I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEL BLACK METAL NORVEGESE
5°
CLASSIFICATO: “BERGTATT – ET EEVENTYR I 5 CAPITLER”
Ci
addentriamo finalmente nella top-five della nostra classifica, ma ancora
una volta ci imbattiamo in un album atipico. Oggi parliamo di “Bergtatt - Et
Eeventyr i 5 Capitler”, l’opera prima degli Ulver: la band che
ammantò di folk, poesia ed introspezione l’arcigno mondo del black metal. Che
la redazione di Metal Mirror non ci abbia capito nulla? Scopriamolo
insieme…
Già
sbadiglio all’idea di dover parlare di un album su cui si è stato detto tutto
quello che poteva essere detto. Cosa dunque aggiungere?
Partiamo
dal contesto. Nel 1995, anno di uscita dell'album, il black metal in
Norvegia viveva il suo periodo migliore. Quanto a popolarità non era messo
affatto male, visto che le vicende dell’Inner Circle (incendi, suicidi,
omicidi, incarcerazioni ecc.), avvenute negli anni precedenti, avevano seminato
interesse intorno ad un fenomeno artisticamente in piena ascesa. Forte di una
vitalità prorompente, nel 1995 il neonato black metal stava già guardando
avanti, spontaneamente diretto verso nuovi possibili orizzonti evolutivi.
Il
debutto dei Lupi, al momento della sua uscita, non suscitò tuttavia quel
clamore che potremmo aspettarci parlando di un album che in futuro acquisirà lo
status di vera pietra miliare. La causa di questa iniziale “disattenzione”
nei confronti di “Bergtatt” è forse da rinvenire nella sua breve durata (appena
trentacinque minuti) e nel numero esiguo di tracce (solo cinque): caratteristiche,
queste, che fecero probabilmente sembrare l’album, almeno ai più distratti, un
EP “apripista” (come ne uscivano molti all’epoca), o comunque un’opera minore.
Minore rispetto ad altre che si imponevano fin da subito con la forza d’urto di
veri e propri instant classic (basti pensare al mitico “In the Nightside Eclipse”, folgorante esordio degli Emperor).
Fra
l’altro, nel medesimo periodo, il cono di luce dei riflettori era proiettato su
un altro album che con “Bergtatt” condivideva certi spunti e che veniva
licenziato da una band “illuminata” che, al pari degli Ulver, rileggeva in modo
personale i dettami del black metal. Parlo di “Heart of the Ages”, la
strepitosa opera prima dei connazionali In The Woods…: un lavoro
bellissimo, dalla durata ben più estesa,
per certi aspetti ancora più audace in quanto intriso di pulsioni progressive e di psichedelia, direttamemte pescata dalla tradizione rock
degli anni settanta. E come gli Ulver, gli In The Woods… trasferivano in pianta
stabile il black metal sulla cresta delle montagne, nel cuore delle foreste,
indietro nel tempo: un black metal naturalistico, passionale, in armonia con il
Cosmo, che molto avrà da suggerire al cosiddetto cascadian black metal
(filone sviluppatosi negli Stati Uniti dieci anni più tardi, e che vedrà come
capofila i grandissimi Wolves in the Throne Room). Tritati dalle energie
evolutive (già dal secondo album, “Omnio”, abbandoneranno il metal
estremo per approdare ad una originale forma di musica progressiva), gli In
The Woods… si scioglieranno pochi anni più tardi, pianti da un ristretto e
fedele seguito di fan.
