2 gen 2016

CATHEDRAL: "THE VOYAGE OF THE HOMELESS SAPIEN"




I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO

9° CLASSIFICATO: “THE VOYAGE OF THE HOMELESS SAPIEN” (CATHEDRAL)

Doom Metal: esiste forse un genere che più di esso faccia uso del brano di estesa durata? Riff di chitarra prolungati e ritmiche lente richiedono tempi lunghi per spiegarsi adeguatamente.

Il doom è genere antico, possiamo dire che risale all’età della pietra del metal. Perché se il metal ufficialmente vedeva la luce il 13 febbraio 1970 con l’irrompere del leggendario riff che apriva l’omonimo album di debutto dei Black Sabbath, anche il doom, proprio in quel momento, emetteva i primi vagiti. Heavy metal e doom presero poi strade diverse, da un lato i protagonisti della New Wave of British Heavy Metal, dall’altro sempre i Black Sabbath a fare da oscuri cerimonieri. Ma se vi è stata una band capace di riscrivere le regole del doom, quella è stata la band di Lee Dorrian e Garry Gennings: i Cathedral.

Forest of Equilibrium”, anno 1991, s’impose sul mercato discografico con la grazia di un pachiderma ancestrale: cinquantaquattro asfissianti minuti per sole sette tracce. I Cathedral se ne intendevano di pezzi lunghi, ma questa, più che una precisa volontà, era quasi un’inevitabile conseguenza dell’equazione pesantezza + lentezza = lunghezza. Negli anni successivi arriveranno il funeral doom, il depressive black metal, il drone-ambient, ma i Cathedral furono i primi a tirare per davvero la corda.

A proposito di doom e drone-ambient: nel 2002 lo stesso  Dorrian, assieme ai Sunn O))) e a Justin Greaves (Iron Monkey, Electric Wizard, Crippled Black Phoenix), sotto il marchio Teeth of Lions Rule the Divine sfornavano “Rampton” (tre tracce, rispettivamente di 29:25, 7:01 e 17:53), opera terribilis che gettava un ponte fra il doom classico e le derive droniche che prevarranno nel nuovo millennio.

Abbiamo citato i Sunn O))), che certo di brani lunghi se ne intendono. Il loro debutto “00Void” si componeva di quattro brani di un quarto d’ora l’uno. Il successivo “Flight of the Behemoth” contava cinque brani per più di cinquanta minuti di durata complessiva. “White 1” durava quasi un’ora e di brani ne aveva solo quattro; anche “White 2” non scherzava, con la sola variante che di brani ne aveva tre e di minuti ne durava più di sessanta! E se con “Black One” il minutaggio medio iniziava a calare, come possiamo non menzionare la mitica “Bathory Erzsébet” di sedici minuti? Ricordiamo solo che in essa non vi è traccia di batteria, ma solo di chitarre frastornarti e delle grida soffocate di Malefic degli Xasthur rinchiuso per l’occasione in una bara! E’ vero, i Sunn O))) ripresero in modo plateale l’idea agli Earth di Dylan Carlson, che nel 1993 davano alle stampe il caposaldo del genere: quell’”Earth 2” che con i suoi tre pezzi superava i settantatre minuti. Se ne intenderanno gli Earth di brani lunghi?

Ma il metro che abbiamo scelto per distinguere il vino dall’acqua è il carisma. E i Cathedral del loro debutto non sono stati solamente gli autori del primo lavoro veramente estremo di un genere estremo quale è il doom, ma anche dei grandi interpreti, al contrario dei primi Earth e dei Sunn O))), entrambi più interessati al lato concettuale della faccenda.

