"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 ott 2024

WHAT'S...NU? GUIDA RAPIDA AI 30 ANNI DEL "NU" METAL (1/2)




Finchè c’è da scherzare, scherziamo. Con annessa sdegnosa noncuranza, ai limiti dello snobismo. Ma questa mini-rassegna vuole essere un post ‘serio’. E celebrativo. Celebrativo di una ricorrenza che, piaccia o meno, attiene a un fenomeno che ha trasformato il volto del metal. Che da esso è, anzi, stato preso per mano e portato a livelli di popolarità e diffusione raramente (mai?) toccati in precedenza.

Parliamo del tanto vituperato, da noi, nu metal. Parliamo dei 30 anni, oggi, del debut omonimo di Jonathan Davies & co.

“Korn”. 11/10/1994

Facciamo un passo indietro. Anzi, più d’uno.

15 maggio 1986: esce “Raising Hell”, terzo disco in studio dei rapper newyorkesi Run -D.M.C. Alla produzione, quel furbacchione di Rick Rubin (all’epoca appena 23enne) che fa incontrare il terzetto del Queens con Steven Tyler degli Aerosmith per una riproposizione, a oltre 10 anni di distanza, della hit “Walk This Way” (da “Toys in the Attic”, 1975).

Sdegno? Scandalo? No, successone planetario. Ragazzi afroamericani che, tra uno scratch e l’altro, rappano, su una base rock guidata dalla sei corde di Joe Perry, il testo di un brano composto da icone del Rock. Boston che si unisce alla Grande Mela. Come se vedessimo i Red Sox & gli Yankees (una rivalità storica, ai limiti del patologico) che giocano un’amichevole di baseball, divertendosi pure un mondo. E invece. La magia si accende dando luogo ai primi vagiti del crossover che verrà. Il rock che non teme di copulare con l’hip pop afro di matrice bronxiana.

Da lì, sarà un attimo che l’elettronica, il funk, l’hard-core punk e certe venature blues/soul si mescolino assieme, dando vita a quel calderone immenso dove dentro ci sta(rà) un po’ di tutto.

È l’alternative. Rock.

Ma anche metal: è del giugno ’91 (anno di una certa importanza storica per il rock…) la pubblicazione di “Attack of the Killer B’s” degli Anthrax che scandalizza il conservatore mondo metal con “Bring the Noise”, composta in collaborazione con i celebri rapper Public Enemy.

L’alt metal, lo abbiamo già scritto, è un’etichetta di comodo che comprende (a volte, loro malgrado!) le band più disparate: dai Primus agli Helmet, dai Ministry ai Rage Against The Machine, dai Mr. Bungle ai Corrosion of Conformity, giusto per fare una manciata di nomi. Ma soprattutto sono Jane's Addiction da un lato e Faith No More dall’altro a dare popolarità a un non-genere che fa dell’attitudine irriverente e della volontà di abbattere steccati le sue coordinate principali.

Il Festival del Lollapalooza, voluto da Perry Farrell proprio a partire dal 1991 per radunare le sonorità più alt in circolazione, sarà la certificazione di un movimento senza precedenti. Con Rick Rubin che, da “Blood Sugar Sex Magik” dei Red Hot Chili Peppers in giù (sempre nel 1991!), presenzia dietro alla consolle delle più importanti uscite del settore

Ma mancava ancora qualcosa. Per portare il crossover a un livello ancora più estremo. Inquietante. E ‘cattivo’.

E quel livello lo raggiunsero i Korn. Anzi, i KoЯn. Con “Korn”. Nell’iconografia. Con la copertina. Nelle liriche. Nelle tematiche. E, ovviamente, nel sound.

Le lezioni groovy dei Pantera e dei coevi Machine Head venivano frullate con tutto l’armamentario crossover/alternative di cui sopra, dando vita ad un monolite pesantissimo e claustrofobico. Angosciante. Decisiva fu la produzione di Ross Robinson, all’epoca 27enne, reduce nel 1992 dal clamoroso risultato di "The Crimson Idol" degli W.A.S.P.

Da lì in avanti, Robinson sarà il padrino di quasi tutti gli album più importanti del c.d. nu metal.

Insomma, via le camicione di flanella, i jeans sdruciti e le Converse ai piedi: l’armamentario grunge veniva sostituito da un look che esprimeva in modo plastico il disagio, anch’esso emotivo ed esperienziale, dell’artista ‘alternativo’: pantaloni super-abbondanti di due misure più ampi, Adidas ai piedi, cappellini sportivi messi al contrario, magliette con disegni ‘oversize”, felpe con cappuccio, piercing e tatuaggi in ogni dove, capelli con treccine, magari a tinte fluo e altre diavolerie ‘a sentimento’.

Ma bando all’immagine e concentriamoci sulla musica. 10 band, e 10 dischi (+1), imprescindibili. E che, nel nostro intento, dovrebbero saper esprimere le diverse sfaccettature di un movimento che, presenta sì tratti identitari, ma che ha saputo esprimere vari aspetti stilistici. Come sempre, senza la pretesa di essere esaustivi. 

Stavolta, il nostro ordine sarà ‘rovesciato’: dal più recente al più datato. In un rigoroso countdown cronologico che, speriamo, possa essere gradito.

