19 nov 2015

METAL O NON METAL? UN DILEMMA CHE MATURA NELLA TERRA DI NESSUNO…



I MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL

CONCLUSIONI

Shadows of the Sun”, con cui abbiamo completato la nostra rassegna, non è stata l’ultima sorpresa che ci hanno riservato i grandi Ulver, campioni indiscussi del nostro “torneo”: dopo un’opera interlocutoria come “Wars of the Roses” (nella quale a grandi linee si procedeva lungo i binari stesi dal lavoro precedente), i Nostri hanno avuto l’ardire prima di cimentarsi in un album di cover di brani beat-psichedelici degli anni sessanta (“Childhood’s End”) e poi di confrontarsi con la musica sacra in “Messe I.X-VI.X”, opera sperimentale che li ha visti muoversi in direzione ambient, supportati da un’intera orchestra. Senza poi contare le sperimentazioni drone fatte a braccetto con i maestri Sunn O))) in “Terrestrial”. E chissà quali altri colpi di scena in futuro sapranno inscenare i nostri imprevedibili Lupi!

Quanto a noi, ci fermiamo qua raccogliendo un attimo le idee su quanto ci è stato dato modo di raccontare in questi ultimi mesi.

La conclusione generale è che il metal è un universo così ampio che è capace di contemplare, all’interno del suo dominio, anche la negazione di se stesso. E non è una cosa da tutti. In esso abbiamo trovato cantautorato (Steve Von Till), rock progressivo (Opeth), shoegaze e dream pop (Alcest), elettronica danzereccia ed industrial-rock (Mortiis), ambient e musica cosmica (Wolves in the Throne Room), darkwave e trip-hop (Antimatter), goth-rock (Katatonia), psichedelia e space rock (The Gatheting), ancora psichedelia ed ancora dark-wave (Tiamat), rock à-la Radiohead e Sigur Ros (Anathema) e folk, elettronica d’autore e persino sofisticato pop (Ulver). Direi che gli ambiti esplorati sono molti e decisamente lontani fra di loro, sia a livello temporale/spaziale che concettuale: dal rock degli anni settanta alle ultime tendenze in fatto di shoegaze e post-rock; dal folk degli antichi alla drum’n’bass della metropoli; dal sofferto cantautorato della prateria americana alla dance ballata nei club alternativi.

Ma se l’ambizione e il coraggio di osare non sono mancati, a scarseggiare a volte sono state la sensibilità e la preparazione indispensabili per affrontare determinate sfide. Anche in un contesto ristretto quale è quello rappresentato da una top-ten, ci siamo imbattuti in opere non pienamente riuscite. C’è chi ha toppato in fatto di arrangiamenti, mixaggio e suoni, chi invece ha mostrato una carenza di scrittura e contenuti laddove nella veste metallica aveva saputo eccellere. Il caso paradigmatico è proprio quello da noi citato in apertura: i Paradise Lost, da primi della classe in fatto di gothic-doom, si sono ritrovati impantanati nella palude del synth pop, per poi vedersi costretti successivamente a tornare con le pive nel sacco entro i confini di un canonico doom-death. Per questo, nonostante il curriculum, non abbiamo ritenuto opportuno inserirli nella classifica. E come loro, molti altri nomi illustri (Moonspell, Sundown, Sentenced, Theatre of Tragedy, Lacrimosa, Pyogenesis ecc., tutta gente più o meno proveniente dall’area gotica).

Ad essere ingiustamente esclusa, invece, è stata una grande band, tagliata fuori solo per motivi di spazio: i norvegesi The Third and the Mortal. Nell’arco di soli quattro album e tre EP essi hanno saputo tracciare una parabola che pochi altri nel metal sono stati in grado di compiere. Dal doom atmosferico del debutto “Tears Laid on Earth” (1994) al trip-hop di “Memoirs” (2002), passando per i due album intermedi “Painting on Glass” (1995) e “In this Room” (1997), che potremmo definire avant-rock. L’importante status conferito da un inizio di carriera che li ha visti fra gli esponenti principali del doom/gothic con voce femminile (insieme a The Gathering, Theatre of Tragedy e Within Temptation) non ha impedito, successivamente, forti emorragie di fan lungo il loro azzardato cammino. Una popolarità minata non solo dalla perdita di due cantanti di razza come Kari Rueslatten e Ann-Mari Edvardsen, ma anche da scelte coraggiose che in molti non hanno capito. Si scioglieranno dunque nel 2005: lo stesso identico destino che è stato riservato ai conterranei In the Woods, dissolti nel medesimo periodo dopo che le sperimentazioni operate nel loro terzo ed ultimo album “Strange in Stereo” li aveva portati lontano, troppo lontano, dal black metal ispirato delle origini.