Mica si frigge con l’acqua! Lee Dorrian veniva dai Napalm Death, che paradossalmente facevano della velocità e della brevità la propria cifra stilistica. Due modi diversi di intendere l’Estremo, il grind e il doom. Ma sia per grind che per il doom continuare ad esistere significava o ripetersi sui medesimi (insuperabili) standard, o cambiare in qualche modo, magari facendo marcia indietro. In entrambi i casi si optò per la seconda via. I Napalm Death, già orfani di Dorrian, con “Harmony Corruption” abbandonarono il grind tout court dei primi due lavori per approdare a strutture più complesse ed ordinate, più vicine al death metal. I Cathedral, con il loro lavoro successivo (“The Ethereal Mirror”, del 1993), si diressero verso un sound più variegato, tributario del doom sabbathiano quanto del rock progressivo e della psichedelia allucinogena degli anni settanta. Svolta “freak” che si evinceva chiaramente dalle foto nelle quali i Nostri preferivano farsi immortalare a piedi nudi seduti sui prati, piuttosto che abbracciare le croci di marmo nei cimiteri.

L’anno successivo, nel 1994, si ebbe la conferma che la via intrapresa dai Cathedral sarebbe stata quella definitiva e non lo sbandamento di un attimo. L’EPStatik Majik” includeva il singolo “Midnight Mountain” (già presente in “The Ethereal Mirror”) e tre inediti, fra i quali una traccia molto particolare: “The Voyage of the Homeless Sapien”, ben ventidue minuti e quarantadue secondi.

Va bene che il doom non teme le lunghe durate, ma sorpassare i venti minuti è un arduo traguardo per chiunque, tenendo anche conto che non erano ancora i tempi in cui nel Reame del Metallo andavano di moda l'ambient e le derive dispersive del post-hardcore. E paradossalmente, nonostante i Cathedral provenissero da un modus operandi che vedeva la lunghezza come una diretta conseguenza della lentezza, nel brano che andiamo ad analizzare non vi è dispersione. Divisa in otto sezioni, “The Voyage of the Homeless Sapien” è classificabile come una suite, anche se a legare le varie parti sono solamente le vicende narrate e non un più ampio "discorso musicale".

Ma questo è facilmente comprensibile: sebbene i Nostri guardassero continuamente alle band del progressive rock degli anni settanta, essi provenivano pur sempre dal metal estremo e non avevano né mezzi né sensibilità per costruire una suite progressiva in senso stretto.

“The Voyage of the Homeless Sapien” è piuttosto un susseguirsi di ambientazioni in cui emergono prepotentemente, più che altrove, le influenze artistiche dei Nostri. Tant'è che il brano sembra essere più un omaggio alle lezioni impartite dai loro beniamini, piuttosto che una rielaborazione compiuta delle stesse.

Che i Cathedral si rifacessero non solo agli imprescindibili Black Sabbath, ma anche a tutta quella schiera di eminenze oscure che del verbo doom fecero la loro bandiera (Candlemass, Saint Vitus, Obsessed, Pentagram, Solitude Aeternus ecc.) non è certo un segreto (fra queste vanno inserite senz'altro anche realtà cult ignote ai più come Witchfinder General, Nigro Mantia, Count Raven e i nostrani Death SS e Paul Chain, con cui peraltro Dorrian ha collaborato). Ma con "The Voyage of the Homeless Sapien" ad emergere vividamente é anche tutta l’ammirazione nutrita nei confronti di quel sottobosco di band che popolavano l’universo folk, acid e progressive degli anni settanta, di cui i Cathedral sono da considerare dei profondi conoscitori. L'approccio è dunque quello dell’amore/fanatismo e la rielaborazione artistica porta con sé l’approccio appassionato di un Tim Burton o di un Quentin Tarantino, che elevano il grande cinema di serie B (sia esso horror, fantascientifico o poliziottesco) ad arte suprema. Parimenti nei Cathedral non c'è spocchia né snobismo, né ambizione: solo voglia di confrontarsi e divertirsi con i generi musicali amati.

Se dunque la musica di Black Widow, High Tide, Atomic Rooster, Blue Cheer, Cirith Ungol, ma anche le pazzie di Gong e Frank Zappa, vanno a confluire nel sound dei Cathedreal, non c’è da scordarsi che gli inglesi, appena due anni prima, dividevano il palco con Carcass, Entombed e Confessor nel famigerato Gods of Grind Tour (era il 1992). Logico pertanto che nelle movenze dei Nostri sopravvivesse il marciume del metallo più pesante da cui essi risalivano.

