"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

25 feb 2025

ALBION DUNGEON FEST - DAY 1



Il barrocciaio è colui che conduce il barroccio. Il barroccio è un carro a due ruote, una specie di calesse antidiluviano che si utilizzava per trasportare carichi pesanti da un centro abitato all'altro prima dell'avvento dei mezzi di trasporto a motore. Nel gergo toscano (in particolare lo usano in senso spregiativo i livornesi per riferirsi ai pisani) il termine barrocciaio indica una persona grezza e sguaiata. Io personalmente - non so se in modo improprio - ho sempre inteso la parola in una accezione più ampia, estendendone il significato a sinonimo di cialtrone, grossolano, non raffinato. 

Ecco, fino a qualche tempo fa ho considerato l'intera carovana del dungeon synth come una congrega di barrocciai. Quelle nenie elementari suonate da mani inesperte, le tre note ripetute allo sfinimento, le trombette, i timpani al silicone, i famigerati "organetti Bontempi": per tutto questo insieme di cose mi son sempre tenuto debitamente alla larga dal dungeon synth, tuttavia qualcosa ultimamente è cambiato nella mia testa e per imperscrutabili motivi ho iniziato ad ascoltarlo, diventandone anche - molto recentemente - un appassionato. 

Per chi non lo conoscesse, il dungeon synth è un tipo di musica elettronica originata negli anni novanta come costola atmosferica del black metal e che - in estrema sintesi ed in termini profani - potremmo definire come un incrocio fra dark-ambient e musica medievale fatta con le tastierine. Ci sarebbero poi molte altre cose da aggiungere sul conto del dungeon synth, e per coloro che fossero interessati posso solennemente annunciare che molto presto, proprio sulle pagine di Metal Mirror, sarà resa pubblica una lunga, esaustiva ed avvincente rassegna sull'argomento. 
 
L'idea di scrivere una serie di articoli sul dungeon synth si è intrecciata in modo indissolubile con quella di partecipare il 15 e il 16 febbraio scorsi all'Albion Dungeon Fest, il primo grande festival nel Regno Unito dedicato a queste sonorità. Inizialmente la cosa mi pareva altamente improbabile, considerati sia il costo di 85 sterline che lo scarso interesse storicamente nutrito per il genere da parte del sottoscritto. Ma poi con il tempo, mano a mano che mi addentravo nei meandri di queste sonorità e ne imparavo a cogliere gli aspetti positivi, questa maratona di due giorni mi è risultata sempre più appetibile, fin quando non mi è sembrato inevitabile andarci. E allora andiamoci, mi son detto!

Il bill anzitutto. Un bill che contempla nomi come Mortiis, Depressive Silence, Gothmog, Quest Master, Malfet, Hedge Wizard, Diplodocus, Arcana Liturgia, con le dovute proporzioni, è come un festival metal che ospita Black Sabbath, Iron Maiden, Metallica, Slayer, Pantera, Mastodon e chicche assortite. Non scherzo: fra nomi storici e nuove leve, il gruppo di nomi che è stato messo insieme dagli organizzatori è qualcosa di formidabile ed irrinunciabile per qualsiasi appassionato di queste sonorità. 

Vi è poi l'aspetto sociologico, che non è da meno: ero troppo curioso di immergermi - alla stregua di un reporter di una rivista di costume - nel misterioso ed impalpabile mondo del dungeon synth: un non-pubblico che consuma la propria passione fra le quattro mura delle proprie camerette appiccicose in compagnia di una buona connessione internet. Sarà anche un non-pubblico, ma l'evento fa sold out in entrambe le giornate. Grazie al cazzo!, aggiungo io, visto che non era certo una impresa titanica riempire il New Cross Inn, antro per 350 anime trasudante il mood e gli odori di una storica venue di South London consacrata alle cause del punk e dell'hardcore  (altro delizioso paradosso, questo, visto che il dungeon synth a livello stilistico si pone letteralmente agli antipodi del punk - sebbene poi ne condivida la stessa irriducibile attitudine underground ed anti-mainstream). 