Un
Destino totalmente diverso spetterà agli Ulver, che di lì a poco anche loro salteranno
al di là dello steccato del black-metal, per atterrare, senza passare dal rock,
al mondo dell'elettronica colta. Sebbene da anni guardino dunque ad un
altro pubblico, ancora oggi essi sono “condannati” a rimanere artisti di culto
nell’ambito del metal estremo. E questo in virtù della mitica trilogia
black-metal: una triade di album usciti in rapida successione nella seconda
metà degli anni novanta. Tale trilogia si componeva del qui presente “Bergtatt”
(dei tre, il gioiello più splendente), dal successivo “Kveldssanger” (in
verità per niente black-metal in quanto totalmente acustico) e da “Nattens
Madrigal – Aatte Hymne Til Ulven I Manden” (con il quale i Nostri
compiranno un repentino ed inaspettato ritorno alle radici black metal: non
quello melodico professato dall’originale debutto, bensì quello più feroce e
canonico di marca Darkthrone). Già questi tre passi ben descrivono le qualità
e il coraggio degli Ulver (per non parlare di quello che succederà
dopo), ma ad essi sarebbero bastati solo i fatidici trentacinque minuti
di “Bergtatt” per guadagnarsi a vita un posto d’onore nel gotha dei grandi del
black metal. Del resto, senza “Bergtatt”, dal quale si attingerà a piene mani
negli anni a seguire, è difficile immaginare oggi l’esistenza di band come Empyrium
(filone folk), Agalloch (filone post-rock), Alcest (filone
shoegaze).
Eppure
i primissimi Ulver probabilmente non ambivano a tanto, concentrati più che
altro nel dar lustro alla loro proposta a base di black metal & folk,
cosa peraltro nemmeno di loro invenzione (i colleghi Enslaved avevano,
già a partire dall’anno precedente, condito il loro corpulento “black vichingo”
con suggestioni pagane e partiture folkloristiche, sulla scia di quanto anticipato
dai Bathory, ai quali spetta di diritto la paternità della formula). Com’è,
dunque, che gli Ulver passano alla storia? Al di là che i cinque brani che
compongono “Bergtatt” sono di una bellezza indicibile, la causa di questo
successo postumo è da rinvenire nel fatto che gli Ulver erano probabilmente
“oltre” senza saperlo.
Sì,
il cantato pulito di Garm (aka Kristoffer Rygg) germogliava e
fioriva nella forma di fluidi cori polifonici che derivavano direttamente dal
folclore scandinavo, ma evidentemente portava con sé quella magia, quella
dolcezza, quella malinconia, quello slancio introspettivo che spingerà in
seguito il black metal verso i porti del post-rock e dello shoegaze
(sebbene in “Bergtatt” non vi sia nulla di tutto questo). Cosa che ovviamente
non potevano fare non-cantanti come Quorton (stonato come una campana e
comunque ancora legato a certi umori epic-metal) o Grutle Kjellson (il
cui vocione baritonale era troppo baldanzoso ed irrimediabilmente “vichinghesco”
per poter stregare gli amanti di Cure, My Bloody Valentine e Slowdive).
I
riff delle due chitarre (rigorosamente black-metal) si intrecciavano in
incantevoli tessiture che sovente lasciavano spazio a struggenti interludi
acustici. Il corpus sonoro degli Ulver era un tutt’uno in cui i contributi dei
cinque musicisti (i dimessi Garm, Haavard, Aismal, Skoll, AiwarikiaR:
privi di corpse-painting e ritratti in suggestive cornici
naturalistiche) si amalgamavano in un flusso tanto melodico quanto ruvido: un
bilanciamento, un equilibrio, una omogeneità stupefacenti se si pensa che la
band era al suo debutto (anche i cugini In The Woods…, nel loro ostentato citazionismo
pinkfloydiano, emergevano più discontinui).
