Finchè c’è da scherzare, scherziamo. Con
annessa sdegnosa noncuranza, ai limiti dello snobismo. Ma questa mini-rassegna
vuole essere un post ‘serio’. E celebrativo. Celebrativo di una
ricorrenza che, piaccia o meno, attiene a un fenomeno che ha trasformato il
volto del metal. Che da esso è, anzi, stato preso per mano e portato a livelli
di popolarità e diffusione raramente (mai?) toccati in precedenza.
Parliamo del tanto vituperato, da
noi, nu metal. Parliamo dei 30 anni, oggi, del debut omonimo
di Jonathan Davies & co.
“Korn”. 11/10/1994
Facciamo un passo indietro. Anzi, più
d’uno.
15 maggio 1986: esce “Raising Hell”, terzo disco in studio dei rapper
newyorkesi Run -D.M.C. Alla produzione, quel furbacchione di Rick
Rubin (all’epoca appena 23enne) che fa incontrare il terzetto del
Queens con Steven Tyler degli Aerosmith per una
riproposizione, a oltre 10 anni di distanza, della hit “Walk This Way”
(da “Toys in the Attic”, 1975).
Sdegno? Scandalo? No, successone
planetario. Ragazzi afroamericani che, tra uno scratch e l’altro, rappano, su
una base rock guidata dalla sei corde di Joe Perry, il testo di un
brano composto da icone del Rock. Boston che si unisce alla Grande Mela.
Come se vedessimo i Red Sox & gli Yankees (una rivalità storica, ai limiti
del patologico) che giocano un’amichevole di baseball, divertendosi pure un
mondo. E invece. La magia si accende dando luogo ai primi vagiti del
crossover che verrà. Il rock che non teme di copulare con l’hip pop afro di
matrice bronxiana.
Da lì, sarà un attimo che l’elettronica,
il funk, l’hard-core punk e certe venature blues/soul si mescolino assieme,
dando vita a quel calderone immenso dove dentro ci sta(rà) un po’ di tutto.
È l’alternative. Rock.
Ma anche metal: è del giugno ’91 (anno di
una certa importanza storica per il rock…) la pubblicazione di “Attack of
the Killer B’s” degli Anthrax che scandalizza il conservatore mondo metal
con “Bring the Noise”, composta in collaborazione con i celebri
rapper Public Enemy.
L’alt metal, lo
abbiamo già scritto, è un’etichetta di comodo che comprende
(a volte, loro malgrado!) le band più disparate: dai Primus agli Helmet, dai
Ministry ai Rage Against The Machine, dai Mr. Bungle ai Corrosion of Conformity, giusto per fare
una manciata di nomi. Ma soprattutto sono Jane's Addiction da un lato e Faith No More
dall’altro a dare popolarità a un non-genere che fa
dell’attitudine irriverente e della volontà di abbattere steccati le
sue coordinate principali.
Il Festival del Lollapalooza,
voluto da Perry Farrell proprio a partire dal 1991 per radunare le sonorità
più alt in circolazione, sarà la certificazione di un
movimento senza precedenti. Con Rick Rubin che, da “Blood
Sugar Sex Magik” dei Red Hot Chili Peppers in giù (sempre nel 1991!), presenzia
dietro alla consolle delle più importanti uscite del settore
Ma mancava ancora qualcosa. Per portare il
crossover a un livello ancora più estremo. Inquietante. E
‘cattivo’.
E quel livello lo raggiunsero i Korn.
Anzi, i KoЯn. Con “Korn”. Nell’iconografia. Con la copertina. Nelle
liriche. Nelle tematiche. E, ovviamente, nel sound.
Le lezioni groovy dei Pantera e dei coevi
Machine Head venivano frullate con tutto l’armamentario crossover/alternative
di cui sopra, dando vita ad un monolite pesantissimo e claustrofobico.
Angosciante. Decisiva fu la produzione di Ross Robinson, all’epoca
27enne, reduce nel 1992 dal clamoroso risultato di "The Crimson Idol" degli W.A.S.P.
