18 lug 2018

18 LUGLIO 1988: TRENT'ANNI FA MORIVA NICO, NOSTRA SACERDOTESSA DELLE TENEBRE


18 luglio 1988: esattamente trenta anni fa moriva Christa Paffgen, in arte Nico. Si trovava ad Ibiza: nelle prime ore del pomeriggio del 17 luglio usciva di casa per andare a comprare della marijuana, il giorno dopo si sarebbe trovata su un lettino di ospedale uccisa da una emorragia cerebrale. 

Ho sempre visto la morte di Nico come un evento beffardo: colei che era la Sacerdotessa delle Tenebre, l’iniziatrice dell’epopea gothic-rock, trovò la morte in una banale caduta da bicicletta, nella ridente ed assolata isola di Ibiza. 

Perché ricordare un’artista come Nico in un blog dedicato al metal? Perché se il metal trovava la propria origine nelle oscure cerimonie dei Black Sabbath, nel medesimo periodo, se non leggermente prima, la cantante tedesca era artefice di una cerimonia ancora più oscura. Nel 1968 (ripeto: 1968) Nico dava alle stampe uno dei monoliti più neri della storia del rock (sebbene di rock non si trattasse), ossia “The Marble Index”: sfido io a trovare, nello scorcio finale della decade sessantiana, qualcosa di più oscuro. A seguire, per consolidare la sua fama di Sacerdotessa delle Tenebre, sarebbero stati rilasciati due album ancora migliori e traumatizzanti: il capolavoro “Desertshore” (1970) e “The End” (1974), altra pennellata di nero nel panorama musicale dell’epoca. 

Metal Mirror vorrebbe ricordare Nico proprio per questa ideale trilogia di album e non per le tante altre cose che miss Paffgen ha fatto nella sua vita. Modella, attrice, personaggio di spicco nella Factory di Andy Warhol, la femme fatale avrebbe avviato il suo percorso nel mondo della musica prestando la voce a tre pezzi del seminale esordio dei Velvet Underground, per poi avviare, sempre nel 1967, una carriera solista con il pregevole “Chelsea Girl” (la colonna sonora di un film dello stesso Warhol), che la vedeva ancora più come una interprete che come una autrice (i brani portavano la firma di Lou Reed, John Cale e Jackson Browne). Qualche spiraglio di genialità qua e là, ma nel complesso un album di folk-pop figlio del suo tempo.

Perché dunque ricordare un’artista come Nico in un blog dedicato al metal? Perché ogni cultore dell’Estremo (e dunque anche una buona fetta del popolo metallico) ha il dovere di guardare continuamente avanti e varcare i confini del Conosciuto per addentrarsi in qualcosa che, in un senso o in un altro, possa rappresentare un superamento di questi confini stessi. Questa ricerca dell’estremo può essere condotta anche guardando al passato, rapportando, di volta in volta, i contenuti e gli umori di determinate opere a quello che era il contesto storico in cui hanno visto la luce. E, a prescindere dalla cultura musicale, a prescindere dai gusti, è impossibile non rimanere per lo meno sorpresi di quanto gli album di Nico siano stati diversi da ogni cosa che, in ambito rock ed assimilati, potesse essere pubblicata in quegli anni. 

Chi non conosce la Nico-artista deve anzitutto sforzarsi di non cadere nel pregiudizio di pensare che costei non fosse stata altro che una bellissima "arrampicatrice sociale" che si è trovata al posto giusto nel momento giusto. Certo, è innegabile che la Nostra abbia ricevuto continuamente supporto dagli ambienti in cui di volta in volta si è trovata (prima l’attività di sponsorizzazione da parte del guru Warhol, poi l’aiuto incondizionato di John Cale, anima sperimentale dei Velvet Underground, nonché partner musicale per i suoi lavori solisti, infine la presenza di Brian Eno in "The End", tanto per fare tre esempi). Ma al di là di tutto questo, Nico ha saputo dare, nella sua pur breve carriera, un contributo importantissimo alla storia della musica recente. Un seme che, negli anni a seguire (più di una decade dopo), verrà coltivato dai mondi della dark-wave e del gothic-rock: universi a cui la Nostra si congiungerà con i suoi ultimi due lavori, “Drama of Exile” (1981) e “Camera Obscura” (1985), opere di impostazione elettronica che tuttavia, riconducendo la visione artistica di Nico ad una più banale dimensione rock, stemperavano il carattere estremo di quella trilogia di album che erano stati pubblicati a cavallo fra anni sessanta e settanta. 

