La
discografia del gruppo americano parla chiaro: un EP e quattro album in
venticinque anni di carriera. Un'assenza sul mercato discografico che
ammanta di leggenda una formazione che da quando è attiva ha prodotto più o
meno cinque ore di musica. Un po' come il presentatore italiano,
campione di ascolti ogni volta che mette piede in TV. Ma se ciò avvenisse ogni
anno, o addirittura ogni settimana, il successo sarebbe il medesimo?
C’è
gente in Italia che pensa che Adriano Celentano abbia inventato il rock’n’roll.
Il Molleggiato, in verità, è un campione di marketing &
comunicazione. In musica non ha inventato niente (buon interprete, quello sì, e
con il merito di aver portato il rock anglosassone nell'Italietta di
Neanderthal dei vari Claudio Villa, Domenico Modugno e Nilla Pizzi); come
attore era mediocre; del Celentano opinionista è meglio tacere: paradossalmente
egli è stato più originale come presentatore TV. Le pause interminabili in cui
il Nostro, non dicendo nulla e limitandosi a sorridere o a toccarsi la bocca,
passeggiava nell’oscurità di una scenografia minimale; le frasi non-sense,
l’umorismo surreale, la destrutturazione degli schemi del varietà e del
linguaggio televisivo in generale: questo era “Fantastico 8” (1987), sua prima esperienza
come protagonista di uno show televisivo ed idealtipo di una serie di
programmi fotocopia che fonderanno il successo sul personaggio costruito di
Celentano e disponibilità economiche sempre maggiori (francamente
sproporzionate rispetto agli effettivi contenuti). E, ovviamente, su un sistema
di aspettative creato ad arte. Probabilmente i quattro anni che hanno separato
le quattro puntate di “125 milioni di caz…te” (2001) e le quattro di “Rockpolitik”
(2005) hanno contato qualcosa. Perché altrimenti non si capisce l’isteria che
si viene a creare ogni volta che Celentano appare sul piccolo schermo, portando
con sé le solite canzonette, i consunti silenzi ed i monologhi di una banalità
ed ottusità contundenti. Prima di lui, fu la collega ed amica Mina ad
imporsi come la Sacerdotessa dell'Assenza: completamente sparita
dalle scene dopo il successo stratosferico che l'aveva innalzata ad icona
assoluta della musica leggera italiana, Mina vive da anni di una rendita
illimitata. Tantoché basta una sua scoreggia in rete per creare un caso
mediatico.
I
vantaggi della non-esposizione sono conosciuti anche nell'universo Metal.
Nel mondo dell'iper-informazione e dell'industria discografica che detta ferrei
tempi di pubblicazione, oggi probabilmente il miglior modo di comunicare è non-comunicare.
Prendo un gruppo a caso, gli In Flames: non li seguo più, ma ogni
due/tre anni noto che esce un loro album, e spesso i commenti sono del tenore
“lieve evoluzione nel percorso degli svedesi…” oppure “lieve passo indietro per
gli svedesi…”. Che palle! Ma è solo un esempio, il metal è spesso così: con i
primi tre album una band si costruisce una reputazione e poi va avanti
all’infinito pubblicando roba piatta e sostanzialmente uguale a se stessa. La
cosa strana è che se al prossimo giro gli In Flames rilasceranno l'opera che
cambierà la storia della musica, in pochi se ne accorgeranno. E pochi altri
diranno: “Toh, è uscito il solito album degli In Flames”.
Non
tutti però si conformano alla regola dell'album-ogni-due/tre-anni. Ci
sono per esempio gli iper-compulsivi della pubblicazione. Un caso
eclatante è Steven Wilson, vero incontinente artistico che, o con i
Porcupine Tree, o in veste solista o, in uno dei suoi tanti progetti paralleli,
è sempre fra le palle. Stessa cosa vale per i Dream Theater, che se non
fanno uscire uno o due live ufficiali fra un album e l'altro non sono contenti.