Partiamo con i…

10) DISTURBED – “Believe” (17/09/2002)

I primi 7 minuti di “Believe”, dei pluri decorati/acclamati chicaghiani Disturbed, sono un manifesto dell’allora affermazione, ormai consacrata da tempo, del nu metal. Infatti “Prayer” prima (con il suo riff portante che smuoverebbe un cadavere e il suo ritornello in clean Let me enlighten you / This is the way I pray) e la korniana “Liberate” dopo, catapultano il disco ai vertici di Billboard con un quarto di mln di copie vendute nella prima settimana (sic!). E parliamo sempre di metal, comunque…Prodotto impeccabilmente da John Karkazis, reduce l’anno prima dalla produzione di “Supercharger” dei Machine Head, l’album ha nel carisma vocale di David Draiman e il gusto ritmico del chitarrista Dan Donegan i suoi punti di forza. In particolare, l’ugola di Draiman ti cattura, potente, aspra al punto giusto ma capace, nel breve volgere di un secondo, di farsi melliflua e lacrimevole (clamoroso il suo lavoro in “Awaken” e “Rise” dove mischia n registri perfettamente amalgamati tra loro). Ruffiani e un po’ paraculi? Forse. Ma questo disco, bisogna ammetterlo, ha parecchie frecce al proprio arco. In particolare, oltre alla succitata accoppiata iniziale, l’uno-due di “Believe” e della celebre “Remember” dove i Nostri, anche a livello di songwriting, dimostrano di saper inserire diverse variazioni sul tema. Nota di merito per la ballad conclusiva “Darkness” che fa persino uso di un toccante violoncello. Da lì in avanti, la strada sarà in discesa per i Disturbed con 17 mln di copie vendute e uno status di rock band di successo planetario, con live sold out e i componenti trattati quasi come divinità.

La conferma definitiva, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il nu metal fosse diventato mainstream

09) P.O.D. – “Satellite” (11/09/2001). Eh si…il quarto disco della band di San Diego esce proprio quel fatidico giorno…Ormai a giro da oltre un trentennio, i pagabile alla morte trovano nell’ispirazione cristiana del suo leader e singer, Sonny Sandoval, un tratto distintivo. Se già avevano fatto il botto con la loro terza release del 1999, “The Fundamental Elements of Southtown” che conteneva un paio di singoli di grande successo, trasmessi in heavy rotation su MTV, sono i singoli di “Satellite” (oltre 7 mln di copie vendute!) che li consacrano definitivamente come una band nu metal ai vertici: potrete non sapere chi sono i P.O.D. ma conoscerete, volenti o nolenti, “Set It Off” (magistrali le strofe arpeggiate, il bridge “filtrato” e le esplosioni del chorus), o “Alive” il cui ritornello è stato uno dei tormentoni che hanno marcato a fuoco quell’epoca (I, I feel so alive / for the very first time […], and I think I can fly!”). Discorso a parte per “Youth of the Nation”: il suo oscuro arpeggio iniziale, guidato dalle percussioni, e il “We are we are…the youth of the nation!”, cantato in coro, si configura come un vero e proprio inno che ha saputo trascendere il genere e che, nelle poetiche e lancinanti lyrics, ci sputava in faccia le storture di una società, quella statunitense, marcia e seriamente malata; marchiata a fuoco, due anni prima, dall’eccidio della Columbine High School.

Prodotto divinamente dal fido Howard Benson (già con i Sanctuary e Motörhead e futura guida dei My Chemical Romance), “Satellite” è un capolavoro del nu metal in cui l’eredità alternative (geniale la collaborazione in “Ridicolous” con l’artista raggae jamaicano Eek-A-Mouse) si sposa perfettamente con quella groovy e in your face che il genere prevede. Senza rinunciare a uno scavo intimista prezioso, esplicato nella splendida “Anything Right”, nata da una collaborazione con i rocker svedesi Blindside. Un must.

08) LINKIN PARK – “Hybrid Theory” (24/10/2000)

Se mi avessero detto 10 anni fa, agli albori di Metal Mirror, che avrei scritto qualcosa di positivo sui Linkin Park non ci avrei minimamente creduto. E invece…le vie di MM sono infinite ed eccomi qui a trattare una band che, ricordo, all’epoca era vista dal popolo metallaro come la peggior versione mainstream possibile di qualcosa che, nonostante la critica lì li inglobasse, metal non era. Del resto, come nella maggior parte delle band nu, look e atteggiamenti e immaginario dei Linkin Park rimandavano al mondo hip hop/rap.

“Hybrid Theory”, debutto della band, usciva per una super-major come la Warner Bros, che evidentemente subodorava già l’affare. I primi 6 minuti dell’accoppiata “Papercut” – “One Step Closer” giravano a manetta con i rispettivi video su MTV e la buonanima di Bennington, all’epoca giovane 24enne dal look maudit, divenne, in men che non si dica, il frontman di maggior successo del pianeta. I LP piacevano a tutti, belli&brutti, e il successivo “Meteora” (2003), trainato dal tormentone “Numb” (3 minuti di iconicità nu) avrebbero soltanto confermato un successo che non pareva poter fermarsi. La formula vincente si basava sull’alternarsi delle due voci: quella di Mike Shinoda, per le strofe rap supportate dalla sezione ritmica e dai samples (gestiti dallo stesso Shinoda), e quella di Chester che, tra un clean dolente e un raschioso urlìo, era capace, in particolare nei chorus catartici dei brani, di interpretare in modo intimo e passionale le lyrics dei suoi brani, incentrati sulla sua infanzia profondamente disagiata.

Musicalmente si era davanti a qualcosa di ‘leggerino’, strutture basiche che si ripetevano per tutti i brevi brani in scaletta. Ma l’impatto di questo disco e di questa band è innegabile. E a distanza di un quarto di secolo, comunque, quel “Crawling in my skin / These wounds, they will not heal / Fear i show I fall / Confusing what is real” di “Crawling” o il “I tried so hard and got so far / But in the end, it doesn't even matter / I had to fall to lose it all / But in the end, it doesn't even matter” di “In the End” sono ancora capaci di colpire dentro con forzacolonne sonore di un periodo che, volenti o nolenti, tutti abbiamo vissuto. 

A cura di Morningrise 

(Continua e finisce nel prossimo post)