"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

4 apr 2015

TOOL: EFFETTO CELENTANO


La discografia del gruppo americano parla chiaro: un EP e quattro album in venticinque anni di carriera. Un'assenza sul mercato discografico che ammanta di leggenda una formazione che da quando è attiva ha prodotto più o meno cinque ore di musica. Un po' come il presentatore italiano, campione di ascolti ogni volta che mette piede in TV. Ma se ciò avvenisse ogni anno, o addirittura ogni settimana, il successo sarebbe il medesimo?


C’è gente in Italia che pensa che Adriano Celentano abbia inventato il rock’n’roll. Il Molleggiato, in verità, è un campione di marketing & comunicazione. In musica non ha inventato niente (buon interprete, quello sì, e con il merito di aver portato il rock anglosassone nell'Italietta di Neanderthal dei vari Claudio Villa, Domenico Modugno e Nilla Pizzi); come attore era mediocre; del Celentano opinionista è meglio tacere: paradossalmente egli è stato più originale come presentatore TV. Le pause interminabili in cui il Nostro, non dicendo nulla e limitandosi a sorridere o a toccarsi la bocca, passeggiava nell’oscurità di una scenografia minimale; le frasi non-sense, l’umorismo surreale, la destrutturazione degli schemi del varietà e del linguaggio televisivo in generale: questo era “Fantastico 8” (1987), sua prima esperienza come protagonista di uno show televisivo ed idealtipo di una serie di programmi fotocopia che fonderanno il successo sul personaggio costruito di Celentano e disponibilità economiche sempre maggiori (francamente sproporzionate rispetto agli effettivi contenuti). E, ovviamente, su un sistema di aspettative creato ad arte. Probabilmente i quattro anni che hanno separato le quattro puntate di “125 milioni di caz…te” (2001) e le quattro di “Rockpolitik” (2005) hanno contato qualcosa. Perché altrimenti non si capisce l’isteria che si viene a creare ogni volta che Celentano appare sul piccolo schermo, portando con sé le solite canzonette, i consunti silenzi ed i monologhi di una banalità ed ottusità contundenti. Prima di lui, fu la collega ed amica Mina ad imporsi come la Sacerdotessa dell'Assenza: completamente sparita dalle scene dopo il successo stratosferico che l'aveva innalzata ad icona assoluta della musica leggera italiana, Mina vive da anni di una rendita illimitata. Tantoché basta una sua scoreggia in rete per creare un caso mediatico.

I vantaggi della non-esposizione sono conosciuti anche nell'universo Metal. Nel mondo dell'iper-informazione e dell'industria discografica che detta ferrei tempi di pubblicazione, oggi probabilmente il miglior modo di comunicare è non-comunicare. Prendo un gruppo a caso, gli In Flames: non li seguo più, ma ogni due/tre anni noto che esce un loro album, e spesso i commenti sono del tenore “lieve evoluzione nel percorso degli svedesi…” oppure “lieve passo indietro per gli svedesi…”. Che palle! Ma è solo un esempio, il metal è spesso così: con i primi tre album una band si costruisce una reputazione e poi va avanti all’infinito pubblicando roba piatta e sostanzialmente uguale a se stessa. La cosa strana è che se al prossimo giro gli In Flames rilasceranno l'opera che cambierà la storia della musica, in pochi se ne accorgeranno. E pochi altri diranno: “Toh, è uscito il solito album degli In Flames”.

