sotto i 4 minuti e strutturati in modo analogo. Nonostante ciò, l’insieme è quasi sempre fresco e ispirato con la grassa chitarra di Jerry Horton a dettare legge e sui riffoni della quale Shaddix vomita sull’ascoltatore rabbia e disagio. Si prova anche qualche rallentamento arpeggiato (“Between Angels and Insects”), e interessanti variazioni sul tema: la cangiante “Broken Home”, “Revenge” (con tanto di scratching ad opera di DJ AM) o la conclusiva, reggaeata, “Tightrope”; ma, per i non appassionati, il rischio stucchevolezza è dietro l’angolo. Del resto, è un rischio quasi connaturato al nu metal stesso…per chi invece apprezza, ci si munisca di una bottiglietta di baygon e si affronti quello scarafaggione che ci guarda in tralice dalla copertina…

05) COAL CHAMBER – “Chamber Music” (07/09/1999)

Dopo la valanga di critiche piovutagli addosso in seguito alla pubblicazione dell’omonimo debut album (che rimane comunque un disco imprescindibile per ricostruire la storia del nu metal), causata dalla eccessiva derivatività della proposta, la band californiana capitanata da Dez Fafara prova a mischiare le carte in tavola distaccandosi dal sound di Korn e Deftones. E lo fa assoldando da un lato Josh Abraham alla produzione (che, di lì a breve, diventerà un guru del pop/rock da classifica) e dall’altro una pletora di guest musicians (per lo più DJ, keyboardists e altri mastruzzoni della programmazione). Il risultato è un album che, su una base nu (del resto, oh, pare sia stato proprio dopo un loro concerto del 1997 che il termine fu coniato da un giornalista della rivista Spin), ingloba, in pura filosofia alternative, diverse sfaccettature. Corpose iniezioni di melodia, si alternano e/o si innervano a riffoni groovy, reminiscenze industrial ed elettroniche. I brani dal tiro cazzuto non mancano (si senta l’ottima accoppiata iniziale “Tragedy” – “El Cuy Cuy”) ma non si disdegnano momenti più riflessivi o lisergici (“Burgundy”) o schizoidi con un Fafara che sussurra compulsivamente la stessa frase, come nel caso del singolone “Not Living”. La scelta, poi, di coverizzare “Shock the Monkey” di Peter Gabriel (dal disco omonimo del 1982), con l’ospitata di Ozzy alla voce, li facilita nell’ingresso mainstream, supportati come si deve dalla Roadrunner. Ancora una volta la critica si divide: genio o paraculaggine? Probabilmente una via di mezzo ma, di certo, una band che, oltre ad essere tra i prime movers del filone, non può essere trascurata nella nostra Rassegna.

E poi…su, diciamocelo: come si può resistere a quello sguardo angelico di Anahstasia (moglie di Fafara) che dalla copertina imbraccia un violoncello seduta su un ramo sospeso in cielo?!?

04) SLIPKNOT – “Slipknot” (29/06/1999)

È imbarazzante provare a scrivere qualcosa di originale, o quantomeno non scontato, su un disco che, chi ha la mia età lo ricorda bene, fu una vera e proprio bomba atomica esplosa nel firmamento metal in quei giorni di inizio estate del ’99. Le riviste specializzate ci schiaffarono in piena faccia ‘sto cazzo di nasone pinocchiesco di gomma con alle spalle 9 loschi figuri mascherati, vestiti con tutone da operaio numerate dallo “#0” all’ “#8” che, cristosanto!, sembravano usciti dal peggior incubo di un Hannibal Lecter in acido. E il mezzo minuto dell’intro “742617000027”, con il suo ripetuto L’intera faccenda, penso sia malata!, ci introduceva ad un assalto sonoro che, a distanza di un quarto di secolo, fa ancora tanto, tanto male.

Il primo quarto d’ora dell’album, da “(sic)” a “Spit It Out”, entra di diritto nella Storia del Metal tutto, con un rosario di hit da far impallidire la concorrenza (oltre alle due già citate, vanno ricordate le splendide “Eyeless” e “Wait and Bleed”). E il resto non era da meno (si sentano “Liberate”, “Prosthetics” e “Scissors” a titolo esemplificativo)

