Sebbene il “movimento” esistesse già da qualche tempo, è il 1991 che viene comunemente considerato l'anno per eccellenza del grunge, grazie alla pubblicazione di titoli emblematici (e di successo) come “Ten”, “Nevermind” e “Badmotorfinger”.
A trent’anni di distanza non rimane molto da aggiungere sull’argomento, ma in un sito dedicato al metal sopravvive l’intento di ricucire gli strappi e riconciliare due mondi, il metal e il grunge, per troppo tempo visti come antitetici. Ingiustamente...
L’avvento del grunge ha indubbiamente coinciso con la crisi di certe forme di rock (e di metal, aggiungiamo noi) legate a doppia mandata agli anni ottanta, agli umori, ai suoni patinati di quella decade. I generi considerati tradizionali del rock e del metal, affacciatosi sul decennio novantiano, sembrarono esaurire la loro spinta vitale, e di certo non fu di aiuto l’introduzione da parte del grunge di una attitudine più introspettiva che sarebbe andata ad affossare definitivamente lo sfarzo di certo rock che vedeva la componente edonistica al centro del proprio universo.
Il grunge ci riportava nella realtà, parlandoci di ingiustizie sociali, drammi individuali, disagio giovanile, solitudine, abusi, degrado, ahimè depressione e dipendenza da droga (componenti, queste ultime, che avrebbero influito non solo sul piano della creazione artistica, ma anche sulle vite stesse dei musicisti - e la nutrita lista di lutti è purtroppo là a confermarlo). L'epica della sconfitta veniva così portata sotto i riflettori e finalmente si iniziò a parlare di emozioni, emozioni vere: non quelle artefatte di un rock che oramai da quasi un decennio si trascinava avanti con cliché lirici e tematici che sapevano intrattenere, ma non parlare alla pancia dei più giovani.
Emozioni che prevalevano sulla forma: il grunge parlava un linguaggio semplice, istintuale, comunicava tramite brani che non richiedevano virtuosismi, dando a molti giovani la speranza di poter essere “artisti” ed avere successo senza necessariamente essere dei musicisti preparati. Cosa che si ripercuoteva anche sul fronte estetico, con un look casual che guardava alla realtà quotidiana, con jeans, T-shirt, camice a quadri, capelli scarruffati.
Istanze che in verità non inventava di sana pianta il grunge. Ricordiamoci infatti della figura di Neil Young, il loner, considerato da molti il padre ispiratore del grunge, con una storia che parte dagli anni sessanta. Inoltre c'è da rimarcare il fatto che a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, una galassia di band dedite all'alternative-rock (Sonic Youth, Pixies, Husker Du, Dinosaur Jr. giusto per citare qualche nome) operava nei circuiti indipendenti con crescenti consensi. Ma il grunge seppe bagnarsi delle luci della ribalta, raggiungendo un successo insperato da parte dei protagonisti stessi, che fino ad un momento prima erano stati degli onesti artigiani di una buona scena locale (quella della cittadina di Seattle), per poi di colpo ritrovarsi ad essere delle icone, gli idoli venerati ed imitati dalle nuove generazioni.
Il merito storico del grunge, a livello di mainstream, fu di re-introdurre nella musica popolare suoni sporchi (il termine stesso "grunge", usato nello slang americano, significa sporco, sudicio, ripugnante): sonorità che rispolveravano tanto l’immediatezza del punk quanto la pesantezza sabbathiana, esondando, a seconda dei casi, in campo metal.