Esaurisco brevemente la questione sociologica, basti dire che in questi giorni ho avuto intorno a me la fauna umana più assurda che occhio umano possa avvistare riunita in un unico luogo. Senza contare quelli che si sono mascherati per l'occasione (incappucciati con lunghi sai da templari o imbellettati da personaggi cattivi de Il Signore degli Anelli  - l'effetto cosplay era prevedibile ma non ci dice molto sulla natura autentica delle persone), possiamo a grandi linee elencare le seguenti tipologie umane: per lo più metallari (con quota maggioritaria di blackster), nerd appassionati di fantasy e/o videogames, anziani dai lunghi capelli bianchi e dalle lunghe barbe a metà strada fra il progster settantiano e il cultore di filosofie occulte, ragazze giovanissime dai capelli colorati ed in tenuta ottocentesca, gente orientale, simpatizzanti dei regimi totalitari del '900, in più sparuti rappresentanti dagli universi del punk, del post-punk, del dark e del folk paganeggiante. Da notare che in modo trasversale, su tutte le categorie sopra elencate (ed in particolare fra i cultori del black), guadagna spazi considerevoli la quota gender fluid. Tutto all'insegna della gentilezza e dell'affabilità, ci mancherebbe: il popolo del dungeon synth, pur riflettendo a tratti un disagio interiore, o comunque un bisogno di fuga dalla realtà, non incute affatto timore. Anzi, ti mette a tuo agio.

La bizzarria di suddetta popolazione (mitica la ragazza punk che fra un set e l'altro si faceva il maglione all'uncinetto - credo per motivi terapeutici) trova giusta espressione nella dimensione anarchica e senza regole del New Cross Inn: un posto davvero vecchia scuola e dunque degno di ospitare un evento del genere. Là dentro puoi fare il cazzo che ti pare: sederti, sdraiarti, mangiare la pizza e consumare allegramente il beverone che ti sei portato da casa; puoi uscire e rientrare senza che nessuno ti chieda se hai il biglietto, né vieni controllato all'ingresso, tanto che potresti entrare con delle bombe a mano nella borsa o anche dei ferri per fare l'uncinetto - scene mai viste in un locale londinese. 
 
C'è poi da dire che non è chiaro il limite fra pubblico e addetti ai lavori: guardandosi intorno si ha il sospetto che molti siano musicisti che prima o poi sarebbero montati sul palco con un cappuccio calato sul viso, senza poi contare i vari titolari di etichette e case editrici. E a momenti ho avuto l'impressione di essere l'unico che non c'entrava professionalmente con l'ambiente, l'unico ad avere pagato il biglietto e dunque il finanziatore unico dell'evento.

Quanto all'aspetto musicale/artistico, proverò a condensare in spazi ragionevoli questa esperienza trascendentale. Per coloro che fossero assetati di ulteriori dettagli, sappiate che ci sarà presto modo di tornare sull'argomento ed approfondire il tutto attraverso la nostra rassegna, visto che in essa verranno trattati molti dei nomi che abbiamo avuto modo di vedere sul palco.

Importante però fare due precisazioni di carattere generale. Per quanto riguarda la resa live, considerate le caratteristiche del genere, era ragionevole coltivare il timore che le parti pre-registrate e campionate potessero prevalere sulle parti effettivamente eseguite dal vivo (un po' come capita in molti concerti di band darkwave). Per quel che posso aver capito io, le mani dei musicisti si muovevano concretamente sui tasti delle tastiere, ma certamente vi è stato il supporto di file audio, cosa chiaramente udibile e visivamente confermato dalla presenza di laptop sul palco. Siamo consapevoli che questo era inevitabile, sia per rinforzare il suono nella dimensione live che per dare libertà di movimento ai musicisti stessi, ma mai si è percepito l'effetto "playback": i musicisti dediti al dungeon synth si porranno anche come dei barrocciai, ma a conti fatti non lo sono affatto, considerato che tutti, ma proprio tutti, hanno dimostrato professionalità e discrete capacità tecniche. 