“Slipknot” era oggettivamente quanto di più violento avesse espresso il genere fino ad allora: le lezioni korniane, infatti, venivano riprese e rifrullate con un campionario di armamenti sonori (scratches, voci registrate, tribalità assortite) che davano vita a un qualcosa di inaudito. Anche perché i Nostri pescavano a piene mani dal loro background thrash e death (radici omaggiate soprattutto nella conclusiva, corrosiva “Eeyore”) per innestarvi poi l’approccio tipicamente alternative, con stilemi che spaziavano dal rap all’industrial. Corey Taylor, poi, si dimostrava sin da subito un fuoriclasse del microfono riuscendo a coniugare quasi ogni tipo di cantato: dall’oscuro crooning al rapping; dallo screaming allo shouting, fino a un melodico molto espressivo. Pauroso…

La classe e l’inventiva al drum-kit di Joey Jordison (quanto ci manca, Joey! R.I.P.) da un lato e la produzione opprimente del solito Ross Robinson dall’altro completavano l’opera.

Un’opera decisiva per il metal che si stava affacciando sul Terzo Millennio.

E ricordate: You can’t see California without Marlon Brando’s eyes!

03) STATIC-X – “Wisconsin Death Trip” (23/03/1999)

Ci addentriamo in territori “spinosi” con gli Static-X della buonanima di Wayne “Static” R. Wells, istrionico singer dal look à-la Wolverine. Come abbiamo visto per i Linkin Park, anche per la band californiana ci fu l’immediato investimento della Warner Bros che licenziò il qui presente debut. Introdotti da una copertina che rimanda a una rivisitazione in chiave post-moderna de “L’urlo” di Munch, allo schiacciare del tasto play, l’hit song “Push It” e le successive schegge di “Wisconsin Death Trip” non lasciano tregua, in un connubio caustico di industrial (fondamentale il lavoro del chitarrista e programmatore della band, il nipponico Koichi Fukuda) e groove metal (importante l’influenza dei Sepultura di “Roots”), attraversato da umori sì marziali e secchi ma che, a differenza di altri album dello stesso filone, non lasciano spazio ad algido distacco robotico. No, il disagio emotivo tipico del nu metal ci investe in modo disturbante (“Love Dump” è emblematica in tal senso) in un approccio che pare avere imparato molto dalle lezioni dei Godflesh. Wayne riversa sull’ascoltatore urla belluine di rabbia e dolore che, si avverte subito, non è posticcio (provate a rimanere indifferenti davanti ai 3 minuti scarsi di “Stem”). E i 6 minuti finali psych-indutrial di “December”, lungi dal cospargere balsamo sulle ferite inferte dal sound dei Nostri, non fa che scavare malessere ancora più nel profondo. Il resto lo fa la produzione del braccio destro di Terry Date, Ulrich Wild: oscura, non troppo pulita, prediligendo il mantenimento di una patina cupa che ti si appiccica alla pelle come catrame.

Realizzato con un badget di appena 50.000 dollari, WDT venderà uno scatafascio di copie, diventando disco di platino. Da quel momento, gli Static-X diventarono una band ultra-richiesta per colonne sonore di film e videogiochi.

Decretandone un successo che li fa entrare di diritto nella nostra top ten.

02) SYSTEM OF A DOWN - "System of a Down" (30/06/1998)

I californiani, di origine armena, SOAD sono, ai miei occhi, la coscienza politica del nu metal: con il loro sensazionale debut album, le spinose tematiche affrontate nei brani (dal genocidio degli armeni alla pedofilia nella Chiesa; dall'estremismo religioso al controllo delle masse da parte del Potere) diventano parte decisiva del messaggio musicale. Introdotto da una copertina dai potenti significati storico-politici, il riffone nu di "Suite Pee" ci travolge con ritmo e con una carica groovy da far tremare i muri di casa! La premiata coppia Tankian - Malakian, assecondati dalle sapienti doti di Rick Rubin alla consolle, mettono assieme 13 schegge, per appena 40 minuti, in cui condensano tutti gli ingredienti del loro alt metal che, da lì a tre anni, con "Toxicity", avrebbe conquistato il mondo intero. Oltre agli stilemi tipicamente alternative (chiara l'influenza dei Jane's Addiction) i Nostri dosano sapientemente il thrash con l'hip hop; giocosità rock, quasi zappiane, con chiari rimandi alla musica folk mediorientale. E molto, molto altro. Serj, con le sue bizzarrie vocali, i numerosi registri vocali utilizzati e la sua pronuncia immediatamente riconoscibile, è l'arma in più di questa band stilisticamente unica. Le "Chop Suey!", "Toxicity" o "Cigaro" erano ancora da divenire, ma è già con questo debut album omonimo che si spiega il fenomeno SOAD e le meritate milionate di copie vendute in tutto il mondo. 