Questa sovraesposizione può essere utile o deleteria a seconda dei casi. Se la merce
è di qualità (vedi Wilson), il gioco regge e si viene a creare una sorta di
assuefazione: sei talmente frastornato dalle continue uscite che il tuo
giudizio si appanna, non hai tempo per metabolizzare, se anche non sei convinto
stai comunque tranquillo perché sai che dovrai aspettare poco per sperare di
avere quel che desideravi, e finisci per averne sempre bisogno, come le
sigarette. Di fronte invece a lavori sistematicamente mediocri o confezionati
in fretta e furia, la rabbia e la frustrazione possono portare all'odio, allo
sdegno ed infine all'indifferenza.
Si
giunge infine a quelli che non pubblicano mai. E non considero nel numero le fetide
reunion: cariatidi, artisti falliti, uomini finiti che in altri tempi hanno
giustamente deciso di scomparire, tornano all'improvviso (Venom, Pestilence,
mi sembrano i nomi più rappresentativi). Suscitando ovviamente attese
altissime, ma, salvo rarissime eccezioni, si tratta di vecchi bolsi e stempiati
che cercano, inseguiti da creditori, di raschiare il fondo del barile perché
hanno già veduto il mobilio di casa. A volte queste scialbe pubblicazioni si
fanno perdonare se sono il prezzo per poter vedere dal vivo gente che si
credeva estinta. Nel peggiore dei casi si finisce per infangare una
leggenda.
No,
io invece parlo di chi decide di scomparire, pur continuando ad esistere. Un
caso che per me rimane emblematico, anche se non si tratta di metal, è quello
dei Blood Axis. Formatosi alle fine degli anni ottanta, rilasciarono un
pugno di singoli e un solo incredibile album, “The Gospel of Inhumanity”,
del 1995. Bastò il “Gospel” per entrare nella storia. Poi niente, il silenzio, qualche
attività sporadica nel corso degli anni ed infine il tour a sorpresa nel 2005: ma
quale shock fu vedere montare sul palco un Michael Moynihan irriconoscibile,
capelli lunghi, barba sfibrata, camicia e gilet da boscaiolo nel giorno di
festa. Shock per chi lo ricordava impeccabile in divisa militare e con il capello
rasato. La musica, dal canto suo, si era tramutata: dal gelido e scarno martial-industrial
degli inizi, al folk bucolico con tanto di chitarre acustiche e violino
della svolta apocalittica. Il fatto è che nel corso di quei dieci anni le
persone, gli artisti, il mondo erano cambiati. Li pensavamo morti, ed invece nell’oscurità
si erano solo trasformati. Idem per quanto riguarda il ritorno in pompa magna
del Conte con “Belus” (2010), dopo tre lustri di carcere e
qualche insulso dischetto di sole tastiere suonato in cella. Il ragazzino che
ricordavamo fieramente ritratto con la mazza chiodata o che si lisciava i
capelli imbarazzato nelle riprese che immortalano certe udienze del processo
per l'uccisione di Euronymous, era divenuto un fosco e rugoso quarantenne con barba, cappellino
camouflage ed occhio spento. Ma l’arte di Varg Vikernes non si è mai spenta,
ha continuato ossessivamente a girare nella sua mente, nel chiuso delle quattro
pareti della sua reclusione.
Altra
storia è per i Tool, che non sono certo dei misconosciuti che
vivacchiano più di espedienti che di musica, né sono stati incarcerati. Probabilmente
sono stati gli artisti più influenti degli ultimi venti anni in campo metal (e
non solo). Per certi aspetti la loro portata rivoluzionaria è stata pari a
quella dei Led Zeppelin (solo che ai tempi di Plant, Page & soci c'era
molto da inventare, e il loro contributo fu un po' come aver inventato la
ruota; agli inizi degli anni novanta, quando i Tool irruppero nel mercato
discografico, tutto più o meno era stato avviato, e quindi le loro innovazioni
hanno avuto un impatto più marginale, sebbene in un contesto più complicato: difficile, di questi tempi, innovare
più di quanto abbia fatto Mark Zuckerberg con Facebook o Steve Jobs
con gli smart-phone).
