12 mag 2015

DARKTHRONE: TRUE NORWEGIAN BLACK METAL




I MIGLIORI DIECI ALBUM DEL BLACK METAL NORVEGESE

1° CLASSIFICATO: “TRANSILVANIAN HUNGER”

Eccoci finalmente al termine del nostro viaggio nei meandri del black metal norvegese: scopriamo quindi le carte ed addentriamoci nelle ragioni che stanno dietro alla scelta che vede i Darkthrone posizionarsi al primo posto della nostra classifica. 

Tracciare un percorso in sole dieci tappe è stata impresa non facile, anche limitandosi ad un ambito specifico quale è quello da noi trattato, ossia lo svilupparsi del black metal entro i confini norvegesi. Il nostro cammino si è quindi mosso su più livelli e ha cercato di coniugare diversi aspetti, andando ad individuare le opere che ci sembrassero, non solo le più belle ed emozionanti, ma anche quelle più significative per le future evoluzioni e rappresentative di ciascuna singola tendenza. Abbiamo dato spazio a chi ha mantenuto un’indole conservatrice e a chi invece ha interpretato il genere in un’ottica più sperimentale. C’è stato modo di parlare di chi ha preferito guardare oltre, approdando a lidi progressivi o anche sinfonici, e di chi ha scelto di iniettare suggestioni folcloristiche, adottando persino un registro vocale pulito. Come filo conduttore è stata tuttavia adottata la linea di risalire pian piano ad un concetto di “purezza” che prescindesse da tutto il resto: purezza da intendere come aderenza ad una ortodossia stilistica, ad una attitudine, ad uno spirito che insieme definiscono l’identità del genere trattato. Secondo il nostro arrogante parere, la vetta spetta ai Darkthrone nella loro incarnazione denominata “Transilvanian Hunger”: l’opera che più di tutte ha rappresentato, e rappresenta tuttora, la forma maggiormente pura ed autentica che il black metal abbia mai incarnato.  

Per capire l’evoluzione (o involuzione, a seconda del punto di vista) intrapresa dai Darkthrone nel corso della prima parte della loro carriera (quella più creativa), basta raffrontare, in successione, le copertine dei loro album. Messa da parte quella di “Soulside Journey” (un’anonima immagine a colori, degna rappresentante di una fase in cui la band non era ancora dedita al black metal), soffermiamoci un attimo su quelle degli album appena successivi “A Blaze in the Northern Sky”, “Under a Funeral Moon” e “Transilvanian Hunger”. Tutte e tre sono fotografie in bianco e nero; esse ritraggono, nella loro vivida ed efficace semplicità, un membro della band immortalato in pose inquietanti, dove il volto è stravolto in un’espressione minacciosa, evidenziata da un marcato face-painting. Viste in sequenza, esse risultano sempre più sgranate ed indefinite, fino ad arrivare ai contorni dai netti contrasti bianco/nero (quasi si trattasse di un quadro astratto o neo-impressionista) di un losco figuro urlante e con un candelabro in mano appena distinguibile nell’oscurità. Al pari, la musica della formazione norvegese seguirà un percorso di ineluttabile scarnificazione dei suoni che la condurrà alle forme stilizzate di “Transilvanian Hunger”.