Ad aiutare la resa live due aspetti cruciali. Uno, la durata delle esibizioni, tutte abbastanza brevi - fra trenta e quaranta minuti quelle degli artisti minori, un'ora-un'ora e dieci quelle degli headliner - cosicché le singole esibizioni son sistematicamente terminate un minuto prima o un minuto dopo che sopraggiungesse la noia. Due, l'aspetto scenico: tutti i musicisti, salvo qualche eccezione, si son presentati sul palco in maschera e costume di scena con un immaginario ben preciso da rappresentare e che ovviamente si andava a collegare concettualmente alla proposta musicale. Ciò ha procurato nel complesso quello che io definisco "Effetto Biennale di Venezia": sono il bombardamento di input e la loro varietà la forza dell'evento, il quale finisce per avere un valore superiore alla mera somma delle parti. Chissà, molti artisti della Biennale non mi avrebbero colpito se li avessi visti singolarmente in una galleria, ma tutti insieme, uno dopo l'altro, hanno concorso a rinforzare l'impatto generale dell'esperienza. E la stessa identica cosa si può dire dell'Albion Dungeon Fest: da qui la generosità delle mie valutazioni. Ma adesso bando alle ciance e caliamoci finalmente nelle note di questa incredibile due-giorni!  

Giorno uno - Sabato 15 febbraio 

L'evento inizia alle una del pomeriggio, ma per non farmi troppo male decido di arrivare con cautela intorno alle tre, nel bel mezzo dell'esibizione di Lord Bakartia, progetto basco avviato nel 2022. Mi perdonino i fan di Cave Walker (era il gig di apertura), ma me lo sono perso. 
 
Mi ci vuole tutta l'esibizione del Bakartia per ambientarmi - o meglio - per tarare mente e corpo in relazione alle coordinate spaziali del luogo che mi ospiterà per i successivi due giorni. Il New Cross Inn è fottutamente piccolo e non riesco ad avere una visione d'insieme: la gente alla sesta fila è praticamente schiacciata contro il bancone del bar, il palco è alto 60cm e assai sguarnito, con il solo stendardo dell'Albion Dungeon Fest appeso alla meno peggio sulla parete e ai lati i due cartonati con le torrette stilizzate. Per quel che ho potuto vedere, tuttavia, il Bakartia mi è piaciuto: tiene fede allo stereotipo del dungeon synth e va benissimo come antipasto, bello incappucciato con una maschera di ferro che dovrebbe essere qualcosa di medievale ma che piuttosto ricorda un casco da giocatore di rugby (anche per via della stazza del musicista). Il Nostro si dimena dietro la sua tastierina, fautore di un dungeon epico e pomposo in stile tardi Depressive Silence/Solanum, e non è niente male per essere le tre del pomeriggio e con fuori un discreto sole. Momento top: il brano si ferma, parte una base danzereccia, il Nostro si allontana dalla tastiera, incita il pubblico, torna dietro la tastiera e termina il set in modo trionfale fra orchestrazioni e beat incalzanti. Va benissimo cosi. 

Finita l'esibizione, esploro un po' la situazione. Ai piani di sotto, nelle segrete oscure, ci sono i bagni. La via che porta ad essi è occupata da personaggi strani e banchetti di merchandise con magliette, toppe, cd, cassette, libri e tutto ciò che può far la gioia di un collezionista. Torno sopra e vedo gente accasciata per terra, chi con la testa fra le mani, chi invece bivacca allegramente come se fosse un picnic. Eccoci ai Dragon Keep: Lila Starless (di stanza a Rennes, Francia) si presenta sul palco in modo dimesso, felpa di "Far All Tid" dei Dimmu Borgir e bavaglio a coprire metà del volto. Quello che la Nostra ha da offrire è un dungeon synth assai classico, sicuramente ben suonato ma per nulla originale. Siamo in presenza di discrete capacità tecniche, vengono passati in rassegna momenti più enfatici e dal taglio sinfonico ad altri più intimi e scarni, con melodie fra il fiabesco e il piano bar. Che dire, pur apprezzando la validità di certi passaggi e l'ortodossia della visione artistica, alla lunga l'esibizione annoia e pecca di frammentarietà. Non durando poi molto, tuttavia finiranno per prevalere gli aspetti positivi. A parere di chi scrive la performance più debole fra quelle viste nei due giorni. 

