1 giu 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: NORTT

 


Dodicesima puntata: Nortt - "Ligfærd" (2005) 
 
Eccoci finalmente alla variante black. Il funeral doom, si è visto, nasce da un percorso di estremizzazione del doom attraverso l'incontro con il death metal, in particolare passando per l’impiego di registri in growl, che nella maggior parte dei casi si approssima al brutal. Gli umori e le tematiche trattate, tuttavia, collocano il genere in prossimità di certe frange sfilacciate del depressive black metal. A volte vengono presi in prestito i riff in tremolo, altre volte lo screaming, altre ancora i suoni degradati, la produzione rigorosamente lo-fi o l’approccio minimale nella scrittura: aspetti, questi, che allontanano il funeral doom dal quel contesto di "solidità death metal" che lo caratterizza nella sua versione canonica. 
 
La variante black metal è dunque molto diffusa ed è bello poterne iniziare a parlare con Nortt, un campione indiscusso dell’ibridazione fra sonorità black e doom, tanto che egli stesso descrive la sua musica come "Pure Depressive Black Funeral Doom Metal". 
 
Attivo dal 1995 con svariati demo, un EP, uno split con gli Xasthur e quattro full-lenght, il polistrumentista danese si è affermato con maggiori consensi negli ambienti black metal piuttosto che in quelli del funeral doom, dove le dinamiche di composizione e realizzazione sono essenzialmente diverse. Si parla, del resto, di un artista il cui approccio agli strumenti è approssimativo e basato sullo sviluppo ossessivo di pochi elementi. La lentezza (che si fa contemplazione, se non stasi assoluta) è l’elemento che ricollega la proposta alle categorie del funeral doom, quando per il resto le sonorità, come l’iconografia adottata (utilizzo persistente del bianco e nero, uso di face-painting e cartuccere, scenari forestali ecc.), sono più vicine al versante black. 
 
Nortt opera in un contesto di one-man band con qualità tecniche assai povere, ma possiede il tocco espressionista che, con poche ma incisive pennellate, gli permette di ritrarre paesaggi di una mestizia tangibile. Non ha la poesia né la creatività di certi altri esponenti del black metal, semmai si muove con gesti iperbolici sotto il segno dell’esasperazione di stati d’animo tendenti al disperato. Stati d'animo che il più delle volte possono sembrare artefatti, persino in un contesto denso di simbologie e vezzi stilistici quale è quello del metal estremo. Tutto viene talmente esagerato da assumere contorni grotteschi, se non teatrali: in questo processo di deformazione, tuttavia, si perde l'umanità, rendendo il progetto Nortt una "maschera artistica" piuttosto che un luogo ove esprimere un sincero disagio.
 
Si prenda l’emblematica copertina di “Galgenfrist”, che ritrae un tizio incappucciato con il cappio in mano che si addentra in una foresta: una palese, anzi ridondante, condensazione di allegorie disposte fin troppo in maniera didascalica (il saio come manifestazione della dimensione spirituale, nonché richiamo alla classica iconografia della “Morte con la falce”; il cappio con nodo scorsoio quale simbolo, ancora, di Morte, anzi di Depressione e Suicidio; la foresta quale scenario di solitudine, ma anche richiamo alle ambientazioni tanto care al black metal scandinavo della seconda ondata). 
 
Prendere o lasciare: il funeral doom è un genere estremo, ed all’interno di esso vi sono gruppi più estremi di altri, certi meno sinceri di altri, e mano a mano che si affondano le gambe nei bassifondi, il rischio di infangarsi è da mettere in conto. C’è da dire che Nortt non è neppure il più estremo dei più estremi patrocinatori di insane commistioni fra black e doom, in fondo egli si muove con equilibrio, disponendo le sue frattaglie emotive con ordine. Ed anche in termini di lunghezza egli ci grazia in più frangenti. Nortt non ha mai realizzato album eccessivamente lunghi, e lo stesso “Ligfærd”, di cui parleremo oggi, conta quarantacinque giri di orologio che, considerato il genere, è quasi la lunghezza di un singolo. 
 
“Ligfærd”, secondo full-lenght rilasciato nel 2005, è significativo fin dal titolo, che tradotto dal danese significa “Funerale” (evviva l’allegria!). Nella copertina una pallida figura (uno spirito?) passeggia fra lapidi marmoree disposte ai lati di un sentiero, con le tetre sagome di alberi a fare da sfondo: uno scena di una disarmante semplicità ma dotata di grande fascino, e lo stesso di può dire della musica che vi si cela dietro. 
 
