27 set 2025

COSMIC VOID FESTIVAL 2025 - LONDON, 20/09/2025



Prima ancora che l'edizione più sfigata di sempre del Cosmic Void Festival avesse inizio, era stata annunciata a spron battuto la sfavillante edizione dell'anno successivo, quella che si terrà nel settembre del 2026: un cartellone che al momento sfoggia con orgoglio i loghi di Hellhammer (performed by Tom Gabriel Warrior's Triumph of Death), MoonspellTiamatSarcofago, Unleashed, Sinister, Asphyx, più le consuete chicche e molti altri da annunciare. Pratica un po’ strana, se ci si pensa, considerato che di solito l'edizione successiva viene presentata o durante o dopo quella in corso. Chissà, gli organizzatori, ancora lontani dal sold out a pochi giorni dall'inizio dell'evento, han provato a suscitare entusiasmo nella speranza che qualche indeciso, contagiato dalla magnificenza dell’edizione del 2026, rompesse gli indugi e comprasse il biglietto per quella del 2025... 

Sia qual che sia, ho avuto come l’impressione che la mossa andasse a confermare il basso profilo della proposta di questo anno che, oltre a presentare un bill decisamente meno accattivante del solito, non ha adottato la consueta formula multi-venue, accontentandosi di tenersi per intero al piccolo O2 Academy Islington e rinunciando dunque al ventaglio di locali offerto da Camden Town negli anni passati, ossia gli iconici Electric Ballroom, Underworld e Black Heart. 
La compagine di gruppi reclutati, si diceva, è alquanto sotto tono e vede come headliner delle tre giornate i Dark Sonority (e chi cazzo sono?!?), i Kovenant (l'unico nome veramente degno di nota e con un “Nexus Polaris” da riprodurre per intero) e gli Apsu (o per meglio dire gli Absu, band storica a suo modo, ma che non ha mai suscitato in me un grande entusiasmo). Procedo per esclusione e la mia scelta, praticamente obbligata, ricade sulla giornata di sabato 20 con i Kovenant. Ma non senza esitazione, perché il resto del bill giornaliero non è che possedesse i crismi dell'irrinunciabile con nomi come KallEllende e Darvaza (giusto per menzionare quelli più importanti). Ma contro ogni aspettativa la giornata si rivelerà per il sottoscritto di estremo gradimento, di un gradimento persino superiore rispetto a certi altri festival analoghi a cui ho avuto modo di partecipare nel corso degli anni (inclusa l'ultima edizione del tanto blasonato Incineration Fest). 

Intanto l’atmosfera: come accaduto con il mitico Albion Dungeon Fest, il Cosmici Void è un evento estremo e di nicchia capace di attirare un pubblico selezionato ed ovviamente strambo, fra il disagio vero e stranezze assortite. Ma questo è un valore aggiunto, perché intorno a te avrai sempre gente entusiasta e realmente interessata alla proposta. E, considerata la sua natura di festival, l’evento ti avvolge nelle sue spire a poco a poco, esibizione dopo esibizione, break after break, con intorno sempre le stesse facce, fino ad assorbirti completamente e divenire una dimensione a sé stante. Quest’anno, poi, è stata allestita una seconda stanza all’O2 Academy Islington con un piccolo palco per i gruppi minori ed una area dedicata al merch ove erano presenti fornitissimi stand di cd, cassette, vinili, magliette, toppe, accessori, persino bandiere. E poi, vivadio! (si fare per dire), una volta tanto un ambiente a misura d’uomo, vivibile, senza troppa gente: NO code al bar, NO file per il cesso e soprattutto la possibilità di vedere sempre bene ovunque ed avanzare facilmente nella mischia senza doversi fare largo a suon di gomitate nelle gengive. 

Si parte tuttavia con una nota dolente, ossia il fatto che - non mi so spiegare come mai, visto che di solito sono molto preciso - mi presento intorno alle 16:00 pensando di essere puntuale per l’esibizione dei Darvaza, il primo gruppo che mi ero prefissato di vedere, per poi rendermi conto di essere in forte anticipo, dato che il gruppo avrebbe iniziato a suonare alle 17:40, quasi due ore dopo. Cosa che mi ha inquietato non poco, consapevole di quanto siano impegnativi fisicamente ed uditivamente certi eventi e dunque temendo di disperdere energie inutilmente. Ho comunque avuto la possibilità di saggiare dal vivo gli italiani Shardana. Stando a quanto è riportato su Metal Archives, il quintetto sardo - con all'attivo tre album - dovrebbe esser passato nei circa dieci anni di attività da sonorità folk metal ad un epico black metal. Quel che personalmente mi è parso (ma mi baso sul primo brano eseguito) è che i Nostri facciano oggi un corposo e variegato blackened death metal. Spiccano le capacità e la versatilità del singer Aaron Tolu che sa passare con disinvoltura dal growl allo screaming, peraltro con un impiego convincente dei registri puliti. Che dire, mi è sembrato un po' too much per iniziare la giornata. Mi perdonino dunque gli Shardana, i quali rappresentano sicuramente una proposta più che valida, ma ho preferito farmi un giretto fuori dal locale per riposare orecchie e spirito in vista della lunga maratona.