Arcana Liturgia è invece un progetto italiano che merita tutto il nostro rispetto: un act storico nato nel 1997 e che può vantare una pubblicazione persino negli anni novanta (“The Return of the Mighty King” del 1999), per questo non ci risulta chiaro come mai sia stato collocato così in basso nella scaletta del festival. Ma il buon Andrea Artusi non sembra curarsene, imponendosi con il carisma del veterano: saio e lunga barba, sale sul palco fra gli applausi e gli ululati del pubblico e parte a bomba con possenti orchestrazioni ed un refrain melodico che ti si stampa subito in testa. Si parla il linguaggio di un dungeon synth classico e medievaleggiante ben scritto ed eseguito. A me personalmente vengono in mente (ed è un complimento) le progressioni sinfoniche di Jim Kirkwood, compositore inglese poi eletto a posteriori quale precursore inconsapevole del dungeon synth. Il set scorre bene, fra poderose tracce strumentali (are you ready London?!? grida Artusi ad un certo punto per pompare il pubblico), altre più atmosferiche dove il Nostro, impugnando un vecchio libro rilegato in pelle, si prodiga in un suggestivo recitato che mi ha rammentato certe cose dei primi Cernunnos Woods, altra gloria misconosciuta della prima ora. Non mancheranno momenti di sublime ossessività a ricordarci che Burzum è stato un pilastro fondamentale per la genesi e lo sviluppo del dungeon synth. A proposito, Burzum è il vero convitato di pietra del festival e i suoi brani (ambient) verranno sistematicamente messi in filo-diffusione fra una esibizione e l'altra, come a voler compensare una grande assenza. 

Giunge il momento del talk show e il New Cross Inn si fa di colpo sala-congresso. Tre sgabelli con rispettivi microfoni vengono posizionati sul palco. Avremo per l’occasione due ospiti d’eccezione: Jordan Whiteman, autore del libro "Dark Dungeon Music - The Unlikely Story of Dungeon Synth", e niente meno che Mortiis in persona (ricordo che il Nostro sarà headliner la seconda giornata), in veste di se stesso (senza trucco e parrucco) e promotore del suo "Secrets of My Kingdom: Return to Dimensions Unknown", tomo che raccoglie scritti e illustrazioni risalenti agli anni novanta, divenuto nel tempo oggetto di culto e ristampato recentemente. Presenta Dayal Patterson: autore, giornalista, editore e fondatore della casa editrice Cult Never Dies

Non voglio troppo tediarvi sulla piacevole oretta trascorsa insieme ai tre figuri, basti dire che Mortiis si è confermato una persona intelligente ed un vero artista, e dunque come ogni buon artista, quando viene chiamato a parlare della propria arte, dice o ovvietà o banalità. Con un ottimo inglese, umiltà ed ironia, il Nostro ripercorre la sua storia, un po' smontando l'impalcatura di mito vivente che gli è stata costruita addosso, apparendo in imbarazzo innanzi a certe domande e senza le idee chiare su diversi punti sollevati. Se la ride se gli dicono che ha inventato un genere, esprime la sua ammirazione per Kiss, W.A.S.P. e Motley Crue grazie ai quali ha deciso di divenire musicista, accenna a disturbi e patologie mentali che lo hanno portato a "rifugiarsi" in quella specifica visione artistica, ironizza sul black metal e sulla sua antica militanza negli Emperor. Quel che ne esce è comunque l'immagine di una persona genuina e per niente costruita. 

Anche Whiteman svolge il suo ruolo alla perfezione: calvo, lunga barba di ordinanza e maglietta dei Nortt, dimostra competenza, tanto che sembra saperne più di Mortiis stesso. Insomma, un nerd più nerd degli altri nerd. Tradisce timidezza e di sicuro è una persona umile ed onesta, e mi sarei comprato il suo libro se non fosse costato 40 sacchi. Comunque al momento delle domande gli chiedo se lui ritiene che il winter synth debba essere ancora considerato come un filone del dungeon synth o un genere a sé stante, lui mi ha risposto che sì, è ancora dungeon synth, e dunque sono lieto di poterlo includere nella mia rassegna (ripeto: prossimamente su questi schermi). 
 
