28 set 2020

THE BEGINNING OF THE END: "BLACKACIDEVIL" (DANZIG)



Glenn Danzig infilava dischi in stato di grazia nei primi anni '90. Un mito con i Misfits, un culto con i Samhain.

Poi il terzo Samhain, i cui brani presero lentamente una forma dark-blues-metal, rinunciando all'approccio punk. Probabilmente molti lo hanno abbandonato lì, perché troppo pulitino e impostato. Per modo di dire, naturalmente. Il suo tema è il sesso, a impronta bdsm, ma anche la religione, con un nesso non difficile da ricostruire tra padronanza di sé e dei propri istinti e rifiuto di sistemi che subordinano per privare, e non per dare. Vi è quindi una tematica traversale in cui il diavolo, il dominatore sessuale e il predicatore indipendente si allineano. Questo liricamente.


Musicalmente Danzig è spesso qualcosa di già sentito, ma a carte scoperte. E' Elvis, è Nick Cave, è il blues e il soul più cupo, ed è anche metal. In particolare ha un batterista, Chuck Biscuits, che ha delle bacchette del diametro di clave, e ci ammazza qualsiasi ipotesi di finezza. Per questo anche le ballad di Danzig risultano uniche, troppo narcise per essere realmente dolci, e castigate dai tamburi di Biscuits.

Nel 1996 Danzig decide che dopo 4 dischi belli e simili, magari con una riduzione dell'impatto frontale e un'attenzione ad atmosfere più rarefatte, vuole sperimentare qualcos'altro. Nessuno glielo avrebbe rimproverato, con la storia che ha. L'elettronica, l'industriale, non sarebbero stati per niente sorprendenti come lidi verso cui salpare. Già un brano di "Danzig IV" aveva la voce filtrata ("Can't speak"). Il disco però vide la luce come un progetto di Danzig, senza gli altri membri e senza il produttore solito. L'idea (almeno a posteriori fu detto questo) era di fare dell'elettronica unita al metal con un'impostazione punkeggiante, in cui cioè la parte elettronica non doveva suonare come una parte programmata e automatizzata, ma estemporanea anch'essa. Anche qui, interessante come discorso.

L'unica cosa comprensibile del disco, anche dopo anni di ascolti, è “Sacrifice”, brano che però – a dirla tutta, sembra una copia dei Nine Inch Nails di quel periodo, e per dirla tutta, a me piace soltanto perché somiglia al brano dei NIN che è nella colonna sonora del film “The fan” con De Niro. Potrebbe anche esser preso da questo disco il brano che gira a vuoto in un altro film, “8 mm”, con Nicholas Cage. Il detective Cage entra in casa del maniaco assassino sadomaso pornomane, che ha lo stereo acceso. Come tutti si aspetterebbero, ha un poster di Danzig al muro.

Anche perché Danzig si è un po' “imputtanito”. Entra a gamba tesa nei brani con testi che iniziano tipo “Ehi, donna, ti faccio venire, sfoga il tuo corpo con il mio fucilone”. Non l'arroganza del dominatore, ma quella del primo dopolavorista ubriaco che importuna una ragazza per strada all'angolo del pub. Quale cortocircuito testosteronico può aver scaraventato Danzig in questa pozzanghera artistica? Per quanto qualcuno veda del buono in questo disco, c'è concordanza sul fatto che i brani migliori siano quello “a-la NIN” e un pochino più pulito nelle vocals ("Sacrifice") e la cover dei Black Sabbath ("Hand of Doom"). Va però detto che il testo di "Hand of Doom" subisce una sostanziale modifica, divenendo la cronaca minuto per minuto di un tizio che si aggira per l'apparato genitale femminile con un coltello. Arguta la metafora della vulva come ferita già aperta, rispetto a cui la perversione del maniaco sembra arrivare tardi e senza potersi inventare molto altro.

Da questa sterzata Danzig non si è al momento ripreso. Colpisce anzi il fatto che, per rientrare nel suo personaggio, sceglie una vena quasi fumettistica, con titoli agghiaccianti tipo “6:66 Satans child” o “777 I Luciferi”, e ci mette dentro suggestioni “oscure” da tutto il mondo, come in una bacheca di souvenir: Kali, Wotan, messe nere, voodoo...Gioca la carta delle cover, il suo background che più o meno si sapeva ("Skeletons"), e "Danzig canta Elvis". C'è chi lo ha visto aggirarsi con un pastrano da pescatore in "Crawl across your walking floor" in un video che potremmo definire forse semiserio, specie nella scena in cui passa da una casupola con una testa di caprone appesa come trofeo di caccia, che sembra girarsi e guardarlo con perplessità. Si divincola intorno a ipotesi di ritornello, mentre prima era lui che faceva risuonare ritornelli spigolosi infondendo plasticità al legno. Gli arrangiamenti lo aspettano.
In un dopo pranzo di quarantena mi sono addormentato sulle note di uno di questi nuovi brani, e mi sono risvegliato dopo qualche minuto al suono di "I don't mind the pain" da Danzig 4; di nuovo sonno cambiando brano, e di nuovo risveglio sulle note di "Little whip", e così via. Un Danzig dormiente quello nuovo, in cui ci si contenta di piazzare il ritornello; lo sfondo è abbozzato e i primi piani diventano "primissimi". Anziché flirtare con l'oscurità, come in "Lucifuge", è fin troppo visibile. Divo fuori tempo massimo. Egotico sì, lo era, ma in un consapevole personaggio (che lo fosse anche nella realtà poco ci importa). Sul versante erotico si dà a testi alla AC/DC, tipo "adesso vi parlo di una ragazzina che mi ha dato qualche problema..e allora ho dovuto ricorrere ad un piccolo strumento, il mio bastone magico...vieni a prenderlo il bastone magico...".

Personalmente mi aspetto di vederlo in qualche tutorial in cui ci spiega le migliori tattiche per rimorchiare su Badoo o Tinder. Musicalmente invece, per rimanere in tema, ha attualmente lo stesso senso di quelle che aprono profilo e foto e poi scrivono “non cerco avventure”.

A cura del Dottore

(Vedi il resto della Rassegna)