Completata l'ora d'aria, decido di tornare nell'Abisso. I tanto attesi Darvaza sono un combo italo-norvegese che vede in organico gente dei Fides Inversa (band talmente valida che abbiamo deciso di includerla nel nostro libro sul metal italiano) e degli stessi Dark Sonority (ah, ora mi spiego perché suonavano il giorno prima come headliner!). I Nostri presentano un suono diretto ed aderente ai dettami del black metal degli albori, a venire in mente sono i primi Mayhem, i Carpathian Forest, gli Aura Noir: un suono che resuscita un’epoca in cui il black metal prendeva forma estremizzando le istanze del thrash più grezzo e brutale. Una furia primigenia, quella dei Darvaza, che non manca tuttavia di atmosfera grazie anche ad una iconografia misterica e minimale che fa copioso uso di simbologie ed immagini esoteriche (mi riferisco ai temi grafici ritratti sulle copertine degli album, sulle magliette e sulla scenografia dietro al palco). Azzecatissime e malvagissime luci rosse completano degnamente il quadro. 

Sebbene sulla carta i Darmaza siano un duo (con il norvegese Björn Erik Holmedahl alla voce e l'italiano Gionata Potenti ad occuparsi di tutto il resto) sul palco si tramutano in un quintetto: una formazione allargata che garantisce una riproposizione potente ed accurata di quanto di buono realizzato in studio, ossia tre EP ed un full-lenght (“Ascending into Perdition”, del 2022): tutta roba che consiglio vivamente agli amanti del black metal più duro e puro in quanto la musica della band possiede un che di magnetico capace di evocare con semplicità ed efficacia gli umori di un’epoca irripetibile, ma senza scivolare nel comodo revival, bensì poggiando sulla sostanza e proponendo brani di grande pregio ed impatto. Tanto che, se non sapessimo che la band ha soli dieci anni di vita, verrebbe da pensare che si tratti di una vecchia gloria di culto del black metal che fu, sia per lo stile musicale riproposto che per l’attitudine mostrata sul palco, con un carismatico Holmedahl responsabile una prestazione impressionante fatta di screaming titanico, sudore ed occhi spiritati. 

Fra momenti tiratissimi e passaggi più anthemici ed old school, il set procede in modo equilibrato, presentando estratti da tutti i tomi rilasciati dalla band e persino una unreleased song. L’esibizione colpisce per intensità, toccando l’apice con la conclusiva “The Silver Chalice” (dall'omonimo EP), tour de force estremo che, condotto da un riffing ispiratissimo ed un drumming senza sosta, vede l’alternarsi al microfono dei due leader in un contesto di furore apocalittico degno di un girone infernale. Se Darvaza, in definitiva, è il nome del cratere gassoso in Turkmenistan anche noto come “Porta dell'Inferno” o “Cancelli degli Inferi”, dopo questa esperienza non possiamo che convenire che mai monicker più azzeccato!

Dopo la ferocia e l’ortodossia dei Darvaza, è la volta del suono carezzevole e malinconico degli Ellende, post-black metal act di secondo piano che ebbe tuttavia modo di saltare agli onori delle cronache nel 2016 grazie a quel mezzo capolavoro che risponde al nome di “Todbringer”. La setlist conferma la centralità dell’album appena citato, dal quale verranno estratti ben tre brani, lo stesso numero dei brani che va a rappresentare il successivo “Lebensnehmer”, evidentemente la stagione di maggior ispirazione per la one-man band austriaca. Lukas Gosch realizza infatti i suoi dischi in totale autonomia, ma per quanto riguarda la dimensione live da diversi anni può contare su una formazione stabile ed affiatata a cui poter affidare l’intero comparto musicale, potendosi così concentrare sul microfono. Il suo screaming affilato e sofferente squarcia le lunghe ed articolate composizioni che oscillano continuamente fra momenti pacati, poetici tempi medi ed intensi passaggi in blast-beat, senza disdegnare azzeccate incursioni di energico black’n’roll. 