La discussione continua affrontando i temi più disparati, dagli aspetti artistici del genere al ruolo della componente ideologica, passando per gli ambiti del marketing, con una interessante focus sulla dicotomia costituita da un lato dalle potenzialità di internet e dall'altro dall'importanza ancora ricoperta dai supporti fisici (importante ricordare che i maggiori canali di diffusione del genere sono il formato digitale - spesso disponibile su Bandcamp nelle pagine dei vari artisti - e le musicassette, in onore dello spirito underground con cui queste sonorità si sono generate ed inizialmente diffuse). Interessante nota sociologica: Dayal Patterson, per sua curiosità, chiede al pubblico in quanti ascoltano dungeon synth ma non sono fan del black metal. In dieci alzano la mano, a dimostrazione che alla fine della fiera il dungeon synth è da considerare pur sempre una sorta di branca del metallo. 

Siamo più o meno a metà della prima giornata, continua per il sottoscritto la spola fra sala concerti, toilet (dove ho avuto l'onore di pisciare accanto ad un templare) e bar. Di tanto in tanto metto il naso fuori per prendere aria e riconnettermi con la realtà, rendendomi presto conto che il mondo reale è ben peggiore dell’universo magico del dungeon synth: piove, cristosanto, e lo scorcio esterno non è dei migliori, fra cielo grigio, edifici grigi e strade grige - un grigio spezzato solo dal rosso degli autobus a due piani e dai colori pastello dei fast food di pollo fritto halal). Meglio tornar dentro, arriva inevitabile il momento del dino-synth

Entra in scena Diplodocus, uno che nella storia del dungeon synth c'è grazie ad un solo disco, quello "Slow and Heavy” (classe 2019) che costituisce l’esempio più noto di applicazione delle ambientazioni giurassiche alle trame sonore del dungeon synth. Ovviamente il lavoro verrà riprodotto per intero sul palco. Le percussioni marziali, i tronfi tromboni degni di un peplum degli anni sessanta e i campionamenti di schiamazzi forestali e cori di uomini delle caverne tratti dal film "The Lost World" del 1960 stasera convincono esattamente come su disco, ma a convincere ancora di più è l'attitudine da intrattenitore del Nostro che, come consueto, indossa una maschera da tirannosauro rex. Curioso il fatto che fra il pubblico vi sia gente mascherata da dinosauro, rendendo lo scenario complessivo ancora più surreale. Il top del delirio si toccherà quando verranno lanciate sul pubblico clave gonfiabili che in molti agiteranno divertiti a tempo di musica, mentre Diplodocus li aizza invasato da dietro la consolle e le epiche note di "Primal Rage" echeggiano pompanti nella sala: una delle scene più assurde a cui abbia mai assistito in vita mia. Diplodocus in mezz'ora abbassa in modo irrimediabile il livello di credibilità dell'intero genere, ma che risate! 

Durante le pause fra una esibizione e l'altra si ripete come un solenne rito la triangolazione discesa ai cessi-minuto di aria-coda al bar. Un certo mal di schiena principia a farsi sentire, ma si tira avanti, ci sono ancora un paio di nomi interessanti prima degli headliner della serata. Il primo nome è Malfet. Dopo un breve sound-check, si scorge dietro ad una imponente postazione di tastiere (ricoperte da piante rampicanti) il titolare del progetto Ross Major che, con davvero poca poesia, si veste direttamente sul palco, indossando il costume di scena (saio e cotta di metallo da cavaliere): gran bella barrocciata, ma non c'è da biasimarlo, non c'è backstage al New Cross Inn! Il Nostro si avvarrà anche di proiezioni di immagini quali scorci naturali, castelli, dipinti di gentili donzelle per rinforzare le suggestioni medievaleggianti di quello che l'autore stesso definisce "pastoral synth", fortemente ispirato dalla musica celtica e dalle saghe di Avalon. Ma è la doppia tastiera l'elemento fondamentale che va a certificare una complessità strumentale sopra la media. 