Pochi
si accorsero di loro quando ancora sguazzavano nell'undergorund con l’EP “Opiate”
(era il 1992). Quando su MTV iniziarono a circolare i video inquietanti di
“Prison Sex” e “Sober” (orride sequenze realizzate con la tecnica dello stop
motion) il loro nome divenne finalmente noto e fu già boom, non solo mediatico,
ma anche artistico, perché il loro primo LP “Undertow” (del 1993), in
piena epopea grunge, proponeva una formula innovativa e perfetta per i tempi,
che univa metallo pesante e voce mesta e lamentosa, come insegnavano Cobain,
Vedder e Staley. I pezzi funzionavano, l’immaginario che faceva loro di
contorno era geniale, i Tool si erano già conquistati il loro pezzo di storia. Ma
la consacrazione giungerà tre anni più tardi con “Aenima” (del 1996),
che svilupperà le idee dell’acerbo predecessore con maggiore consapevolezza ed
una perizia esecutiva impressionante. In un certo senso la loro parabola
artistica avrebbe raggiunto lo zenit con questa seconda opera, ecco perché i
tempi iniziarono a dilatarsi. Per il successore “Lateralus” (2001) dovemmo
aspettare cinque anni, e per “10,000 Days” (2006) ulteriori cinque. Con
il primo si riuscì comunque (faticosamente) a fare un passo avanti, facendo
evolvere una formula già di per sé perfetta: lo stile rimaneva lo stesso, ma c’erano ancora margini di
miglioramento, sia tecnico che espressivo, ed anche concettuale, visto che la
musica disumana ed alienante dei Tool si avvicinava al mantra indiano, ammantandosi
di inediti connotati spirituali, in linea con una certa concezione filosofico-fantascientifica
che sviluppa un percorso di ricerca esistenzialista tramite le scienze ed in
particolare la matematica. Un miracolo può succedere una volta, due,
addirittura tre volte, ma poi? Con “10.000 Days”, che rimane un grande album,
le idee iniziavano così a scarseggiare. L’ostacolo venne (sebbene con fatica) aggirato
con la svolta biografica delle liriche, le quali divengono più intime e legate
al vissuto del cantante Maynard James Keenan. L’impressione però è che i
grandi Tool non sapessero più dove battere la testa, e il fatto che da quasi
dieci anni non si facciano vivi sembra confermare questa tesi. Cosa infatti
dovrebbero inventarsi oggi i Tool? Fossero stati un gruppo normale, dopo “Lateralus”
avrebbero potuto anche rilassarsi e sfornare una serie di album onesti, con
qualche variazione di contorno: all’inizio avrebbero sicuramente deluso, ma poi
con il tempo i fan avrebbero capito ed accettato (è la via che hanno scelto,
dopo qualche tentennamento, i Radiohead all’indomani dello smarrimento
vissuto nella fase post “Amnesiac”).
Ed
invece, i Tool hanno scelto la via (furba) della Leggenda a tutti i costi:
noi siamo i Tool, ogni nostro lavoro deve essere una pietra miliare.
Prima inventori di un post-metal in grado di bypassare le difficoltà che il
genere viveva dopo l’avvento del grunge; poi la definizione di una forma di
musica realmente progressive, definizione che, prima di loro, aveva
perso di significato già a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, dato
che il rock progressivo classico si era impantanato nei cliché e nei
manierismi. Infine la via spirituale, l’autismo che li ha condotti oltre tutto
e tutti, “Lateralus”: la musica definitiva del terzo millennio. Il pur valido
“10.000 Days”, è brutto dirlo, e duro da ammettere, non è in linea con quanto
lo ha preceduto. Per questo, nel dubbio, la via del Molleggiato, ossia dell’eremita
che fugge dal mondo per poi tornare di tanto in tanto a dispensare rivelazioni è
quella più sicura. Quello che oggi è frusto e saturo, fra dieci anni sarà
sensazionale.
Resta
da vedere se, quando l’eremita scenderà dalla montagna e farà ritorno in città,
egli troverà un pubblico disposto ad ascoltarlo.