5 nov 2016

INTERVISTE IMPOSSIBILI: DENIS "PIGGY" D'AMOUR PARLA DI PETER HAMMILL



 
5 novembre 1948: nasceva Peter Hammill, uno dei più grandi poeti del rock. I suoi versi struggenti, il suo canto visionario, lo hanno scolpito nell'immaginario collettivo come l'oscuro menestrello che seppe tingere di nero il progressive. Lui e i suoi Van Der Graaf Generator (peraltro tutt'oggi attivi) sono una Leggenda del Rock e in questi ultimi dodici mesi di lutti pesantissimi (da Lemmy a David Bowie, passando per Keith Emerson), noi di Metal Mirror celebriamo la vita di questo straordinario e longevo artista.

Lo facciamo a modo nostro, passando attraverso la Morte, scomodando per la seconda volta dall'Aldilà Denis "Piggy" D'Amour, già da noi interpellato lo scorso 16 maggio per il settantesimo compleanno di Robert Fripp. Come i King Crimson, infatti, anche i Van der Graaf Generator sono stati una influenza fondamentale per i Voivod, fenomeno più unico che raro nell'empireo del thrash metal. Sentiamo cosa ci racconta in proposito il loro defunto chitarrista...

MM: Ehilà Denis, ben ritrovato!
DD: Buongiorno a voi, amici di Metal Mirror!
MM: Grazie anzitutto per la rinnovata disponibilità. Vista l'interessante chiacchierata che avemmo in occasione del compleanno di Robert Fripp, abbiamo pensato di interpellarti anche per festeggiare Peter Hammill, che oggi compie sessantotto anni.
DD: Il piacere è tutto mio: i Van der Graaf Generator, come del resto i King Crimson, sono stati un importante riferimento per la genesi e lo sviluppo del Voivod-sound. Quanto a me, reputo Hammill uno dei più grandi del rock e la sua band una delle mie preferite. Per questo motivo sarà per me un piacere parlare di lui e della sua incredibile musica.
MM: Bene Denis, sono lieto di trovarti ben disposto. Ma prima, come consueto, un paio di domande su di te. Oggi abbiamo pensato a qualcosa di curioso: nella strabiliante discografia dei Voivod, qual è l'album preferito di Denis D'Amour?
DD: Bella domanda! Per un musicista scegliere una delle proprie opere è come per un padre scegliere fra i propri figli: impossibile. In particolare per noi, che ogni volta abbiamo lavorato duramente e con passione, assecondando l'ispirazione del momento, senza cedere a pressioni di tipo commerciale. Non potrò mai dire "feci quel disco per onorare un contratto o compiacere qualcuno": ogni nostro album è figlio di quello che avevamo dentro…
MM: Ok, ok, ma se qualcuno ti puntasse la pistola alla tempia e tu dovessi per forza scegliere?
DD: Nelle condizioni in cui mi trovo adesso (ehm) una revolverata non cambierebbe molto le cose (ride), ma capisco cosa intendi. Se proprio dovessi scegliere, sarei indeciso fra "Dimension Hatross" e "Phobos", ma alla fine opterei per il secondo…
MM: "Phobos??"
DD: Esattamente e ti spiego il perché. Con "Dimension Hatross" raggiungemmo la piena consapevolezza dei mezzi e degli intenti, e il nostro sound assunse un suo profilo specifico, diverso da tutte le altre band thrash dell'epoca: un equilibrio di immediatezza e complessità che venne incrinato (in favore della complessità) già con il successivo "Nothingface", da molti visto come il nostro capolavoro, ma talmente intricato che, in tutta onestà, non metto mai nel giradischi, onde non farmi venire il mal di testa. Un equilibrio che poi abbiamo inseguito per tutto il resto delle carriera e che abbiamo raggiunto nuovamente con "Phobos"... Con la differenza che come musicista ritengo di aver raggiunto in quell'album vette più elevate di maturità compositiva. Sia a livello di squadra che a livello personale. Da un lato l'affiatamento con Michel (Langevin, aka Away) era divenuto qualcosa di incredibile: pensavamo ed agivamo come una persona sola! Del resto dopo l'abbandono di Denis (Belanger, aka Snake) tutta la baracca rimase sulle nostre spalle, e doversi reinventare completamente con un cantante così diverso come Eric Forrest è stato complicato, ma al tempo stesso molto stimolante. In un certo senso è stato come vivere una seconda giovinezza, senza però la mancanza di esperienza e le ansie da prestazione degli inizi.