Dalle espressioni del viso si capisce che il Nostro crede nella sua musica, e mentre i suoi occhi estasiati guardano nel vuoto oltre il pubblico, le sue mani scorrono veloci sui tasti edificando un suono potente ed incalzante, forte di pattern melodici di grande presa e poderosi accordi a sospingere i crescendo delle tracce estratte dai capolavori "Alban Arthan" e "Dolorous Gard". Peccato solo che gli onnipresenti effetti ambientali e i field recordings (un vero trademark del progetto americano) alla lunga stanchino l’orecchio costituendo un superfluo borbottio nel sottofondo. Forse quella di Malfet è una musica anche troppo stratificata per essere riproposta efficacemente dal vivo, e sul palco perde qualcosa rispetto alle perfezione riprodotta su album, ma il Nostro si conferma una delle stelle di diamante del dungeon contemporaneo. 

Noto anche che il livello del volume si è alzato rispetto alle esibizioni precedenti, o forse, più semplicemente, sono le mie orecchie che iniziano a subire l'oltraggio delle svariate ore di musica. Ma non è certo questo il momento di capitolare, sul palco sta armeggiando con i suoi apparecchi un altro pezzo da novanta del dungeon recente: l’australiano Quest Master. A scapito del nome d’arte Lord Gordith, il Nostro si presenta squisitamente in borghese: capello lungo mosso, cappellino con visiera, baffetto da Kirk Hammett, giubbotto di pelle e maglietta dei Death (come non stimarlo!). Nonostante un aspetto da chitarrista di death metal band floridiana di inizi anni novanta, il Nostro ci delizierà con delle sonorità puramente elettroniche che esondano facilmente nel synth-pop ottantiano, con un piede ben dentro al regno delle colonne sonore dei videogiochi. Alle sue spalle scorrono immagini di vario tipo: dai soliti paesaggi con castelli e chiese a scenari più urbani con edifici e reattori nucleari, passando da sequenze di anime e di videogiochi e scritte squisitamente sgranate in stile Commodore 64. 

Devo dire che su disco il progetto non mi ha mai esaltato, ma dal vivo mi rendo finalmente conto di come mai esso sia fermamente considerato fra i grandi nomi del dungeon contemporaneo: il set è travolgente, dinamico, e quelle architetture che su disco mi sembravano eccessivamente scarne e sempliciotte, sul palco acquisiscono vigore e corposità, decollando grazie a melodie vincenti che si sussuegono senza sosta nel fragore di distorsioni e volumi sempre più alti.  Fra la gente vedo partecipazione ed addirittura c’è chi intona l'inizio di “Cloudy Gateways” dall’ultimo “Sword & Circuity”, a dimostrazione della popolarità del progetto. 

Giunge finalmente il sospirato momento dei Depressive Silence. Per i profani c'è da premettere che i tedeschi rappresentano uno dei nomi più gloriosi del genere, ma la loro fama poggia solamente su tre leggendarie demo rilasciate negli anni novanta. Alla faccia del buon Mortiis che si è fatto un gran culo nel corso degli anni per sviluppare e rendere popolare il genere, si dice che il terzo lavoro dei Depressive Silence, "Depressive Silence II" (anche conosciuto come "Depressive Silence" o "Mourning"), sia il più bell'album dell'intera epopea del dungeon synth. Tutte cose che son state decise a posteriori con la riscoperta del genere agli inizi degli anni dieci del nuovo millennio, perché i Depressive Silence scomparirono miseramente dopo quelle tre demo per poi riformarsi (più o meno opportunisticamente - credo più opportunisticamente che altro) in anni recenti al fine di cavalcare il Mito e portare sul palco la loro musica, tutto ad un tratto tornata di interesse pubblico. 

Se in origine erano un duo formato da tali Ral e B.S., nella loro attuale versione live sono divenuti un quintetto comprendente anche altri membri dalla black metal band Mightiest, in cui Ral tutt'ora milita e B.S. vi ha militato in passato. Quindi, oltre ai due tastieristi, si hanno oggi ben due percussionisti (di cui uno all'occorrenza anche alla chitarra elettrica) ed un cantante, tale Oliver Orzel. Con questa formazione i Nostri nel 2019 hanno pubblicato "Medieval Demons MMXIX", che non è altro che la ri-registrazione dei tre brani che componevano il primo lavoro (lo split con i Mightiest), riletto in chiave più gotica e con tanti parti cantate. 