Sebbene le premesse (e le conclusioni) fossero diverse, le band che venivano raggruppate sotto l’ombrello del grunge facevano parte di un calderone del rock (anche duro) che confinava con il metal e che al metal non era del tutto estraneo: difficile dire dove iniziava uno e dove finiva l’altro in una fase storica stilisticamente ibrida dove i gruppi grunge attingevano a piene mani dall’hard-rock, dal punk/hardcore e in certi casi persino dal metal, e in parallelo il metal stesso si stava bastardizzando flirtando con le sonorità alternative. Basti ricordare che in quel calderone indistinto di artisti considerati pre-grunge regnavano i “nostri” Melvins, che grunge in senso stretto non sono mai stati, ma che certo hanno influito nella definizione delle sue forme, pur prediligendo i suoni fangosi del doom e dello sludge. A titolo esemplificativo di come grunge e metal non fossero poi realtà così distanti, si butti un orecchio sui tre seguenti brani:
Nirvana: “Negative Creep” (“Bleach”, 1989) Si fa quasi fatica a riconoscerlo come un brano dei Nirvana, che qui sembrano piuttosto i Discharge: riff devastante ad aprire le danze, batteria battente lanciata con gran veemenza e l’urlo isterico di un Kurt Cobain rabbiosissimo, perfetto complemento per un brano marcissimo ai limiti del thrash-metal.
Soundgarden: “Jesus Christ Pose” (“Badmotorfinger”, 1991) Quasi sei minuti di assalto sonoro per chitarre taglienti, ritmiche terremotanti e l’ugola affilata di Chris Cornell. Impressionante l’incipit ove al rumor bianco e l'ossessività delle sei corde subentra minaccioso un riff ronzante che non avrebbe sfigurato in un brano death metal: prova schiacciante che i Nostri spaccavano il culo ben più di altre realtà canonicamente metal.
Alice in Chains: “Them Bones” (“Dirt”, 1992) Irrompe un riff quadratissimo che oseremmo definire slayeriano (e non è un caso che Tom Araya prestasse la voce in un altro brano del medesimo album): è “Them Bones”, staffilata di due minuti e mezzo che non molla la presa per un solo istante, grazie ad una base ritmica impeccabile, un egregio lavoro chirarristico (si segnala peraltro un assolo con i fiocchi) e la voce allucinata di Layne Staley ad imprimere un senso di alienazione e di amarezza che era tipico della visione artistica del grunge.
P.S. si menzionava Araya, dunque utile ricordare che, sempre in "Dirt", i suoi berci "raffinati" possono essere riconosciuti sotto le palate di elettricità dell'interludio "Iron Gland" che cita, nemmeno troppo velatamente, la sabbathiana "Iron Man".
Il grunge, ovviamente, è stato molto altro (punk, noise, blues, folk, cantautorato, psichedelia, rock settantiano ecc.) e questi tre esempi, da soli, non rappresentano certo il movimento nella sua complessità. Continuiamo ad utilizzare il termine “movimento”, e non genere, perché più che un insieme organico di elementi stilistici, il grunge ha rappresentato lo sforzo congiunto di un manipolo di band di stanza a Seattle (fondamentale il supporto della lungimirante etichetta Sub Pop Records) che, nell’arco di una manciata di anni, si è imposto all’interesse generale, per poi lasciare il segno per sempre.
I primi scritturati dalla Sub Pop furono i Green River con l'EP "Dry as a Bone", a cui sarebbe seguito l'album (l'unico rilasciato dalla band) "Rehab Doll" (1988). Con il loro mix di hard rock, punk e metal, essi sono stati considerati fra i più importanti pionieri del grunge, e non è un caso che per descrivere la loro musica (che fu definita "ultra-loose grunge") fu utilizzato per la prima volta il termine "grunge". Ma se i Green River vengono ricordati nelle cronache del periodo, questo avviene soprattutto per il fatto che dalle loro ceneri sarebbero scaturite due formazioni fondamentali per la nascita del movimento, i Mudhoney e i Mother Love Bone: proprio da questi due nomi prenderà piede la nostra dissertazione.
Mudhoney: “Superfuzz Bigmuff” (20/10/1988)
Spinotti collegati agli amplificatori, elettricità, tanta maleducazione: tira aria di Stooges nella sala prove di questa band che, con questo mini-album, dava un contributo importantissimo alla genesi del grunge. La voce sgraziata di Mark Arm, la chitarra al vetriolo di Steve Turner (entrambi ex Green River) caratterizzano sei brani incendiari che faranno la gioia per gli amanti del timpano rovente. Consigliamo la versione estesa “Superfuzz Bigmuff plus Early Singles” (del 1990) dove in scaletta figurano altri episodi degnissimi di nota, fra cui lo storico primo singolo “Touch me I’m Sick” da dove l’intera epopea ebbe inizio!