L’equidistanza fra blackgaze e depressive fa sì che l’esibizione possa impregnarsi di una vivida emotività, cosa molto apprezzata dal pubblico, in particolare dalle ragazze nelle prime file. Quanto a me (ma potrebbe essere una sensazione totalmente soggettiva), credo che vi sia sempre qualcosa che non quadra nel black austriaco, un mix fra seriosità e cadute di stile che non me lo fa piacere fino in fondo (penso soprattutto agli Abigor). E’ la stessa gestualità del frontman a non convincermi, l’enfasi impacciata con cui accompagna i cambi di tempo (per esempio il Nostro ha il vezzo di muovere enfaticamente il braccio dall'alto al basso e chiudere bruscamente il pugno - come se avesse acchiappato qualcosa nell'aria - ogni volta che una certa fase del brano si conclude e lascia spazio ad un momento più quieto...va bene una volta, due, ma tutte le volte...). Ma poi cosa cazzo ringrazi ogni volta, ma stattene zitto come tutti, no?, che rompi l'atmosfera... Non aiutano, a livello di impatto visivo, un fisico un po' da mingherlino, una felpa con cappuccio sul cui petto pende una cassa toracica di ossa finte e il face-panting sulla barbetta da professorino delle medie. Ma tolto questo aspetto (e soprassedendo su una non perfetta resa sonora che ha visto la batteria prevalere sugli altri strumenti), non abbiamo niente da ridire su una esibizione che ha saputo inanellare momenti memorabili ed incarnare una certa piacevolezza melodica che è una vera toccasana in giornate “all black” come questa.

E’ il momento dei Kall, che attendevo con una certa curiosità. I Kall, per chi non lo sapesse, nascono dalle ceneri dei mitici Lifelover, scioltosi dopo la morte del chitarrista e leader Nattdal. E per chi non lo sapesse, i Lifelover sono stati una delle realtà più esaltanti dell’epopea del depressive black metal, esplosione di freschezza, strafottenza, follia ed anarchia compositiva che non solo ha saputo stravolgere/innovare il genere, ma anche gettare il depressive oltre lo steccato del black metal (a loro piaceva chiamarlo narcotic metal). La morte di Nattdal, avvenuta nel 2011, ha lasciato un vuoto enorme, maggiore di quello che si potesse intuire all'epoca, per questo i suoi ex colleghi (che comunque hanno avuto il buon gusto di non continuare come Lifelover) hanno pensato bene di imbastire un tour tributo chiamato proprio Kall plays Lifelover. Il logo della defunta ma indimenticata band campeggia non a caso in un telone dietro al palco e sulle T-shirt di moltissimi astanti (senza dubbio la band più rappresentata a livello di magliette). 

Che ci si trovi innanzi ad una esibizione fuori dall'ordinario lo si capisce già scorgendo la surreale figura di Kim Carlsson durante il soundcheck. Carlsson non è alto di statura ma è un gigante del depressive, non solo per essere stato il frontman dei Lifelover, ma anche per aver militato in molti altri progetti (fra i tanti Life is Pain e Hypothermia) e per aver fondato una label dedicata al genere (la Insikt). Dal vivo è uno dei personaggi più assurdi che abbia mai avuto la sventura di vedere, a partire dal look altamente improbabile: camicia bianca con il colletto chiuso fino all'ultimo bottone e ben ficcata dentro ai pantaloni, capelli tirati indietro, barba, favoriti e grossi occhiali da sole a goccia. Nel complesso assomiglia ad un misto fra un cameriere da veglione di capodanno ed un ubriaco sfigato avventore del veglione stesso. 

Già l’intro vale l’intera esibizione con Carlsson che si cimenta in uno strambo balletto a rallentatore accompagnato da una miserabile melodia di tastiere. Ricorda nei movimenti il Joker di Joaquin Phoenix, ed in effetti Carlsson è un po' come Arthur Fleck, un patetico stand-up comedian che mette un po' di malinconia e disagio, e se fa ridere, lo fa involontariamente. Ma va bene così, è in questi siparietti che si rivela l'essenza intrinsecamente irrazionale ed imprevedibile di un genere come il depressive. Anzi, è bello constatare che ci si trovi in una fase post-depressive che sa andare oltre le classiche pantomime dell'energumeno di turno (e magari in bandana - ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente voluto) a tagliuzzarsi le pelle, spegnersi le sigarette sulle braccia ed inveire provocatoriamente contro il pubblico. 