Ed è a quel periodo che oggi preferiamo guardare per ricordare Nico, a quelle scarne composizioni che si basavano principalmente sulla sua voce spigolosa e sulle funeree note dell’armonium da lei stessa suonato. Cale ci avrebbe messo del suo per rendere più appetibile la pietanza (organo, pianoforte, viola, percussioni a mano, qualche sprazzo di chitarra, il tutto suonato con approccio squisitamente rumorista-avanguardista), ma le opere di Nico rimangono fortemente autoreferenziali ed incentrate sul carisma della sua autrice. 

Era musica influenzata dal folk medievale, dal mantra indiano, dal lied schubertiano, dal teatro di Brecht: un requiem spettrale che si tingeva di evocazione sciamanica, di tragedia greca, di psicoanalisi freudiana, del cabaret di Waimar, del romanticismo tedesco. Le doti attoriali confluivano con naturalezza in quel recitar cantando che era stato, nel mondo del rock, sdoganato da Jim Morrison, con cui fra l’altro la cantante aveva avuto una relazione. Proprio a Morrison è dedicato “The End”, dove brilla una rivisitazione del celebre classico dei Doors, della quale Nico restituiva senza timore una versione estremamente personale: dieci minuti di visioni claustrofobiche dove il soliloquio di Morrison diviene un monologo shakespeariano che sembra recitato dal fondo di una cripta. 

E non ci stupiamo, in certi momenti, se un personaggio estremo come Anna Varney abbia indicato Nico come modello di riferimento (celebrandola con la cover di “Abschied”, uno degli episodi cardine di “Desertshore”): non vi è infatti una distanza così grande fra la sepolcrale chamber music dei Sopor Aeternus & The Ensamble of Shadows e quelle nenie senza tempo che solo anagraficamente sono state scritte decenni prima, ma che potrebbero essere collocate indistintamente in epoche ancestrali come in un futuro post-apocalittico. Come se la Nostra fosse la sofferente depositaria di verità inaccessibili all’umanità e che essa, con la sua voce imperiosa, ferma, autorevole, così vibrante ed al tempo stessa pregna di disincanto, cantasse da una dimensione “Altra”. 

La drammatica discesa negli inferi dettata dal refrain ipnotico di “Evening of Light” (da non scordare mai che stiamo parlando del 1968!), le epiche “Janitor of Lunacy” e “The Falconer”, l’apocalittica “All That is My Own”, la gotica “Mutterlein” con il suo crescendo di trombe e cori nel finale, la tetra “It is not Taken Long” con le voci bambini nell’agghiacciante ritornello, la struggente ballata di pianoforte “You Forgot to Answer”, turbata dai rumorismi di Cale: questi sono solo titoli, portali per poter accedere all’impenetrabile universo artistico di Nico, una perlustrazione esistenziale che scavava a fondo negli abissi dell’inconscio collettivo umano e che probabilmente si legava a doppia mandata a quella condizione di irriducibile apolide che ha segnato la sua intera esistenza. Una esistenza caratterizzata dal continuo girovagare per Europa e Stati Uniti, costellata da incontri ed accadimenti di ogni tipo, tossicodipendenza e faticosi periodi di riabilitazione, e la responsabilità di crescere un figlio (non riconosciuto dal padre) con le sole proprie forze. 

Oggi di certo non abbiamo detto niente di nuovo su questa straordinaria artista, troppo spesso ignorata, ma se solo siamo riusciti ad accendere la curiosità in qualcuno dei nostri lettori che non la conosceva, ci riterremo soddisfatti. 

Playlist essenziale per metallari: 

1) “It Was a Pleasure Then” (“Chelsea Girl”, 1967) 
2) “Evening of Light” (“The Marble Index”, 1968) 
3) “Janitor of Lunacy” (“Desertshore”, 1970) 
4) “Mutterlein” (“Desershore”, 1970) 
5) “All That is My Own” (“Desertshore”, 1970) 
6) “It Has not Taken Long” (“The End”, 1974) 
7) “You Forgot the Answer” (“The End”, 1974) 
8) “The End” (“The End”, 1974) 
9) “Henry Hudson” (“Drama of Exile”, 1981) 
10) “Konig” (“Camera Obsura”, 1985)