Mother Love Bone: “Apple” (19/07/1990)
Se i Mudhoney hanno rappresentato il lato più acido ed incazzoso dell’emergente movimento grunge, i Mother Love Bone (altra costola dei sopra menzionati Green River) ne erano la controparte hard rock, offrendo un sound effervescente, fresco, non troppo distante da gruppi come Jane’s Addiction e Guns’n’Roses (con i Led Zeppelin, padri spirituali, ad osservare consenzienti da lontano). “Apple”, unico lavoro rilasciato dalla band, inanella eccellenti intuizioni melodiche e brani frizzanti quanto scorrevoli, con il ritornello vincente
sempre pronto a fare capolino grazie soprattutto all’ugola cristallina
del talentuoso singer Andrew Wood. Li tiriamo un po’ per le orecchie qua dentro, non fosse altro perché parte importante della scena e con in organico due signori di nome Stone Gossard e Jeff Ament, che di lì a poco avrebbero dato vita ai Pearl Jam.
Temple of the Dog: “Temple of the Dog” (16/04/1991)
Con membri di Soundgarden e Mother Love Bone il progetto intendeva onorare la memoria di Andrew Wood, il cantante dei secondi, morto di overdose. Tutto di altissimo livello in questa perla (rivalutata a posteriori) che coglie alla perfezione un momento irripetibile per la scena di Seattle, mostrandone il lato più melodico e sentimentale (del resto gli umori erano quelli di un estremo saluto ad un caro amico venuto a mancare). Chris Cornell, primo firmatario dell'operazione, si mostra in forma smagliante, imperversando in lungo e in largo con la sua voce grintosa, fra struggenti ballad e rock impetuoso. Tutti i pezzi brillano per una grande ispirazione, ma a giustificare l’acquisto basterebbe anche solo “Hunger Strike”, ballata fra le più intense dell'epopea grunge, che si fregia della splendida voce di Eddie Vedder in un simbolico scambio di testimone che condurrà alla nascita dei Pearl Jam.
Pearl Jam: “Ten” (27/08/1991)
I Pearl Jam arrivano ai giorni nostri forti di uno status inattaccabile che li vede fra le più importanti rock band del globo: un successo planetario che si è consolidato nel corso di trent’anni di carriera, con un poker iniziale di album leggendari (“Ten”, “Vs.”, “Vitalogy” e “No Code”) ed un prosieguo di cammino più che dignitoso, radicato in modo crescente nella tradizione rock americana. Noi continuiamo a preferire il loro imperdibile debutto, frutto di energie creative esorbitanti che assecondavano un approccio energico ed ancora molto rock-oriented, non disdegnando una certa cura per gli arrangiamenti (cosa che si sarebbe persa per la strada con i lavori successivi). Il risultato è una carrellata di instant classic che, fra melodie memorabili ed un impatto emotivo fuori dal comune, avrebbero modellato l’estetica grunge, il tutto baciato dalla splendida ugola di Eddie Vedder, fra le migliori voci rock di sempre.
Nirvana: “Nevermind” (24/09/1991)
Kurt Cobain non condividerebbe la nostra scelta e probabilmente nemmeno i suoi fan più puristi. Fra il grezzo ma verace “Bleach” e lo sperimentale e volutamente ostico “In Utero”, “Nevermind” rappresenta certamente il passo più commerciale della band, il lascito discografico che condusse a quel successo che, paradossalmente, Cobain intendeva rifuggire e da cui sarebbe stato distrutto. Ma è innegabile che l’album, nella sua semplicità, sappia offrire una sequela sbalorditiva di inni generazionali che solo incidentalmente divennero anche radiofonici. Dietro a brani brevi e schietti, fra momenti di quiete apparente ed improvvise detonazioni elettriche, fermentano le nevrosi del buon Cobain, mentre una produzione potente valorizza e compatta le gesta di un trio che non passerà certo alla storia per il virtuosismo. Ma il grunge era anche e soprattutto questo: la capacità di arrivare al cuore in modo diretto e senza tanti fronzoli.