Eccoci dunque ad un altro problema: anche laddove riescano a penetrare in modo credibile nella dimensione Non-Metal, questi migranti del metallo devono confrontarsi con la mancanza di un pubblico a cui rivolgersi, con l’assenza di un target di mercato di riferimento. Per chi suonano gli Ulver? Per chi gli Anathema? Sebbene la bontà delle loro proposte sia fuori discussione, il loro pubblico rimane sostanzialmente composto da quei vecchi fan che li seguono fin dagli esordi. Nella maggior parte dei casi, ahimè, sono più i sostenitori che si perdono che quelli che si guadagnano: perché da un lato il metallaro continua ad ascoltare metal e volge l’attenzione altrove, mentre l’appassionato di elettronica, il fan dei Radiohead e dei Sigur Ros, tutti costoro manco lo sanno chi sono e cosa fanno gli Ulver e gli Anathema.

Non aiutano certamente monicker scelti quando si suonava ancora grezzi e duri. Sebbene Lupi in lingua norvegese non sia il miglior biglietto da visita per introdursi nei salotti buoni dell’elettronica e dell’avanguardia, tutto sommato con gli Ulver ci possiamo ancora stare. E’ invece assurdo stravolgere il proprio sound e continuare a farsi chiamare Anathema, richiamando la filosofia anticristiana incarnata alle origini, peraltro promossa da un membro che non fa più parte da tempo dell’organico. Mi riferisco al cantante Darren White che lasciò presto la band dei fratelli Cavanagh: quegli stessi Cavanagh che oggi propongono un romantico e sdolcinato rock molto vicino stilisticamente al pop da classifica dei Coldplay.   

Si viene dunque a creare quella terra di nessuno che abbiamo richiamato nel titolo del post: una zona attraversata da un gruppo eterogeneo e scollegato di ascoltatori, metallari illuminati, darkettoni curiosi ed attenti cultori del rock. Con il mondo che cambia, con i nuovi canali di comunicazione e di diffusione musicale, con i generi e gli stili che tendono a perdere i loro contorni, e con i giovani d’oggi sempre più privi di preconcetti, forse un giorno esisterà un pubblico, o qualcosa del genere, per questi artisti sospesi fra un passato metal ed un presente non-si-sa-bene-cosa.

Artisti che sopravvivono e che evidentemente hanno senso di esistere anche dal punto di vista del mercato discografico odierno: e questo è un bene, non tanto per i prodotti finali, che, abbiamo visto, non sempre sono eccellenti, ma per il fatto che la creatività, l’ispirazione hanno modo di esprimersi senza ostacoli, senza attriti dettati da confini e dogane che non hanno più senso di esistere. Una affollata dimensione di libera espressione artistica: ecco cosa potrebbe divenire questa che oggi è ancora una terra di nessuno.  

Con queste parole si chiude la nostra classifica, che a sua volta mette il sigillo ad una sorta di trilogia di classifiche. La prima era stata quella dedicata al black metal norvegese: essa ebbe il compito di analizzare quello che probabilmente è da considerare l’ultimo genere “puro” del metal. Il black metal veniva dal punk, dal thrash e dal death, ma non assomigliava a nessuno di essi: si impose come un genere nuovo, con stilemi propri, non più riconducibili a quelli dei generi che lo hanno generato. Se Black Sabbath, Judas Priest e Iron Maiden hanno introdotto degli elementi che hanno segnato la differenza fra hard-rock ed heavy metal; se Metallica e Slayer hanno forgiato il thrash-metal che era cosa ben diversa dall’heavy metal classico; se infine Chuck Schuldiner e i suoi Death hanno sancito il passaggio da thrash a death-metal, Mayhem e Darkthrone sono stati i responsabili della genesi del black (il quale non è post-death metal, sebbene venga dopo di esso).

Poi che successe? Si passò a quello strano mondo che per comodità abbiamo definito il Nuovo Metal: parlandone abbiamo incontrato nuove tendenze, nuovi approcci per forgiare il metallo, fra i quali hanno spiccato il post-hardcore, il post-metal e il post-black metal. La parola “post”, appunto, ci fa capire quanto questi filoni siano derivativi e dipendenti da altri generi (l’hardcore, il post-rock, lo shoegaze): il metal non si rinnova più attraverso una ricerca stilistica, l’invenzione di nuovi stilemi, bensì con la contaminazione, con un metodo che molto spesso coincide con la scelta programmatica di riprodursi tramite copulazione con altri generi musicali.

Eccoci infine fuori dal metal stesso, con tutte quelle band che hanno deciso di abbandonare gli stilemi del metal per recarsi altrove. E non è una coincidenza che proprio in testa a questa ultima classifica andiamo a trovare quegli Ulver che abbiamo appunto avuto modo di trattare nella nostra prima classifica. Nel black metal, evidentemente, era già insita quella spinta propulsiva che avrebbe portato il metal prima a superarsi e poi a negarsi definitivamente.

Nelle nostre intenzioni originarie a questa classifica sarebbe dovuta seguire un’altra che ci avrebbe portato ancora più lontano dal metal: dieci album non metal, fatti da artisti non metal, consigliabili ad un pubblico rigorosamente metal. Tuttavia, pur non escludendo che un’impresa del genere verrà da noi un giorno compiuta, al momento non ce la sentiamo di distoglierci dall’obiettivo primario che ci siamo prefissati nel momento in cui abbiamo creato questo blog: parlare di metal.

Per questa ragione ci ritroveremo presto con una nuova classifica, questa volta dedicata ad un tema moooolto classico

To be continued...