Non tutti però si conformano alla regola dell'album-ogni-due/tre-anni. Ci sono per esempio gli iper-compulsivi della pubblicazione. Un caso eclatante è Steven Wilson, vero incontinente artistico che, o con i Porcupine Tree, o in veste solista o, in uno dei suoi tanti progetti paralleli, è sempre fra le palle. Stessa cosa vale per i Dream Theater, che se non fanno uscire uno o due live ufficiali fra un album e l'altro non sono contenti. Questa sovraesposizione può essere utile o deleteria a seconda dei casi. Se la merce è di qualità (vedi Wilson), il gioco regge e si viene a creare una sorta di assuefazione: sei talmente frastornato dalle continue uscite che il tuo giudizio si appanna, non hai tempo per metabolizzare, se anche non sei convinto stai comunque tranquillo perché sai che dovrai aspettare poco per sperare di avere quel che desideravi, e finisci per averne sempre bisogno, come le sigarette. Di fronte invece a lavori sistematicamente mediocri o confezionati in fretta e furia, la rabbia e la frustrazione possono portare all'odio, allo sdegno ed infine all'indifferenza.
  
Si giunge infine a quelli che non pubblicano mai. E non considero nel numero le fetide reunion: cariatidi, artisti falliti, uomini finiti che in altri tempi hanno giustamente deciso di scomparire, tornano all'improvviso (Venom, Pestilence, mi sembrano i nomi più rappresentativi). Suscitando ovviamente attese altissime, ma, salvo rarissime eccezioni, si tratta di vecchi bolsi e stempiati che cercano, inseguiti da creditori, di raschiare il fondo del barile perché hanno già veduto il mobilio di casa. A volte queste scialbe pubblicazioni si fanno perdonare se sono il prezzo per poter vedere dal vivo gente che si credeva estinta. Nel peggiore dei casi si finisce per infangare una leggenda. 

No, io invece parlo di chi decide di scomparire, pur continuando ad esistere. Un caso che per me rimane emblematico, anche se non si tratta di metal, è quello dei Blood Axis. Formatosi alle fine degli anni ottanta, rilasciarono un pugno di singoli e un solo incredibile album, “The Gospel of Inhumanity”, del 1995. Bastò il “Gospel” per entrare nella storia. Poi niente, il silenzio, qualche attività sporadica nel corso degli anni ed infine il tour a sorpresa nel 2005: ma quale shock fu vedere montare sul palco un Michael Moynihan irriconoscibile, capelli lunghi, barba sfibrata, camicia e gilet da boscaiolo nel giorno di festa. Shock per chi lo ricordava impeccabile in divisa militare e con il capello rasato. La musica, dal canto suo, si era tramutata: dal gelido e scarno martial-industrial degli inizi, al folk bucolico con tanto di chitarre acustiche e violino della svolta apocalittica. Il fatto è che nel corso di quei dieci anni le persone, gli artisti, il mondo erano cambiati. Li pensavamo morti, ed invece nell’oscurità si erano solo trasformati. Idem per quanto riguarda il ritorno in pompa magna del Conte con “Belus” (2010), dopo tre lustri di carcere e qualche insulso dischetto di sole tastiere suonato in cella. Il ragazzino che ricordavamo fieramente ritratto con la mazza chiodata o che si lisciava i capelli imbarazzato nelle riprese che immortalano certe udienze del processo per l'uccisione di Euronymous, era divenuto un fosco  e rugoso quarantenne con barba, cappellino camouflage ed occhio spento. Ma l’arte di Varg Vikernes non si è mai spenta, ha continuato ossessivamente a girare nella sua mente, nel chiuso delle quattro pareti della sua reclusione. 

Altra storia è per i Tool, che non sono certo dei misconosciuti che vivacchiano più di espedienti che di musica, né sono stati incarcerati. Probabilmente sono stati gli artisti più influenti degli ultimi venti anni in campo metal (e non solo). Per certi aspetti la loro portata rivoluzionaria è stata pari a quella dei Led Zeppelin (solo che ai tempi di Plant, Page & soci c'era molto da inventare, e il loro contributo fu un po' come aver inventato la ruota; agli inizi degli anni novanta, quando i Tool irruppero nel mercato discografico, tutto più o meno era stato avviato, e quindi le loro innovazioni hanno avuto un impatto più marginale, sebbene in un contesto più  complicato: difficile, di questi tempi, innovare più di quanto abbia fatto Mark Zuckerberg con Facebook o Steve Jobs con gli smart-phone).