Soundgarden: “Badmotorfinger” (24/09/1991)
I Soungarden furono autori di un muro sonoro in cui vi si poteva trovare, in egual misura, rock, metal e punk/hardcore. Grunge nello spirito, i Nostri avevano il physique du role dei veri rocker, a partire dall’imponente front-man Chris Cornell, voce graffiante come poche, per giungere ad un ensemble di musicisti che davano del tu ai rispettivi strumenti (un plauso, in particolare, al potente batterista Matt Cameron). In pari modo influenzati da Black Sabbath e Led Zeppelin (a cui i Nostri sono stati accostati più di una volta), i quattro si sono mossi con estrema disinvoltura sia che si cimentassero in composizioni pesanti e cadenzate che in pezzi tirati di estrazione punk, senza mai perdere quella carica di denuncia e ribellione giovanilistica che caratterizzava il movimento: questo era “Badmotorfinger”, primo (e per molti ineguagliato) capolavoro della band (l’altro capolavoro, che lì consacrò al successo commerciale, fu il successivo, più variegato e psichedelico, “Superunknown”).
Screaming Trees: “Sweet Oblivion” (08/09/1992)
Gli Screaming Trees, fra tutti i gruppi gravitanti in quegli anni a Seattle, sono certamente quelli più sottovalutati: ignorati inizialmente dal grande pubblico (nonostante il contratto con una major), furono poi riconsiderati a posteriori grazie alla carriera solista del loro cantante Mark Lanegan, da annoverare fra i più importanti cantautori contemporanei. Eppure i Nostri non avevano nulla da invidiare ai loro colleghi, mettendo a punto un sound fluido e compatto, ben radicato nei seventies (senza disegnare qualche svisata hendrixiana - già, Hendrix, altro cittadino illustre di Seattle...). In questo gioiello tutto da riscoprire si alternano brani orecchiabili e stupende ballad, il tutto marchiato a fuoco dalla vibrante voce di Lanegan.
Alice in Chains: “Dirt” (29/09/1992)
Gli Alice in Chains sono stati indubbiamente gli esponenti più “metallici” della saga grunge, con i riff spigolosi del grande Jerry Cantrell a supportare la voce acida di Layne Staley (spesso intrecciato al canto salmodiante dello stesso Cantrell, credibile anche dietro al microfono). "Dirt" è una discesa negli abissi della tossicodipendenza, un viaggio claustrofobico ove lo spettro sabbathiano è sempre pronto ad assalire l'ascoltatore, che a tratti viene sommerso da suoni fangosi e pesanti, in altri deliziato da ballate a dir poco commoventi. I quattro mostrano al contempo una capacità esecutiva sopra la media che permette loro di erigere un suono stratificato e confezionare brani ben strutturati e dotati di ritornelli memorabili (molti sarebbero divenuti hit). Meno anthemico, ma non meno ammaliante, sarà il successivo full-lenght omonimo ("Alice in Chains"), un bel pugno in faccia, mentre per chi volesse esplorare il lato più soft della band è consigliabile l'ascolto del bellissimo EP “Jar of Flies”, per lo più di vocazione acustica.
Stone Temple Pilots: “Core” (29/09/1992)
Un po’ Alice in Chains, un po’ Pearl Jam, un po’ Nirvana, gli Stone Temple Pilots si imposero sul mercato discografico con una proposta in parte derivativa, ma non meno coinvolgente, tanto che sono oggi indicati fra i big del grunge (e pazienza se molti li considerano ancora alla stregua di sciacalli saliti sul carrozzone vincente per mere opportunità commerciali). Inventiva ed originalità a parte, è indubbio che i Nostri abbiano saputo scrivere canzoni vincenti. Essi sono la rappresentazione nitida che il grunge può essere replicabile e, soprattutto, esportabile: la band infatti non proveniva da Seattle, bensì da San Diego, e “Core”, il loro fortunato debutto, un po’ traspira qualche umore west-coast (chi ha detto Jane's Addiction?) che si riflette su un hard-rock adrenalinico ed un front-man carismatico come Scott Weiland. Completano il quadro due o tre pezzi iconici da tramandare ai posteri e punte di amarezza esistenziale capaci di stendere anche il più arido di cuore. Per chi volesse approfondire ulteriormente, il successivo "Purple" offre brani irresistibili che ben descrivono quel mix fra rock, ricerca ed appeal radiofonico che ha sancito il grande successo della band.