Ma torniamo a noi. La scena è surreale e dura un bel po’, fin quando non irrompono le chitarre logore di “Shallow”, indimenticata opener di “Konkurs”. Sebbene il riffing sia di matrice black, i tempi sono cadenzati, con dissonanti tocchi di pianoforte a conferire una strana mestizia al brano. L’oretta a disposizione degli svedesi viene riempita con estratti dall’intera discografia dei Lifelover (quattro album ed un EP) con ovvie predilizioni nei confronti del folgorante esordio “Pulver” e del già citato “Konkurs”, capolavoro della maturità. Certo, si capisce che i musicisti sul palco non sono diplomati al conservatorio, ma imprecisioni e sbavature donano all'esibizione, accentrata dal carisma fuori dagli schemi di Carlsson, che con ironia e qualche rotella realmente fuori posto fa cose senza senso: la sua gestualità è convulsa, passa da movimenti lenti ad improvvise accelerazioni, si mette a ballare in modo sguaiato a margine della musica per uscire di scena a metà di un brano per poi ricomparire nel successivo totalmente svuotato di energia. Quasi immobile per svariati minuti, si cimenta in balletti idioti o gesti che mimano in modo plateale il proverbiale taglio delle vene, poi si sbottona la dannata camicia e mostra l’ampio tatuaggio sul petto. In tutto questo (perché poi non ci dobbiamo scordare che è anche il cantante del gruppo...), la prova vocale di Carlsson si dispiega principalmente attraverso un isterico declamato via via macchiato da uno screaming acidissimo. E l'impiego maggioritario della lingua svedese conferisce al tutto un'aura ancora più straniante. 

A rendere ancora più paradossale l’esibizione abbiamo un pubblico in visibilio che ha mostrato un entusiasmo che non mi sarei aspettato, ma che era intuibile per via delle molte magliette della band presenti in sala. La stranezza è che con il gruppo più "leggero" della giornata si hanno avuto gli unici momenti di pogo. Ma un pogo gioioso vorrei aggiungere, con ragazze scatenate che venivano graziate dagli energumeni di turno, ben lieti di scontrarsi una volta tanto nella vita contro belle e divertite ragazze invece dei soliti cinghiali sudati e molesti. Che poi, dal vivo, il depressive dei Lifelover via Kall ha poco del black metal propriamente detto e finisce per assomigliare ad uno sgangherato post-punk che fa incetta delle migliori intuizioni melodiche di Burzum e Katatonia. Fra sferragliante punk e virate thrash, spiccano le melodie irresistibili di pezzi come “I Love (to Hurt) You”, “Nackscott” e soprattutto della travolgente “M/S Salmonella”, fino al temibile crescendo in blast-beat nel finale, come se i Nostri avessero voluto dimostrare che va bene scherzare ma fino ad un certo punto. 

Non ci sono cazzi, i Lifelover hanno lasciato il segno e i Kall ne raccolgono degnamente l’eredità grazie a brani accattivanti che hanno fatto muovere incessantemente il culo e ad un frontman allucinato come Carlsson che è stato il vero deus ex machina di tutto il putiferio. Senza dubbio l’esibizione più elettrizzante e partecipata della giornata (ed una delle più folli a cui abbia assistito in vita mia...).  

Si arriva agli headliner stanchi ma contenti, con il cuor leggero e la consapevolezza di trovarsi fra amici. Questo tour di reunion è dedicato a “Nexus Polaris”, loro capolavoro insuperato del 1998 quando ancora si chiamavano Covenant e si dilettavano a suonare un pregevole black sinfonico. Sul palco è presente quasi tutta quella formazione stellare che aveva suonato sull'album, fatta eccezione dei chitarristi Blackheart (assente per problemi di salute) ed Astennu (cacciato in malo modo in corso di tour per comportamenti non professionali), comunque sostituiti da due special guest di lusso come Knut Magne Valle (Arcturus) e Ghul (Mayhem). 

Nagash è un Pulcinella spaziale che con il suo basso se ne sta ben piantato in mezzo al palco come se fosse una statuetta su una bomboniera. Sfoggia il suo peculiare face-painting e, al pari dei due chitarristi ai lati, indossa una tuta bianca da gelataio a voler evocare suggestioni sci-fi. L'imponente Sarah Jezebel Deva, dal canto suo, se ne sta defilata sul retro e - munita di mascherina, vistosissimo copricapo, folta chioma rossa e mantella nera - è una presenza inquietante a metà strada fra una creatura lovecraftiana e Moira Orfei. Sverd dietro alla tastiere sembra aver riciclato il look steampunk dal guardaroba degli ArcturusHellhammer, infine, sparisce come sempre dietro all'enorme drum-kit. Sullo sfondo gorghi spaziali e colori accesi. Attacca l’arpeggio sbilenco di “Sulphur Feast”, che la festa abbia inizio! 