Se nel 1991 i Darkthrone esordivano con un album di death metal assai poco personale (“Soulside Journey”), già nella seconda opera, “A Blaze in the Northern Sky”, si compiva una drastica rottura con il passato. Ridotta la formazione ad un trio (Fenriz, Nocturno Culto e Zephirous), la musica dei Darkthrone cambiò completamente volto: qualità dei suoni di bassissimo livello; una voce sgraziata, demoniaca, che sembrava provenire dal profondo di una cripta; chitarre farfuglianti che passavano, senza apparente logica, da corposi riff di matrice sabbathiana, ad incespicanti cavalcate di thrash à la Celtic Frost. L’attitudine era essenzialmente punk: nichilismo sonoro che toglieva organicità al thrash ed al death; totale disprezzo per tutte le regole che il metal estremo allora seguiva. La potenza dei suoni, prerogativa principale del genere, lasciava spazio ad atmosfere malate e ad una disarticolazione sonora che aveva qualcosa di irrazionale, grottesco: i legami con il passato si limitavano stilisticamente alla cattiveria dei primi Bathory (lo stesso “gracidare” di Nocturno Culto era non altro che una versione estremizzata dell’urlo agonizzante del primo Quorton) ed alle visioni morbose di Hellhammer e Celtic Frost. Disseminate qua e là troviamo diverse soluzioni inedite, come le inquiete chitarre arpeggiate buttate con noncuranza su furibondi blast-beat, o i primi riff in tremolo. Sebbene da anni Euronymous predicasse un nuovo linguaggio, per i motivi che tutti noi conosciamo, il primo full-lenght dei Mayhem vedrà la luce non prima del 1994: essendo datato 26 febbraio 1992, “A Blaze in the Northern Sky” è ufficialmente il primo album del nuovo corso del black metal che si affaccia sul mercato discografico.

Secondo gli autori stessi sarà invece “Under a Funeral Moon” (1993) il loro primo disco puramente black metal: molti elementi considerati “non-black-metal” verranno cestinati, mentre in parallelo verranno sviluppate certe idee che erano state solamente abbozzate nel lavoro precedente. Sebbene persistano qua e là dei rallentamenti e degli inquietanti arpeggi (comunque resi in forma distorta e cacofonica), il sound è in tutti i sensi un’ulteriore estremizzazione di quanto allestito in precedenza: la registrazione sarà ancora più confusa ed indefinita; le proverbiali chitarre zanzarose di Zephirous prenderanno finalmente il sopravvento, la voce di Nocturno Culto si appiattirà in un gracchiare cieco, monocorde, che non lascia spazio a grandi variazioni; le ritmiche a cura di Fenriz (fra i massimi teorici del black metal), salvo qualche cambio di tempo, iniziano ad indugiare su un battere ossessivo quanto approssimativo e per niente tecnico.

Contrariamente alla stragrande maggioranza delle band metal, che vedevano l’evoluzione stilistica come una conseguenza dell’innalzamento del tasso tecnico, i Darkthrone percorrevano un percorso inverso, forse unico nell’universo metal: per certi aspetti è stato un atto rivoluzionario, quello di scegliere coscientemente di involvere album dopo album, come se il bagaglio tecnico fosse una zavorra, una variabile spuria che ostacola l’espressione più sincera ed immediata delle emozioni.

In questo percorso, il traguardo finale, oltre il quale non si poteva più andare, è rappresentato da “Transilvanian Hunger”, uscito nell’anno di grazia 1994. In questa opera, al quale all’epoca fu riservata una tiepida accoglienza di critica e pubblico, la registrazione peggiorava ulteriormente, la batteria si stabilizzava in un pulsare quasi impercettibile ed un tintinnar di piatti in sottofondo, le chitarre esprimevano tematiche sempre più affascinanti ed impalpabili, come arie di musica classica eseguite da una nera orchestra post-moderna. Se, come già da noi spiegato, gli Slayer in “Reign in Blood” definivano e descrivevano una forma pura di thrash metal, ossia un thrash metal senza rallentamenti, senza melodia, senza arpeggi, senza ritornelli orecchiabili, “Transilvanian Hunger” portava a termine la medesima operazione nei confronti del nascente black metal, eliminando tutto ciò su cui si era poggiato durante la sua ascesa a genere a sé stante (riff thrasheggianti, macabri passaggi doom, interludi acustici, fosche tastiere, atmosfere rituali).

Paradossalmente, l’obiettivo veniva raggiunto non con il rigore, non con la maggiore concentrazione e dedizione dei musicisti, bensì con l’esatto contrario, ossia l’incuria ed il menefreghismo innalzati a metodo. Vale la regola “buona la prima”: le tracce vengono interrotte bruscamente, spesso decurtate brutalmente nel loro finale. Fra esse vengono con ostentazione lasciati a friggere i feedback, il fruscio delle chitarre, lo scricchiolio degli spinotti introdotti negli amplificatori. Anche a livello di formazione, si perde un ulteriore pezzo, visto che Zephirous abbandonerà la nave, lasciando i soli Fenriz e Nocturno Culto a spartirsi gli strumenti come se fossero un’unica entità (da segnalare la presenza aleggiante di Varg Vikernes che collaborò dal carcere, scrivendo i testi di ben quattro brani).