Mad Season: “Above” (14/03/1995)
Si conclude in bellezza la nostra mini-rassegna con un altro super-gruppo che vedeva nel suo organico pezzi importanti di Pearl Jam, Alice in Chains e Screaming Trees. Ma siamo già al tramonto dell’epopea grunge, aspetto che si traduce, simbolicamente, in un sound blueseggiante e crepuscolare che preferisce adagiarsi sul languore di malinconiche ballad che su momenti propriamente rock. A farci da Caronte in questo placido fiume di emozioni, il caldo ed avvolgente canto di Layne Staley, fra arpeggi carezzevoli e lievi distorsioni, mentre scorrono i titoli di coda di un'epoca irripetibile per il rock...
Come fenomeno, infatti, l'era grunge avrebbe avuto vita breve: è lecito parlare di parabola discendente già con la seconda metà degli anni novanta, quando molti dei nomi storici andarono incontro ad un precoce dissolvimento, il più delle volte dettato dai problemi di alcool, droga e depressione. Eppure l’eredità del grunge sarebbe stata imponente: un buco nero che risucchiò il rock (mainstream e non) per restituircelo drasticamente cambiato. In due parole: più umano, più terreno.
Al di là del fatto incontestabile che l'intero panorama del rock non sarebbe rimasto indenne innanzi allo sconquasso, stilistico e culturale, arrecato dal grunge, di lì a poco sarebbe sorta una folta schiera di band che avrebbero portato avanti la buona novella predicata dagli artisti di Seattle: Foo Fighters, Queens of the Stone Age, Bush, Candlebox, Nickelback, Creed, Stained, 3 Doors Down, Puddle of Mud, Godsmack sono solo alcuni dei nomi di coloro che sarebbero poi stati inseriti nell'ampio bacino delle sonorità post-grunge (dalla nostra dissertazione abbiamo volutamente lasciato fuori artisti importanti che sono stati considerati grunge nella fase iniziale della loro carriera come Smashing Pumpkins e The Afghan Whigs, in quanto essi avrebbero presto virato verso altri lidi, ricadendo nella più congeniale definizione di rock alternativo).
In tutto questo il metal non sarebbe rimasto a guardare: i Tool, che oggi sono considerati progressive, in principio ben si amalgamavano agli umori messi in musica dalle band grunge, tanto che all'inizio furono dalla critica definiti "post-grunge". Ma anche tralasciando questo mirabile esempio, il grunge sarebbe sopravvissuto nella musica delle molte band dedite all'alternative metal, all'industrial-metal ed ovviamente nella musica, ben più popolare, di Korn, Deftones e degli altri nomi celebri del nu-metal (per non menzionare tutti coloro che, anche per sole ragioni commerciali, avrebbe rivisto il proprio sound per renderlo meno spigoloso e più vicino allo spleen esistenziale del grunge).
Come si suol dire in questi casi: grunge is not dead!
Playlist essenziale:
Mudhoney: “Touch me I am Sick” (singolo, 1988)
Mother Love Bone: “Stardog Champion” (“Apple”, 1990)
Temple of the Dog: “Hunger Strike” (“Temple of the Dog”, 1991)
Pearl Jam: “Jeremy” (“Ten”, 1991)
Nirvana: “Smells Like Teen Spirit" (Nevermind”, 1991)
Soundgarden: “Jesus Christ Pose” (“Badmotorfinger”, 1991)
Screaming Trees: “Nearly Lost You” (“Sweet Oblivion”, 1992)
Alice in Chains: “Would?” (“Dirt”, 1992)
Stone Temple Pilots: “Creep” (“Core” (1992)
Mad Season: “River of Deceit” (“Above”, 1995)