MM: In effetti questa "linfa vitale", correlata con una grande concentrazione, si percepisce in "Phobos", che vedo decisamente più a fuoco rispetto al precedente "Negatron", il quale, personalmente parlando, mi lasciò un po' perplesso.
DD: I motori dovevano essere rodati, ma una volta che il nuovo trio ebbe modo di trovare la giusta sintonia, i risultati si sono visti. Modestamente parlando ho dato il meglio di me in quella nuova fase. Mentre scrivevo quei pezzi sentivo scorrere in me una rinnovata energia, scaturita dall'adrenalina che mi dava la consapevolezza che di fronte a me si parava una grande sfida: riguadagnare quei fan che ci avevano lasciato dopo l'abbandono di Snake, una voce troppo particolare per essere rimpiazzata nel cuore dei fan. E magari conquistarne di nuovi grazie alle nuove sonorità, più violente ed apocalittiche, ma sempre con il nostro marchio di fabbrica impresso sopra.
MM: Direi che la sfida è stata vinta, perché c'è addirittura chi sostiene oggi che "Phobos" sia stato un album seminale, grazie al quale è stato compiuto un passo importante nello sviluppo delle sonorità post nel metal nel nuovo millennio.
DD: Ah bene! Mi fa piacere quello che dici, anch'io ho sentito voci del genere, anche se però non ho mai avuto la curiosità di approfondire la cosa di persona, visto che il post-hardcore e il post-metal non mi hanno mai attirato pià di tanto. E poi dopo la mia morte mi sono dedicato esclusivamente a vecchi vinili, metal e non...
MM: Vecchi vinili come quelli dei Van der Graaf Generator?
DD: Certo, anche quelli...
MM: Eccoci dunque giunti al tema di oggi: Peter Hammill e i Van der Graaf Generator!
DD: Benissimo, ma prima di procedere con l'intervista devo farti una premessa. I Van der Graaf rientrano sicuramente fra le influenze più importanti per i Voivod, ma come chitarrista non ti nego che sono sempre stato più interessato alla parte strumentale che a quella lirica. Hammill è un grande poeta, ma molti altri ti possono parlare di lui e dei suoi testi in modo più avveduto di quanto possa fare il sottoscritto. Dal mio punto di vista, il suo canto, a volte evocativo, a volte allucinato, è da mettere allo stesso livello degli altri strumenti. A “catturarmi” è la musica nel complesso, quel carattere di imprevedibilità che la anima nell’essenza e mina ogni tipo di certezza. Mi ricordo che uscivamo letteralmente di cervello per certi passaggi veramente estranianti in cui si mescolavano fantastico e fantascientifico, influenzandoci non poco nella nostra visione artistica, in particolare sul lato "spaziale"...
MM: Ecco, soffermiamoci un attimo su questo punto...
DD: Vedi, l'ascoltatore superficiale non troverà molto in comune fra i Voivod e i Van der Graaf, anche perché, contrariamente a noi, essi facevano un uso limitato delle chitarre, forgiando il loro suono principalmente con piaonoforte, basso, organo e fiati. Eppure quando le nostre composizioni cambiavano bruscamente scenario, acceleravano, si attorcigliavano, sfumavano, noi pensavamo proprio ai Van der Graaf. Da questo punto di vista la suite "A Plague of Houselight Keepers" è eloquente: ventitré minuti di follia pura, fra repentini cambi di umore e tempi impossibili. Qui alla tecnica sopraffina dei musicisti si sovrapponeva il talento visionario di Hammill, non solo interprete straordinario, ma anche abile regista, capace di trasformare in musica le immagini generate dalla sua fervida mente.
MM: Denis, affermavi prima che il sound degli inglesi non può definirsi certo chitarra-centrico e questo aspetto per il metallaro può essere disincentivante, se non un vero colpo al cuore: cosa puoi raccontarci per invogliare i nostri lettori ad entrare nel mondo dei Van der Graaf Generator?
DD: Potrei intanto dire che i Van der Graaf Generator l'heavy metal l'hanno inventato!