Da lì in avanti, Robinson sarà il padrino di
quasi tutti gli album più importanti del c.d. nu metal.
Insomma, via le camicione di flanella, i
jeans sdruciti e le Converse ai piedi: l’armamentario grunge veniva sostituito da un look che
esprimeva in modo plastico il disagio, anch’esso emotivo ed esperienziale,
dell’artista ‘alternativo’: pantaloni super-abbondanti di due misure più
ampi, Adidas ai piedi, cappellini sportivi messi al contrario,
magliette con disegni ‘oversize”, felpe con cappuccio, piercing e tatuaggi in
ogni dove, capelli con treccine, magari a tinte fluo e altre diavolerie ‘a sentimento’.
Ma bando all’immagine e concentriamoci
sulla musica. 10 band, e 10 dischi (+1),
imprescindibili. E che, nel nostro intento, dovrebbero saper
esprimere le diverse sfaccettature di un movimento che, presenta sì tratti
identitari, ma che ha saputo esprimere vari aspetti stilistici. Come
sempre, senza la pretesa di essere esaustivi.
Stavolta, il nostro ordine sarà
‘rovesciato’: dal più recente al più datato. In un rigoroso countdown cronologico che,
speriamo, possa essere gradito.
Partiamo con i…
10) DISTURBED – “Believe”
(17/09/2002)
I primi 7 minuti di “Believe”, dei pluri
decorati/acclamati chicaghiani Disturbed, sono un manifesto dell’allora
affermazione, ormai consacrata da tempo, del nu metal. Infatti
“Prayer” prima (con il suo riff portante che smuoverebbe un cadavere e
il suo ritornello in clean Let me enlighten you / This is the way I
pray) e la korniana “Liberate” dopo, catapultano il disco ai
vertici di Billboard con un quarto di mln di copie vendute
nella prima settimana (sic!). E parliamo sempre di metal, comunque…Prodotto impeccabilmente da John Karkazis, reduce l’anno prima dalla produzione di
“Supercharger” dei Machine Head, l’album ha nel carisma vocale di David
Draiman e il gusto ritmico del chitarrista Dan Donegan i
suoi punti di forza. In particolare, l’ugola di Draiman ti cattura, potente,
aspra al punto giusto ma capace, nel breve volgere di un secondo, di farsi
melliflua e lacrimevole (clamoroso il suo lavoro in “Awaken” e “Rise” dove
mischia n registri perfettamente amalgamati tra loro).
Ruffiani e un po’ paraculi? Forse. Ma questo disco, bisogna
ammetterlo, ha parecchie frecce al proprio arco. In particolare, oltre alla
succitata accoppiata iniziale, l’uno-due di “Believe” e della celebre “Remember”
dove i Nostri, anche a livello di songwriting, dimostrano di saper inserire
diverse variazioni sul tema. Nota di merito per la ballad conclusiva “Darkness”
che fa persino uso di un toccante violoncello. Da lì in avanti, la strada sarà
in discesa per i Disturbed con 17 mln di copie vendute e uno status di rock
band di successo planetario, con live sold out e i componenti
trattati quasi come divinità.