Ma
forse ancor più determinante è stato il loro modus operandi, che
anteponeva l’urgenza comunicativa, la libertà espressiva sopra ogni
schema o consuetudine, rivelando il black metal come uno strumento malleabile,
capace di mutare e di flirtare con universi lontanissimi, mantenendo la sua
freschezza originaria (quando invece thrash e death, nel loro immobilismo,
rimangono mondi autoreferenziali, generi pieni di rigidità e quindi materia per
nostalgici). La prima traccia (che dura quasi otto minuti) è interamente
pervasa da un canto pulito e viaggia per tutta la sua lunghezza su tempi più o
meno moderati, non presentando né accenni di screaming, né accelerazioni
di sorta. Ma non solo: la seconda traccia, con la sua introduzione a base di
chitarra acustica e flauto, ribadisce il messaggio e ci fa capire che il
discorso è diverso e va al di là della timida contaminazione. Il primo blast-beat,
le prime grida lancinanti (ottimo Garm anche sul questo versante) compariranno
infatti quasi dieci minuti dopo l’inizio dell’album. Eppure, in questi primi
dieci minuti, l’ascoltatore non si ritroverà certamente a sbuffare, a
spazientirsi, ad indignarsi gridando lesa maestà!
Non
si annoia l’ascoltatore, perché i brani sono dinamici ed in continuo
mutamento, animati da una fluidità sinuosa che porta con sé il sapore di nenie
immortali e senza tempo: sono le movenze, le increspature, le onde di quel sublime
fiume elettrificato, placido, impetuoso, che chiameremo poi post-black
metal.
Non
s’indigna l’ascoltatore, perché nonostante gli Ulver non colpiscano in
faccia come hanno fatto Mayhem, Burzum, Darkthrone ed Immortal (in realtà gli
Ulver dimostreranno di saper picchiare con altrettanta violenza, sia in diversi
frangenti di questo stesso “Bergtatt”, sia, due anni dopo, con quel “Nattens
Madrigal” che rimarrà uno degli album più estremi ed intensi e belli che siano
mai stati pubblicati nella storia del genere), nonostante gli Ulver
preferiranno accarezzare piuttosto che graffiare, lo spirito che incarnano è
quello più autenticamente black metal. Norwegian
black metal per l’esattezza.
Già
(non l’avevo ancora detto!), i testi sono tutti cantati in norvegese antico
e descrivono un concept legato al mondo folcloristico di quella
terra. Le atmosfere che pervadono le cinque tracce ripercorrono lo svolgimento
della narrazione, che in verità assume i contorni di un vero viaggio
d’iniziazione, al termine del quale si perviene ad una nuova consapevolezza: senza
stare a scendere nei dettagli (riprendo a sbadigliare), le sensazioni che
coglieranno l’ascoltatore sono varie (serenità, tensione, paura, sgomento,
mestizia, accettazione), ma al di là della capacità della musica di far
immedesimare il più truce degli ascoltatori negli stati d’animo della
protagonista (la fanciulla “catturata dalla montagna”, yawn…), a
prevalere è un senso di intimità che spinge il nerboruto ascoltatore
all’introspezione, a sondare il proprio animo, probabilmente riscoprendo
in sé, individuo, quell’universalità che alberga in quella leggenda,
riemersa dalla notte dei tempi, con tanto calore e sentimento raccontata.
Gli
Ulver, la Norvegia di quegli anni, ci raccontano anche un’altra storia: il
fatto che la vera Arte, per motivi soprattutto sociologici, non si fa più nelle
grandi città (Londra, Berlino, New York), ma laddove non c’è niente,
dove l’uomo, l’artista può trovare se stesso e le verità dentro se stesso, non
distratto dalla confusione, dal chiacchiericcio, dalla frenesia della società
del mondo moderno. Non è un caso che nei medesimi anni, le novità musicali più
interessanti uscivano da luoghi assurdi ed inospitali, isolati rispetto al
mondo “civilizzato”, scossi da una natura selvaggia: dall’Islanda, terra del
ghiaccio e del fuoco, emergevano Bjork e Sigur Ros; lungo le scogliere scoscese
della Scozia dove s’infrangono le onde violente sarebbe germinato il post-rock
strumentale dei Mogwai; dal deserto assolato e silenzioso del Texas prendeva
forma lo stoner corpulento e psichedelico dei Kyuss. O poi, ovviamente, c’erano
i fiordi, le montagne, le foreste scrigni di segreti della Norvegia…