Non mi voglio troppo dilungare, basti dire che la band è in grado di riprodurre per intero e con grande disinvoltura l’album a cui deve la propria fama. Forse in modo troppo freddo e calligrafico? E la band è troppo statica sulle assi? Nagash ha il carisma di un criceto? Può darsi, ma a questo punto della serata, con le orecchie sfasciate e diverse pinte di birre alle spalle, non è il caso di fare i sofisti: i pezzi son troppo belli per deludere e i musicisti sul palco troppo bravi per essere criticati. Hellhammer non sbaglia un colpo, Sverd si fa il consueto gran culo dietro alle tastiere, la Deva emerge in modo più incisivo rispetto che su disco ed un plauso particolare va ai due chitarristi in grado di ammaestrare le continue evoluzioni dei brani (in particolare si apprezza la bravura e la professionalità di Ghul, montato in corsa durante il tour e responsabile di una esecuzione precisa ed inappuntabile). 

L’album, ripeto, è eseguito senza troppe variazioni: chi ama quell’album avrà senz'altro amato anche la sua resa live, sebbene il pubblico del Cosmic Void mostri evidenti segni di stanchezza, in particolare dopo la performance esplosiva dei Kall. Vecchi avanti, giovani indietro: è un piacere guardarsi negli occhi fra persone di una certa età e cantare in coro “PO PO PO POOOOOOO PO.... PO PO PO POOOOOOOOOOO PO”. Mi stupisce e quasi mi commuove il fatto che siano in molti a provare affetto per questa strana entità del black metal sinfonico che come una cometa attraversò il cielo del black metal alla fine degli anni novanta. 

Nagash è di poche parole, ogni tanto sbofonchia qualcosa, annuncia i titoli dei brani con voce stridula, sghignazza di tanto in tanto ed è visibilmente soddisfatto nel constatare che la sua musica, a quasi trent'anni di distanza, ancora riempie i cuori della gente. “Chariots of Thunder” è un trionfo sinfonico, con la Deva che si porta avanti sul palco a dare man forte dietro al microfono: un crescendo pieno di pathos che costituisce la conclusione ideale del disco. Quanto alla esibizione, fortunatamente ci sono ancora dieci minuti da riempire e i Nostri ci graziano con un paio di estratti dall’album dello scandalo “Animatronic”, brusca ed inaspettata svolta in territori industrial dopo il successo di "Nexus Polaris" e conseguente passaggio al monicker The Kovenant

Non ci crederete, ma i due pezzi funzionano. “Jihad” prende forma attraverso ritmi danzerecci ed un groove à la Rammstein; il canto arabeggiante della Deva aggiunge gloria alla gloria. Il pubblico accoglie con sollievo perché a questo punto è più divertente sgambettare un po’ che seguire roba troppo complicata. Chiude il tutto l’anthemica “New World Order” cantata a gran voce da tutti ed eseguita con energia e convinzione dai musicisti, dimostrando quasi che quel cambio stilistico, che probabilmente ha compromesso la carriera della band, non era dettato solo da opportunismo commerciale, ma forse era veramente sentito da un Nagash che - rendiamogli merito - era uno a cui il metal è sempre andato stretto, un’anima irriducibilmente sperimentale ed un passo avanti a molto black metal del suo tempo. E vedere la band così a suo agio in un contesto musicale più diretto e bombastico fa pensare che i Nostri si ritrovino sul palco a rifare “Nexus Polaris” perché era l’unico modo per ridare slancio al loro nome ed attirare quel pubblico che non gli ha mai perdonato il “tradimento”. Mi auguro che il buon Nagash (che ha pure menzionato la possibilità di un ritorno discografico) non si senta costretto a doversi impelagare in un intricato e pomposo symphonic black quando in cuor suo sognerebbe di fare il truzzo

Quanto a noi, si torna a casa enormemente soddisfatti, consapevoli che sia trascorsa una giornata sorprendente sotto il cielo nero del black metal: una giornata piena di emozioni e sorprese a dimostrazione che gli eventi piccoli e di nicchia sono la dimensione ideale per l’appassionato di musica, alla faccia di quei poveracci che per vedere i System of a Down fra un anno si stanno già accapigliando per aggiudicarsi biglietti a costi esorbitanti e per posti a chilometri di distanza dal palco...good luck!