MM: Che cosa???
DD: Provocazioni a parte, consiglio vivamente l'ascolto della coda strumentale di "White Hammer", anno di grazia 1970: un maelstrom cacofonico da paura, in cui minacciosi accordi di organo spianano la strada ad un sax furibondo che nelle sue contorsioni va a mimare le grida di una strega bruciata sul rogo, il tutto supportato da una sconquassante e potentissima base ritmica. Questo, sebbene non vi fosse ombra di chitarra, era già metal bello e buono. Ma è un discorso che abbiamo già affrontato la scorsa volta con i King Crimson citando la potentissima "21st Century Schizoid Man", risalente addirittura all'anno prima: ai fini della nascita del metal, nel periodo fra fine anni sessanta ed inizio settanta, hanno contribuito in modo rilevante le sperimentazioni audaci delle band dedite al rock progressivo. Poi ovviamente il grosso del merito va di diritto ai Black Sabbath, ma non vanno dimenticate tutte le altre strabilianti energie attive in quel prodigioso periodo. Quello di "White Hammer" era solo un esempio, ma vi sono altri momenti propriamente metal sparsi nella produzione discografica dei Van der Graaf. Senza poi considerare che (ma questa è solo una opinione strettamente personale) in certi passaggi gli acuti lancinanti di Hammill ricordano molto quelli di Halford. Se non ci credi vatti ad ascoltare la sezione centrale di "Man-Erg". Il fatto fondamentale, però, è che tolti questi aspetti, le atmosfere a tratti epiche a tratti lugubri, la musica dei Van der Graaf nei suoi principali orientamenti non è affatto metal e mentirei a spacciarla come tale. Fatta dunque questa premessa, consiglio come primo approccio "H to He, Who Am the Only One", che secondo me costituisce una giusta via di mezzo fra melodia e complessità, con momenti anche diretti, ma soprattutto con suoni potenti e puliti che possono piacere anche a un metal-fan. A seguire, se la proposta è gradita, consiglio sicuramente il capolavoro assoluto "Pawn Hearts", composto da sole tre lunghissime suite e per questo maggiormente indigesto per il neofita. Mi sto ovviamente rivolgendo ai vostri lettori più aperti di mente...
MM: ...Quelli che magari hanno gradito gli ultimi lavori di Steven Wilson o la svolta degli Opeth...
DD: Esattamente...
MM: ...anche se poi, una cosa che viene rimproverata ultimamente agli Opeth, è il fatto di essersi snaturati per divenire una sorta di tribute-band delle band rock progressive degli anni settanta...
DD: Ah, brutta bestia l'emulazione. Anche noi non abbiamo mai rinnegato le nostre influenze, persino pubblicando svariate cover che andassero a celebrare quegli artisti che tanto abbiamo ascoltato ed amato in gioventù. Però poi il discorso finiva lì, perché cercavamo il più possibile di individuare una nostra via, un nostro sound, un sound che fosse solo nostro. Ci ha aiutato il fatto che i nostri ascolti fossero molto vari e che quindi nel mix da noi predisposto (che vedeva coesistere punk, post-punk, thrash, progressive, psichedelia, avanguardia ecc.) fossero difficilmente riconoscibili questo o quel gruppo in particolare. E' infatti secondo me fondamentale, per ogni artista che si rispetti, cercare di non copiare i maestri, ma trarre conclusioni personali dalle loro lezioni. Così abbiamo fatto noi con i Van der Graaf Generator, di cui abbiamo carpito certi spunti, certe atmosfere, ma soprattutto l'idea che nell'arte non vi sono limitazioni per chi non teme di rompere barriere e non pone freni alla propria creatività.
MM: Parole sante, Denis. E raggiunte queste vette di saggezza, penso che aggiungere altro sia superfluo...
DD: Esattamente. Andate subito ad ascoltare i Van der Graaf Generator! E non scordatevi dei Voivod che ancora oggi sfornano lavori eccezionali!
MM: No Denis, non ti preoccupare che dei Voivod non ce ne scordiamo...Grazie del tempo e della disponibilità, è sempre un piacere parlare con te!
DD: Grazie a voi per la chiacchierata, e...al prossimo compleanno!
MM: Ci puoi giurare!