25 nov 2021

LA PANDEMIA SECONDO ALEXIS MARSHALL


Rintocchi di pianoforte, una voce sgraziata che, lontana, sembra lanciare bestemmie al cielo. Ma a sentir meglio non sono bestemmie, sembra semmai un’invocazione: come se si volesse richiamare  a sé tutta la merda del mondo
 
Io sono qui”, dice la voce, non si capisce se con senso di sfida verso tutti e tutto o come semplice attestazione di esistenza, “Io sono qui”, continua a ripetere la voce, quella di Alexis Marshall, già in forza con i Daughters, qui al suo primo appuntamento solista con “House of Lull. House of When”. 
 
La copertina: un suggestivo scatto in bianco e nero con la sagoma del cantante che, di spalle rispetto alla macchina fotografica, guarda come impietrito la minacciosa silhouette di una centrale nucleare al di là del fiume. Sopra, un cielo immancabilmente nuvoloso. Quale migliore rappresentazione per il cantautorato apocalittico dell’ugola sanguinante dei Daughters?  
 
Ma non aspettatevi le possenti architetture sonore della band madre: qui il Nostro si aggira fra secche percussioni, scorie di noise e feedback striscianti come un John Lydon ubriaco che, incespicante fra le ossessioni industriali di Swans e Throbbing Gristle, non trova la via di casa dopo una violenta esplosione che sembrerebbe aver decimato il genere umano. 
 
I trascorsi grindcore (ricordiamo che il Nostro militava ad inizio carriera negli As the Sun Sets sfoderando sia screaming che growl) sono oramai una eco lontano, ma la forza d’urto, il mal di vivere, il senso di Estremo ci sono ancora tutti: esplicitati, sì, in una forma più concettuale, ma senza un grammo di irruenza in meno. Lui stesso mette le mani avanti e definisce i suoi versi dei “pensieri randagi”, groppi in gola che escono fuori con l’inevitabilità di un attacco di tosse, potremmo aggiungere noi. 
 
Non è un album perfetto, “House of Lull. House of When”, forse ripetitivo nel crogiolarsi persistentemente in scenari minimalisti che fanno da impalcatura allo sfibrante declamare di Marshall. Forse troppo improvvisato, a tratti tirato via, trascurato. Buona la prima! 
 
Ma a volte mi ci vogliono album cosi, mi ci vogliono brani come l’openerDrink from the Oceans. Nothing Can Harm you”, sì, quella che iniziava con il pianoforte di cui sopra, ma che saprà presto esplodere in un fragoroso clangore metallico per poi spegnersi sette minuti dopo nei rantoli di un basso moribondo (arpeggione iper-distorto che riappacifica il noise con il black metal). 
 
Conclusosi quello che rimarrà il miglior momento del lotto, il singolo (ah ah, singolo...) "Hounds of Abyss" setta quelle che saranno le coordinate dell'album, fra scarni battiti, impro-noise e nenie che si ripetono con una ossessività che puzza di tossicodipendenza (e sì, al Nostro piace ripetere le parole, qualora il concetto non fosse sufficientemente chiaro). Ma a colpirmi più di ogni altra cosa è stato il testo di “It Just Doesn’t Feel Good Anymore”, l’affresco più vivido sulla pandemia in cui mi sono fino ad oggi imbattuto: 
 
"Don't get up 
Don't go out 
Don't touch anything 
Don't touch anyone 
Don't look at anyone 
Don't look at anything 
Don't get up 
All of it 
None of it 
Don't get up 
Don't go out 
 
You have obligations
You have obligations
Meet your obligations
Don't get up
Don't go out
Stay
Stay where you are
You have obligations"
 
Ci abbiamo provato a descrivere la pandemia con il metal, ma nessuna mostruosità partorita dal metal è stata in grado di trasmettermi tanta angoscia quanto questi versi, strillati con voce isterica su caotici pattern percussivi. 
 
Perché “House of Lull. House of When” è un’opera penetrante e sospinta da una urgenza comunicativa che raramente si trova nel mercato discografico odierno. Ma non sono soltanto vene gonfie nel collo, Marshall è un narratore dei nostri tempi, sa quando mollare la presa, si pensi ad un episodio come “Youth as Religion”, suoni ambientali tranciati dall’oscuro recitato del Nostro (un Nick Cave inzuppato a testa in giù in una vasca di cemento fresco). 
 
Per aggiungere gloria alla gloria in “Religion as Leader” si duetta (ah ah, duetta…) con niente meno che Lingua Ignota, o meglio le urla bestiali dei due si accavallano incrementando quel senso di claustrofobia che aleggia per tutto l’album (sublime Kristin Hayter Nostra Signora del Dolore!). Claustrofobia che continuerà ad aleggiare fino alla fine dell'ascolto, vuoi che suoni sinistri ed un piano scordato accompagnino il soliloquio gonfio di incertezze di Marshall (si abbia presente “No Truth in the Body”) o che il frastuono prevalga su tutto, come accade nella martellante “Open Mouth” o nella più destabilizzante "They Can Lie There Forever", dove il cantante sembra affogare in un vortice di ferraglia arrugginita. 
 
Un viaggio infernale nel pieno della contemporaneità (vi ricordate lo slogan pubblicitario “Be Here Now”?), un caos lacerante, che buca la pelle e che troverà finalmente pace (ne siamo sicuri?) nel sermone visionario della conclusiva “Night Coming”, fra oscuri droni, accordi apocalittici di piano ed ancora spoken word a segnare i titoli di coda. 
 
Manca l’aria, eppure ci troviamo all’aperto. Una centrale nucleare sullo sfondo. Un cielo nuvoloso sopra. La pandemia intorno a noi...