01) DEFTONES – “Around the Fur” (28/10/1997)

Se dovessimo giudicare i Deftones dalla scelta delle copertine credo che non rientrebbero in nessuna delle nostre classifiche: la ‘peretta’ rosa di “Adrenaline” (1995) era già una scelta discutibile, ma i Nostri riescono due anni dopo a far sin peggio con l’inquadratura dall’alto di una fanciulla in bikini (e un altro paio di piedi nudi tagliati in basso a dx) col petto bagnato (acqua? sudore?). Ad ogni modo, “Around the Fur” è semplicemente, per chi scrive, uno dei miglior album nu metal di sempre. Nonostante, o proprio per questo, travalichi il genere per abbracciare le influenze più disparate (dalla darkwave, all’emo-core, dal thrash groovy allo shoegaze). E non è un caso che, da lì in avanti, l’alt metal tutto avrebbe dovuto fare i conti con questo disco. L’incipit di “My Own Summer (Shove It)” è memorabile, iconico, con un testo (I think God it’s moving its tongue / There are no crowds in the street / and no sun in my own summer) che si sa fare espressione universale del disagio giovanile che la voce di Chino Moreno sapeva esprimere in modo plastico.

Certo, i Deftones avevano al proprio arco diverse frecce: la sezione ritmica del compianto Chi Chen e di Abe Cunningham era avvolgente e corposa; le chitarre, spesso dissonanti, di Carpenter rimandavano a uno spleen di grungesca memoria, e la produzione di Terry Date, beh ecchetelodicoafa’! Ma è inutile girarci attorno: il valore aggiunto della band era il singer di origine messicana che sapeva modulare il suo cantato rendendolo vero e proprio strumento aggiunto: da dolenti sussurri si passava di botto a scartavetranti urla belluine; o da un parlato filtrato a un violento cantato rap (si ascolti la furiosa “Headup” con l’ospitata di Max Cavalera alla voce e chitarra). Ma comunque in ogni frangente Chino era capace di far immedesimare e coinvolgere emotivamente l’ascoltatore.

I Deftones faranno di meglio con il successivo “White Pony” ma è con l’urgenza di "Around the Fur" che segneranno un benchmark per l’intero nu metal.

+1) KORN – Korn (11/10/1994)

E torniamo da dove eravamo partiti. Ad un album epocale sul quale sarebbe impossibile, per il sottoscritto, scrivere qualcosa di vagamente non-già-detto/scritto. Che ci si trovasse davanti a un instant classic, lo ricordo bene anch’io quando, sulle riviste specializzate, uscirono le recensioni del disco: quella bimba sull’altalena, dall’aria sorpresa e innocente, la sua ombra “impiccata” alla gamba della “K” del monicker della band, la silhouette, con il capo reclinato, di un novello, psicotico, Freddy Krueger davanti. E schiacciando il tasto play, le cose non rendevano le cose più “rilassanti”. Anzi: il tintinnio del piatto e i giri di chitarra e basso che vi si innestano sopra, l’”Are you Ready?” ripetuto ad libitum prima dello scoppio del riffone di Brian Welch…”Blind” diventa manifesto di un genere, canzone-simbolo di tutti coloro i quali nei sussurri e nelle urla di dolore di Jonathan Davis, nei suoi singulti e nelle sue reali lacrime versate in “Daddy”, riconoscevano un’analoga esperienza di vita, altrettanto tragica. Un’ora abbondante di musica, marcata a fuoco da un rosario di hit-songs che, oltre a far esplodere la carriera di Ross Robinson come produttore, sarà la pietra miliare dalla quale partire non solo per band che avrebbero di lì in avanti iniziato la loro carriera, ma persino per gruppi con alle spalle anni di affermata carriera (Sepultura in primis).

Dopo aver ascoltato l’album, tutti noi fummo certi di una cosa 30 anni fa: che un nuovo modo di fare metal era sorto. Che i suoi stilemi erano stati codificati. E quindi, avrebbero potuti essere duplicati da altre band (cosa che avvenne subito, come abbiamo visto). Del resto, così nasce un “genere”.

Un genere che, volenti o nolenti, ci avrebbe accompagnato per molti anni a venire…

This place inside my mind / A place where I can hide / […]

A place inside my brain / Another kind of pain / […]

Another place I find / to escape the pain inside /

You don’t know the chances / What if I should die?!” (J. Davies, “Blind”)

A cura di Morningrise