All'epoca, inoltre, i Cathedral avevano ancora due chitarristi: oltre a Jennings, trovavamo infatti in formazione Adam Lehan (in seguito allontanato per problemi di droga insieme al batterista Mark Warthon). La doppia chitarra, vedremo, non risulterà sempre indispensabile (in futuro i Nostri ne faranno tranquillamente a meno), ma in certi passaggi, soprattutto quelli più pesanti, viene ad emergere per l'ultima volta quell'humus vagamente death metal che verrà in seguito abbandonato.

Il testo del brano si rivela una sequela di visioni allucinogene che fanno lecitamente pensare che per la sua stesura Dorrian si sia trovato in preda ai fumi di qualche sostanza non proprio legale. Immagini coloratissime, derivate da quell'immaginario fanta-bucolico del rock progressivo, si scontrano con le oscure evocazioni del mondo nero del doom, di cui Dorrian è un interprete atipico. Estraneo alle vocalità nasali à-la Ozzy che da sempre costituiscono lo standard per il genere, ma anche lontano dal growl disarticolato utilizzato ai tempi dei Napalm, Dorrian possiede una timbrica indefinibile e dà sfogo al suo estro teatrale gettandosi in una performance bizzarra in cui la sua voce si farà greve, forte, sfibrata, ma anche folle e delirante. Intorno a quelle parole e a quella interpretazione, la band costruirà una baraonda di sensazioni contrastanti che solo i Grandi sanno mettere insieme conferendo al tutto un senso compiuto.

Partenza atmosferica a base di gabbiani, voce filtrata, organo hammond e flautini svolazzanti (“I. Velvet Forest of Enchantment”). Subito di seguito, tanto per compensare, una bella badilata di doom elefantiaco della specie più tignosa (“II. Doomed Man”). Si parlava di Gong e di Zappa non a caso: si guardi ai vocalizzi surreali che spezzano in modo beffardo i riff cavalcanti di “III. Along the Tranquil Riverbanks”. Di metal vischioso e mesti cori di morti si compone invece “IV. Drifting Through Neptune's Veins”. Poi una bella dose di assolo fulminanti (ben tre in stretta successione in “V. Rocket Launched Wizard”) ed infine, per riprendere fiato, una stralunata ballata acustica con un Dorrian svagato e trallallerellante, praticamente irriconoscibile (“VI. The Drifters Theme”). Virate prog con tanto di mellotron lanciato a rotta di collo e flauto magico (“VII. Lands End”) ed un ineffabile finalone a base di esoterismi doom (un crescendo tortuoso di chitarra a cura del buon Jennings, con tanto di spudorato richiamo all’immancabile “Iron Man”), con a seguire un bel monologo delirante di vociaccia roca e sputacchiante su liturgie di organo da chiesa e sciacquone del cesso tirato a fare da chiosa (“VIII. Stone Man Finale”). 

Una tale versatilità rimarrà un’oasi nel deserto roccioso del doom dei Cathedral. Già dal successivo “The Carnival Bizarre” (che vedrà come organico quel dream-team composto da Dorrian/Jennnings/Dixon/Smee che rappresenterà la migliore incarnazione di sempre della band) i Nostri cavalcheranno verso i lidi di un sound granitico volto più al groove che alle divagazioni progressive.

Solo sul finale di carriera i quattro proveranno a bissare i fasti visionari di “The Voyage of the Homeless Sapien”, prima con la suiteThe Garden” (contenuta in “The Garden of Unearthly Delights”), brano di 26:57 (che al suo interno contemplerà, fra le altre cose, voce femminile, violino ed un’impronta spiccatamente folk), e poi con il bel doppio “The Guessing Game”, che saprà esplorare sia il lato duro che quello sperimentale della band di Coventry.

Prima dell’inevitabile chiusura del cerchio con l’ultimo e definitivo capitolo: quel “The Last Spire”, epitaffio oscuro, sigillo grondante mestizia che ricondurrà la Cattedrale alle sfibranti e funeree atmosfere del debutto.