Quel che scaturisce da questo processo di costruzione per sottrazione è un indistinguibile marasma sonoro fatto di riff gelidi che corrono sospesi nel vuoto, un blast-beat incessante, un monotono screaming che recita il suo ruolo in modo distaccato ed inespressivo. Un unico cambio di tempo in un traccia, ed una voce pulita che recita all’incontrario poche parole al termine di un brano, sono le sole concessioni di un lavoro intransigente e totalmente privo di variazioni ritmiche o contaminazioni di sorta. È come se il metal, genere musicale fisico per eccellenza, perdesse la sua natura corporea e si innalzasse a spirito, o si degradasse ad ombra: un’eco lontana di una voce proveniente da un’altra dimensione, una dimensione di odio e disprezzo per tutto, dove misantropia ed elitarismo procedono a braccetto, veicolati attraverso melodie che corrono alla velocità della luce, scavano, penetrano nella carne e nelle ossa, perforano la materia fino a trascendere il Reale.

Non amo in questi contesti utilizzare espressioni altisonanti, ma è indubbio che nella musica dei Darkthrone si compia un vero e proprio salto metafisico, unico nella storia del metal. La concretezza, il pragmatismo di questo genere finiscono per smaterializzarsi nella velocità priva di variazioni e nel minimalismo di melodie fredde ed ossessive: un’inseguirsi senza soluzione di continuità in un circuito autoreferenziale che trova origine e sfogo in se stesso. Una sorta di trance mistica ottenuta senza l’impiego di escamotage “allucinogeni” che sono i trucchi tipici della psichedelia. L’impresa di Ferniz e Nocturno Culto, piuttosto, è di raggiungere il medesimo obiettivo con il minimo dei mezzi e dello sforzo. Un disprezzo per l’umana stirpe che non è solo il messaggio dichiarato, ma pure il medium per rappresentarlo. Quel che ci insegnano i Darkthrone è che il black metal è un genere che tende all’Assoluto, un movimento, uno slancio artistico che corre forsennatamente in una direzione ben precisa e che trova la sua forma più autentica, la perfezione, man mano che si approssima a quel luogo posto oltre l’Infinito. Ad oggi, “Transilvanian Hunger” è l’opera che, lungo questo tracciato, vi si avvicina di più.

È inutile aggiungere che tutto questo diverrà la quintessenza del black metal. In “Transilvanian Hunger” individuiamo l’ideal-tipo di uno stilema musicale che troverà negli anni successivi una miriade sconfinata di epigoni ed appendici. Se negli anni successivi ci imbatteremo in una copertina in bianco e nero con sopra un cretino con la faccia pitturata, bisognerà ringraziare i Darkthrone. Se anche l’ultimo degli incompetenti musicali s’improvviserà con fierezza appartenente ad un elite di artisti illuminati, sarà sempre merito dei Darkthrone, cattivi maestri dell’universo metal e non solo. Solamente in pochi, pochissimi, saranno in grado di bissare quanto edificato dai Nostri in “Transilvanian Hunger” (mi vengono in mente gli Ulver di “Nattens Madrigal”), a dimostrazione di come in verità sia difficile pervenire all’equilibrio raggiunto da Fenriz e Nocturno Culto in questa opera.

Un equilibrio che poggia su un punto ben preciso oltre il quale non è umanamente possibile andare. Con “Transilvanian Hunger” il black metal incarna un’esperienza che è inutile emulare, poiché proseguire per quella via, significherebbe ripetere, continuare a battere compulsivamente la testa contro una barriera invalicabile o, meglio ancora, mordere ferocemente il freno che ci tiene radicati alla piccolezza della natura umana.