Trovo particolarmente infelice l'idea di far accedere i membri della band al palco facendoli passare fra la gente (del resto, si diceva, non c'è il backstage), ma a parte questa barrocciata, il concerto inizia nei migliori dei modi, con suoni perfetti, volumi ancora alti e l'insinuarsi di un song-writing di livello superiore. La formazione a cinque è indiscutibilmente un valore aggiunto e, a questo punto della serata, i Depressive Silence sono una vera botta di vita, grazie anche ad un impatto visivo importante con i vari membri incappucciati e con il volto coperto da un ulteriore velo nero - cosa che rende il tutto davvero inquietante. L'effetto d'insieme non è lontano da quello di una esibizione dei Sunn O)))

Partono in quattro sul palco con una suite strumentale che subito mette in chiaro lo status di maestri assoluti. Il percussionista al centro dello stage picchia come un forsennato su due enormi timpani ed è uno spettacolo nello spettacolo, il cuore pulsante dell'esibizione in forte contrasto con la staticità degli altri musicisti. Sullo sfondo è stato rimosso lo stendardo del festival, lasciando scoperta l’enorme scritta con il nome del locale che campeggia sul muro mezzo sgretolato: un interessante squarcio urbano che cozza in maniera intrigante con le atmosfere arcaneggianti portate sul palco dalla band. Del resto il dungeon è anche questo: vecchio e nuovo che convivono in modo costruttivo. Il quinto elemento, il cantante, entra in un momento successivo, sempre passando fra la gente con un tizio della crew che si fa avanti gridando excuse me excuse me (altra barrocciata clamorosa) per poi montare sul palco e diffondere incenso con movimenti lenti e solenni. 

Mi sarei aspettato un evocativo screaming, considerato che il progetto nasceva sotto il segno di un aspro black-ambient, ed invece ci troveremo inquisiti da una voce baritonale salmodiante in stile Sisters of Mercy/Fields of the Nephilim che spinge l'esibizione entro territori darkwave. Nonostante l’opera di restyling e lo snaturamento del suono originario, la performance convince. I brani dell'esordio discografico (“Medieval Demons”, Dark Side” e “Düsterwald”) fanno bella mostra di sé, dilatati e continuamente sospesi fra quiete liturgica, campanacci a morto e scoppi apocalittici, con il tema di “Medieval Demons” a ripetersi per più volte durante l'esibizione e fare da filo conduttore al tutto. Le porzioni strumentali rimangono importanti, ma durante questi momenti il frontman non se ne sta con le mani in mano, fungendo da elemento coreografico di grande suggestione, accompagnando le evoluzioni funeree dei brani con gesti lenti ed imperiosi. 

Menomale che verso la fine i Nostri si ricordano che la loro fama è principalmente legata alle tracce di “Depressive Silence II” e dunque hanno il buon cuore di chiudere le danze con una travolgente ed epica (seppur un po’ pasticciata) “Dreams”, quella che io ritengo una delle composizioni più belle dell’intera epopea del dungeon synth. Grandi momenti, indubbiamente.  

Giunge al termine la prima giornata. Siamo provati ma soddisfatti. Arcana Liturgia e Depressive Silence si accaparrano a mio avviso la palma di migliori esibizioni della giornata, ma ci sono stati molti altri momenti che ricorderemo a lungo. Più in generale ha convinto l'organizzazione dell'evento, veramente impeccabile. Sarebbe bello a questo punto poter dire “fantastica esperienza ma adesso anche basta”, ma sappiamo che non sarà così e che dovremo tornare il giorno dopo per un’altra padellata di ore di dungeon synth, più stanchi e meno incuriositi di oggi. Ma vi voglio svelare uno spoiler: la seconda giornata sarà anche meglio della prima. Il resto lo leggerete domani...