L’opera si compone di sei tracce, di cui un intro ed un outro di sole tastiere: un ribollire di suoni informe volto più a generare tensione che a delineare linee melodiche ben precise. Rimosso questo “guscio” dark ambient, il nucleo dell’opera si articola in quattro brani che descrivono in pieno un linguaggio che, paradossalmente, sa essere sintetico e dispersivo al tempo stesso. Fatta eccezione di “Tilforn Tid” che dura dodici minuti, le altre tre tracce si assestano sugli otto minuti l'una, ma parlare di tempo in album di questo tipo è inutile, in quanto l’intento è quello di immergere l’ascoltatore in una certa atmosfera, più che intrattenerlo attivamente con una scrittura accattivante. 
 
Le composizioni si sviluppano come per scene, assecondando una "tecnica pittorica" volta a descrivere diversi paesaggi interiori come se ci si trovasse in un corridoio vuoto con porte da aprire ai lati e stanze a cui accedere (a proprio rischio e pericolo). Non siamo ai cospetti di quel “suono colossale” che spesso è prerogativa del funeral doom, con accordi di chitarra profondissimi che vengono prolungati al limite della drone music grazie alle accortezze di una produzione all'altezza. Qui prevale un riffing confuso, gli accordi sono secchi e brevi, il più delle volte si stemperano in funerei arpeggi ove l’elettricità si accavalla e crea frequenze disturbanti. 
 
Capita che spunti uno spettrale pianoforte - strumento non secondario nell'economia del suono di Nortt, tanto che egli, nei rari scatti fotografici, ama farsi immortalare ripiegato sui tasti d'avorio (di spalle ovviamente!). O che, nel marasma elettrico, si apra un varco ove possano insinuarsi melliflui suoni d'ambiente. Le tastiere, dal canto loro, serpeggiano irrequiete in miasmi fantasmatici e soffiano desolanti come un gelido vento fra le croci di un cimitero. 
 
Lo stesso si dica delle disarticolate vocalità, uno screaming degradato che si esprime in lontananza, come anime torturate nella stanza contigua: siamo nel campo dell'astrazione assoluta, con la voce totalmente spogliata della sua umanità e che si fa elemento di atmosfera anch’essa. 
 
La componente ritmica, infine, è pressoché assente, con la drum-machine che viene spenta per lunghi periodi, e se viene riaccesa i suoi battiti fungono più da lenti colpi rituali, o funerei rintocchi di campana, che pattern ritmici veri e propri. Aspetto, questo, che ancora una volta conferisce una connotazione ambient all’intero lavoro, avvolto in suoni riverberati che edificano una dimensione da incubo. 
 
Non bisogna a questo punto pensare che si tratti di musica senza capo né coda, perché, come si diceva, Nortt è un abile regista, sa come disporre le scene di questa sua orribile sceneggiatura, inserendo elementi di variazione al momento giusto, con un equilibrio che, considerato il contesto, sembra possedere un carattere di lucida follia. Gli stessi brani si fanno riconoscere, dopo qualche ascolto ovviamente. 
 
Ligpraedike”, l’episodio più memorabile del lotto, si apre e chiude con tappeti di tastiere apocalittiche: tirare in ballo Ligeti o il Vangelis della colonna sonora di “Blade Runner” è probabilmente fuori luogo, ma rende l’idea della solennità di cui si impregnano i landscape sonori ritratti dal Nostro. Movimenti di tastiera, questi, che sono accompagnati dall’elettricità di una chitarra nera come la pece, versione rincupita delle sinfonie burzumiane di venti anni prima. L’ascolto procede senza scossoni, di certo non c’è da aspettarsi sussulti dal comparto ritmico, laddove lo sviluppo del brano avviene per l’alternarsi di elementi: adesso un greve rintocco di pianoforte, poco dopo un rinforzo di chitarra solista a ricalcare la tragicità del riffing portante. 
 
Quattro full-lenght in più di cinque lustri di “carriera” ben spiegano come il Nostro sia abituato a centellinare le idee e riversarle con cura nei suoi lavori, non sprecando una goccia di ispirazione, ma anche non ammorbandoci con evitabili sproloqui. 
 
Ripeto: prendere o lasciare. Se altre espressioni di "black metal funereo" ci sono sembrate più spontanee e genuine, quello che si apprezza nell’arte di Nortt è la piena padronanza dei mezzi. Egli si muove indubbiamente con la perizia dell'accorto artigiano e i suoi album risultano sempre ben concepiti ed asciugati da ogni qualsivoglia futile ridondanza: un buon test per il neofita che ha la possibilità di saggiare gli ostili lidi del funeral doom di matrice black senza compromettersi in ascolti infiniti. Sempre che, ovviamente, costui o costei abbia voglia di rovistare nel torbido...