9 feb 2022

METZ: L'ESTASI DEL RIFF PERFETTO (RIPETUTO ALL'INFINITO)

 


“Il pallone è mio e ci faccio quello che voglio io!” Quante volte da piccoli abbiamo sentito queste odiose parole, eppure oggi, da adulto, sono io a gridare istericamente e con le vene del collo gonfie (peraltro senza un motivo particolare) “Il blog è mio e ci scrivo quello che voglio io!”. Dicendo questo, esco dal seminato per parlarvi di qualcosa non strettamente metal, ma stiate pur tranquilli, o amanti del metallo, non vi voglio propinare una retrospettiva sulla carriera di Cristina D’Avena, solo spostare l’ambito del dibattito appena (ho detto appena) fuori dal recinto del metal, e per scopi più che nobili.

Parto da una domanda: “Chi ha realizzato il miglior riff degli ultimi venti anni?” No, non sono stati i Lamb of God o i Gojira, né tanto meno i Darkthrone (risate in sottofondo), ma una band che, almeno sulla carta, sembrerebbe avere poco a che fare con il metal, ed invece….

Siore e siori, ecco a voi i METZ!

E chi diavolo sono i METZ, vi chiederete? Sono un trio canadese formatisi nel 2008 e con all'attivo quattro acclamati album che hanno valso loro l'etichetta di nuovi alfieri del post-hardcore, ma non di quel post-hardcore che amiamo grazie ai Neurosis, bensì quel post-hardcore che usavamo associare a nomi come Fugazi e Shellac. Quindi distorsioni, rumore e suoni a bassa fedeltà. 

I Nostri, da parte loro, aggiornano (ammansiscono) la formula con una spennellata di grunge, cosa che rende la loro proposta più umana, meno spigolosa, senza tuttavia perdere nulla in quanto a potenza ed impatto sonoro. Insomma, i METZ spaccano il culo, ma sanno anche appellarsi ai santi numi di Seattle (Nirvana in primis) per spezzare la tensione e descrivere certo nevrosi giovanilistiche come si sapeva fare bene negli anni novanta. Divenendo, all’occorrenza, ancora più epici.

E veramente epico è il riff di “A Boat to Drown in”, anomalo brano di chiusura di “Atlas Vending” (2020), ultimo parto discografico del trio. Dico anomalo perché il brano dura oltre sette minuti e mezzo e si fregia di una coda strumentale che sfiora lidi psichedelici/shoegaze, quando il resto del canzoniere dei Nostri si assesta su un minutaggio più coinciso ed adopera un linguaggio più asciutto e diretto.

Qui invece si decide di strafare allestendo una impetuosa cavalcata che sa evocare tanto i Foo Fighters quanto Burzum (si pensi ad un episodio come "Jesu Dod"): se l’accostamento vi pare azzardato andatevi ad ascoltare il brano (che poi sarebbe il senso ultimo di questo articolo), anzi, andatevi a vedere l’irresistibile video-clip, cosi vi fate anche due risate.

“A Boat to Drown in” è il classico brano che ti viene una volta nella vita e che per tutta la vita riproporrai dal vivo con grande entusiasmo da parte del pubblico. La sezione ritmica ha i suoi meriti, con un basso muscolare che supporta egregiamente il wall of sound ed una batteria gagliarda che disegna un massiccio mid-tempo con rullate ben collocate a rinvigorire la carica energetica del brano. Ma è il riff ad essere irresistibile, un riff di per sé semplicissimo, tre note tre, ma tre note che ti si ficcano subito in testa e che non vorresti che smettessero mai di alternarsi.

Capita poche volte in musica, ma se capita è bene battere il ferro finché è caldo: quando hai una intuizione melodica vincente devi cavalcarla, dice una massima d’oro della musica che i METZ fanno loro in questa circostanza, costruendo su quella intuizione un brano di quasi otto minuti.

Accordi sbilenchi e il nervoso stop and go della batteria innestano un trascurabile ritornello che avrebbe potuto cantare un iracondo Kurt Cobain, ma si capisce che è solo un diversivo come un altro per interrompere il flusso, con il solo proposito di enfatizzare, al momento della ripartenza, l’imponenza di questo riff che – ripeto – vorresti che venisse ripetuto all’infinito.

Sentori di black metal anche nella pausa con le chitarre lasciate a friggere da sole prima della inevitabile rincorsa finale. E chissà, forse il black metal è diventato talmente cool che è entrato geneticamente nel DNA dei musicisti contemporanei, ma non mi spingerei tanto in là: che le influenze a cui guardano i Nostri siano altre lo si capisce dagli sviluppi del brano e dal canto sguaiato che ricorda Steve Albini.

La coda, poi, è pura poesia (ma perché non ho più vent'anni???), con ancora quel riff squarciato, questa volta, da effetti e fraseggi che vanno ad arricchire la tavolozza sonica mentre la batteria, impeccabile, inserisce le giuste battute in controtempo: un tour de force che farà sicuramente lo sfacelo sopra e sotto il palco (a tal proposito consiglio la visione estesa del brano eseguito dal vivo – un ottimo esempio lo offre "Live at Opera House", pregevole documento live edito durante la pandemia).

Insomma, può capitare che la scena più orripilante te la regali non un film horror, ma una pellicola d'autore che intenda indugiare sul macabro. E così accade con il riff esuberante di questa giovane realtà del post-hardcore che, almeno a parere del sottoscritto, è riuscita a battere, in trasferta, campioni del metal spacca-ossa.

Spesso il bambino viziato della famosa frase veniva lasciato solo, lui con il pallone; gli altri preferivano andarsene e trovare altri svaghi, indignati (giustamente) dal comportamento bizzos…ehi, ma dove state andando tutti??