6 ott 2021

UN COCCODRILLO PER DUSTY HILL - THE SOUND OF THE SOUTH

 


Se mi avessero detto nel 1994 (anno in cui conobbi, mio malgrado, gli ZZ Top) che 27 anni dopo avrei scritto un sentito “coccodrillo” per Joe M. Hill (per tutti Dusty), lo avrei mandato a quel paese…

Quanto mi stavano sugli zebedei gli ZZ Top: in quel 1994, ricordo, frequentavo il liceo e la mattina, mentre facevo colazione, accendevo la TV sintonizzandomi immancabilmente su VideoMusic. Per parecchi mesi di quel 1994 veniva propinato in continuazione un odioso video della band texana, relativo a un singolo di cui non ricordo neppure il titolo (era appena uscito il disco “Antenna”). Mi chiedevo chi cazzo fossero quei due energumeni barbuti; davo per scontato fossero gemelli. Sbagliandomi.

Ok, va bene che, come abbiamo più volte sottolineato, il metallaro del Terzo Millennio è, musicalmente parlando, una bestia onnivora, però c’è un tipo di sonorità che davvero difficilmente può fare breccia nel suo cuore: il southern rock.

Sarà che quella cazzo di “Sweet Home Alabama” ce la siamo sentita propinare come una top song imprescindibile da quando eravamo pivelli; sarà che questi energumeni degli Stati del Sud degli Usa (tutti birra, patria e simpatie fascistoidi), non ispirano certo una gran simpatia; sarà che, nel southern, il cordone ombelicale col blues è troppo marcato...sarà quel che sarà ma, a quanto mi consta, è difficile trovare in una discografia di un metalhead degli album southern.

Derivato dal country, dal rockabilly e, come detto, soprattutto dal blues (che proprio nel Sud degli Usa, nel Delta del Mississipi, aveva avuto, 40 e fischia anni prima, i suoi natali e il suo fiorire), il southern si impone in modo preponderante nella scena rock statunitense tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta: dalla Florida (The Allman Brothers, Lynyrd Skynyrd, Molly Hatchet, Outlaws) alla Georgia (The Dixie Dregs), dall’Arkansas all’Alabama, dal Texas al South Carolina fu tutto un fiorire di band che, lungi dal porre in primo piano drammi esistenziali, sperimentazioni sonore e atteggiamenti “decadenti” o psichedelici (come li avevamo visti nelle scene delle metropoli dell’east e della west coast sul finire dei sixties) badavano al sodo: donne, alcool & risse (nei testi come, spesso, anche nei fatti...)

Selvaggi, fieramente bianchi&sudisti, le band southern misero a ferro e a fuoco gli stage di mezza America perché sì, quello glielo dobbiamo riconoscere: erano dei veri animali da palco, capaci di intrattenere con il ritmo, con un sound denso che portava all'automatico dimenamento delle chiappe; ma anche capaci di assoli trascinanti e di una scrittura più profonda di quello che può sembrare ad un ascolto superficiale. E, soprattutto, autori di hits immortali tra le quali la succitata “Sweet Home Alabama” è l’esempio più rappresentativo.

Tra queste hit occupa un posto di primo piano l’irresistibile “La Grange”, celeberrima song di quello che, da molti, è considerato il miglior album degli ZZ Top, “Tres hombres” (1973); album non a caso inserito nella nostra Lista dei 500 dischi per il 50ennale del Metal dell’anno scorso.

Ed è proprio a causa della morte del bassista Dusty Hill, avvenuta la scorsa estate, che sono voluto andare ad approfondire il rebus ZZ Top e ho scoperto che, cristosanto, “Tres Hombres” è un disco davvero valido e divertente! L’ho consumato per un paio di settimane abbondanti e ho capito che anche il southern, se di qualità, può riservare inedite gioie alle nostre metallare orecchie onnivore.

Al netto di un solo episodio poco riuscito (la moscia “Shiek”) le restanti nove tracce spaccano davvero, sia quando rimangono nell’alveo di un puro blues-rock sanguigno (la spettacolare accoppiata iniziale “Waitin’ for the bus” +”Jesus just left Chicago”, la conclusiva “Have you heard?”) sia quando i Nostri pigiano sul pedale della distorsione più marcata, come nella sensazionale “Beer Drinkers and Hell Raisers” (non a caso coverizzata anche da Lemmy), “Master of Sparks” (probabilmente l’episodio dal songwriting più interessante), nell’hard-rockeggiante “Move me on down the line” o nell’hendrixiana “Precious and Grace”.

Ma se pensavamo che gli ZZ top fossero degli zoticoni dediti a parlare solo di alcool&pupe secondo dei beceri stereotipi, ecco che arriva puntuale a smentirci la ballad “Hot, Blue and Righteous”, per chi scrive una delle song più toccanti ascoltate di recente, con un’interpretazione dell’altro barbuto, il chitarrista Billy Gibbons, davvero intensa e commovente.

Alla fine ho capito il perché la redazione di Metal Mirror ha insistito, nonostante le mie titubanze, per inserire “Tres hombres” e gli ZZ Top nell’elenco dei top 500: perché, probabilmente proprio assieme ai Lynyrd Skynyrd e agli ottimi Molly Hatchet, il trio texano è la band che è riuscita al meglio a far propri gli stilemi dei vecchi generi di cui il southern è debitore ed a stuprarli con scariche elettriche puramente heavy. Riuscendo così a mettere in luce, ammantate di sordida lascivia, tutte quelle componenti di tradizione, virile aggressività e ruspante super-omismo che il blues e il rockabilly, per loro caratteristiche intrinseche, non potevano esprimere a questi livelli.

E così mi cospargo il capo di cenere, ammetto il mio errore di gioventù e sulle pagine di M.M. mi sento di ringraziare la buonanima di Dusty, idealtipico musicista southern, capace di regalarci insospettabili vibrazioni epidermiche.

C’è della gran sostanza sotto quei cappelli, quegli occhiali scuri e quelle rozze barbe…fidatevi…

A cura di Morningrise