La conferma definitiva, se mai ce ne fosse
stato bisogno, che il nu metal fosse diventato mainstream…
09) P.O.D. – “Satellite”
(11/09/2001). Eh si…il quarto disco della band di San Diego esce proprio quel
fatidico giorno…Ormai a giro da oltre un trentennio, i pagabile alla
morte trovano nell’ispirazione cristiana del suo leader e
singer, Sonny Sandoval, un tratto distintivo. Se già avevano fatto
il botto con la loro terza release del 1999, “The Fundamental Elements of
Southtown” che conteneva un paio di singoli di grande successo, trasmessi
in heavy rotation su MTV, sono i singoli di “Satellite” (oltre
7 mln di copie vendute!) che li consacrano definitivamente come una band nu metal
ai vertici: potrete non sapere chi sono i P.O.D. ma conoscerete, volenti o
nolenti, “Set It Off” (magistrali le strofe arpeggiate, il bridge “filtrato” e
le esplosioni del chorus), o “Alive” il cui ritornello è stato uno dei
tormentoni che hanno marcato a fuoco quell’epoca (I, I feel so alive / for
the very first time […], and I think I can fly!”). Discorso a parte per “Youth
of the Nation”: il suo oscuro arpeggio iniziale, guidato dalle percussioni,
e il “We are we are…the youth of the nation!”, cantato in coro, si configura
come un vero e proprio inno che ha saputo trascendere il genere e
che, nelle poetiche e lancinanti lyrics, ci sputava in faccia le storture di
una società, quella statunitense, marcia e seriamente malata; marchiata a
fuoco, due anni prima, dall’eccidio della Columbine High School.
Prodotto divinamente dal fido Howard
Benson (già con i Sanctuary e Motörhead e futura guida dei My Chemical
Romance), “Satellite” è un capolavoro del nu metal in cui l’eredità alternative
(geniale la collaborazione in “Ridicolous” con l’artista raggae jamaicano Eek-A-Mouse)
si sposa perfettamente con quella groovy e in your face che il
genere prevede. Senza rinunciare a uno scavo intimista prezioso, esplicato
nella splendida “Anything Right”, nata da una collaborazione con i rocker
svedesi Blindside. Un must.
08) LINKIN PARK – “Hybrid
Theory” (24/10/2000)
Se mi avessero detto 10 anni fa, agli
albori di Metal Mirror, che avrei scritto qualcosa di positivo sui Linkin Park
non ci avrei minimamente creduto. E invece…le vie di MM sono infinite ed
eccomi qui a trattare una band che, ricordo, all’epoca era vista dal popolo
metallaro come la peggior versione mainstream possibile di
qualcosa che, nonostante la critica lì li inglobasse, metal non era.
Del resto, come nella maggior parte delle band nu, look e atteggiamenti e immaginario
dei Linkin Park rimandavano al mondo hip hop/rap.
“Hybrid Theory”, debutto della band,
usciva per una super-major come la Warner Bros, che evidentemente subodorava
già l’affare. I primi 6 minuti dell’accoppiata “Papercut” – “One Step Closer”
giravano a manetta con i rispettivi video su MTV e la buonanima di
Bennington, all’epoca giovane 24enne dal look maudit, divenne, in
men che non si dica, il frontman di maggior successo del pianeta. I LP
piacevano a tutti, belli&brutti, e il successivo “Meteora” (2003),
trainato dal tormentone “Numb” (3 minuti di iconicità nu) avrebbero
soltanto confermato un successo che non pareva poter fermarsi. La formula
vincente si basava sull’alternarsi delle due voci: quella di Mike Shinoda, per
le strofe rap supportate dalla sezione ritmica e dai samples (gestiti dallo
stesso Shinoda), e quella di Chester che, tra un clean dolente
e un raschioso urlìo, era capace, in particolare nei chorus catartici dei
brani, di interpretare in modo intimo e passionale le lyrics dei suoi brani,
incentrati sulla sua infanzia profondamente disagiata.
Musicalmente si era davanti a qualcosa di
‘leggerino’, strutture basiche che si ripetevano per tutti i brevi brani in
scaletta. Ma l’impatto di questo disco e di questa band è innegabile. E a distanza di un quarto di secolo, comunque, quel “Crawling
in my skin / These wounds, they will not heal / Fear i show I fall / Confusing
what is real” di “Crawling” o il “I tried so hard and got so far / But
in the end, it doesn't even matter / I had to fall to lose it all / But in the
end, it doesn't even matter” di “In the End” sono ancora capaci di
colpire dentro con forza, colonne sonore di un periodo
che, volenti o nolenti, tutti abbiamo vissuto.
A cura di Morningrise
(Continua e finisce nel prossimo post)