Pochi si accorsero di loro quando ancora sguazzavano nell'undergorund con l’EP “Opiate” (era il 1992). Quando su MTV iniziarono a circolare i video inquietanti di “Prison Sex” e “Sober” (orride sequenze realizzate con la tecnica dello stop motion) il loro nome divenne finalmente noto e fu già boom, non solo mediatico, ma anche artistico, perché il loro primo LP “Undertow” (del 1993), in piena epopea grunge, proponeva una formula innovativa e perfetta per i tempi, che univa metallo pesante e voce mesta e lamentosa, come insegnavano Cobain, Vedder e Staley. I pezzi funzionavano, l’immaginario che faceva loro di contorno era geniale, i Tool si erano già conquistati il loro pezzo di storia. Ma la consacrazione giungerà tre anni più tardi con “Aenima” (del 1996), che svilupperà le idee dell’acerbo predecessore con maggiore consapevolezza ed una perizia esecutiva impressionante. In un certo senso la loro parabola artistica avrebbe raggiunto lo zenit con questa seconda opera, ecco perché i tempi iniziarono a dilatarsi. Per il successore “Lateralus” (2001) dovemmo aspettare cinque anni, e per “10,000 Days” (2006) ulteriori cinque. Con il primo si riuscì comunque (faticosamente) a fare un passo avanti, facendo evolvere una formula già di per sé perfetta: lo stile rimaneva  lo stesso, ma c’erano ancora margini di miglioramento, sia tecnico che espressivo, ed anche concettuale, visto che la musica disumana ed alienante dei Tool si avvicinava al mantra indiano, ammantandosi di inediti connotati spirituali, in linea con una certa concezione filosofico-fantascientifica che sviluppa un percorso di ricerca esistenzialista tramite le scienze ed in particolare la matematica. Un miracolo può succedere una volta, due, addirittura tre volte, ma poi? Con “10.000 Days”, che rimane un grande album, le idee iniziavano così a scarseggiare. L’ostacolo venne (sebbene con fatica) aggirato con la svolta biografica delle liriche, le quali divengono più intime e legate al vissuto del cantante Maynard James Keenan. L’impressione però è che i grandi Tool non sapessero più dove battere la testa, e il fatto che da quasi dieci anni non si facciano vivi sembra confermare questa tesi. Cosa infatti dovrebbero inventarsi oggi i Tool? Fossero stati un gruppo normale, dopo “Lateralus” avrebbero potuto anche rilassarsi e sfornare una serie di album onesti, con qualche variazione di contorno: all’inizio avrebbero sicuramente deluso, ma poi con il tempo i fan avrebbero capito ed accettato (è la via che hanno scelto, dopo qualche tentennamento, i Radiohead all’indomani dello smarrimento vissuto nella fase post “Amnesiac”).

Ed invece, i Tool hanno scelto la via (furba) della Leggenda a tutti i costi: noi siamo i Tool, ogni nostro lavoro deve essere una pietra miliare. Prima inventori di un post-metal in grado di bypassare le difficoltà che il genere viveva dopo l’avvento del grunge; poi la definizione di una forma di musica realmente progressive, definizione che, prima di loro, aveva perso di significato già a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, dato che il rock progressivo classico si era impantanato nei cliché e nei manierismi. Infine la via spirituale, l’autismo che li ha condotti oltre tutto e tutti, “Lateralus”: la musica definitiva del terzo millennio. Il pur valido “10.000 Days”, è brutto dirlo, e duro da ammettere, non è in linea con quanto lo ha preceduto. Per questo, nel dubbio, la via del Molleggiato, ossia dell’eremita che fugge dal mondo per poi tornare di tanto in tanto a dispensare rivelazioni è quella più sicura. Quello che oggi è frusto e saturo, fra dieci anni sarà sensazionale.

Resta da vedere se, quando l’eremita scenderà dalla montagna e farà ritorno in città, egli troverà un pubblico disposto ad ascoltarlo.