I MIGLIORI DIECI ALBUM DEL BLACK METAL NORVEGESE
1° CLASSIFICATO: “TRANSILVANIAN HUNGER”
Eccoci
finalmente al termine del nostro viaggio nei meandri del black metal norvegese:
scopriamo quindi le carte ed addentriamoci nelle ragioni che stanno dietro alla
scelta che vede i Darkthrone posizionarsi al primo posto della nostra
classifica.
Tracciare
un percorso in sole dieci tappe è stata impresa non facile, anche limitandosi
ad un ambito specifico quale è quello da noi trattato, ossia lo svilupparsi
del black metal entro i confini norvegesi. Il nostro cammino si è quindi
mosso su più livelli e ha cercato di coniugare diversi aspetti, andando ad
individuare le opere che ci sembrassero, non solo le più belle ed emozionanti,
ma anche quelle più significative per le future evoluzioni e rappresentative di
ciascuna singola tendenza. Abbiamo dato spazio a chi ha mantenuto un’indole
conservatrice e a chi invece ha interpretato il genere in un’ottica più
sperimentale. C’è stato modo di parlare di chi ha preferito guardare oltre,
approdando a lidi progressivi o anche sinfonici, e di chi ha scelto di
iniettare suggestioni folcloristiche, adottando persino un registro vocale
pulito. Come filo conduttore è stata tuttavia adottata la linea di risalire
pian piano ad un concetto di “purezza” che prescindesse da tutto il
resto: purezza da intendere come aderenza ad una ortodossia stilistica, ad una
attitudine, ad uno spirito che insieme definiscono l’identità del genere
trattato. Secondo il nostro arrogante parere, la vetta spetta ai Darkthrone
nella loro incarnazione denominata “Transilvanian Hunger”: l’opera che
più di tutte ha rappresentato, e rappresenta tuttora, la forma maggiormente pura
ed autentica che il black metal abbia mai incarnato.
Per
capire l’evoluzione (o involuzione, a seconda del punto di vista) intrapresa dai
Darkthrone nel corso della prima parte della loro carriera (quella più
creativa), basta raffrontare, in successione, le copertine dei loro album.
Messa da parte quella di “Soulside Journey” (un’anonima immagine a
colori, degna rappresentante di una fase in cui la band non era ancora dedita
al black metal), soffermiamoci un attimo su quelle degli album appena
successivi “A Blaze in the Northern Sky”, “Under a Funeral Moon”
e “Transilvanian Hunger”. Tutte e tre sono fotografie in bianco e nero;
esse ritraggono, nella loro vivida ed efficace semplicità, un membro della band
immortalato in pose inquietanti, dove il volto è stravolto in un’espressione
minacciosa, evidenziata da un marcato face-painting. Viste in sequenza,
esse risultano sempre più sgranate ed indefinite, fino ad arrivare ai contorni dai
netti contrasti bianco/nero (quasi si trattasse di un quadro astratto o
neo-impressionista) di un losco figuro urlante e con un candelabro in mano
appena distinguibile nell’oscurità. Al pari, la musica della formazione
norvegese seguirà un percorso di ineluttabile scarnificazione dei suoni
che la condurrà alle forme stilizzate di “Transilvanian Hunger”.
Se
nel 1991 i Darkthrone esordivano con un album di death metal assai poco
personale (“Soulside Journey”), già nella seconda opera, “A Blaze in the
Northern Sky”, si compiva una drastica rottura con il passato. Ridotta la
formazione ad un trio (Fenriz, Nocturno Culto e Zephirous),
la musica dei Darkthrone cambiò completamente volto: qualità dei suoni di bassissimo
livello; una voce sgraziata, demoniaca, che sembrava provenire dal profondo di
una cripta; chitarre farfuglianti che passavano, senza apparente logica, da
corposi riff di matrice sabbathiana, ad incespicanti cavalcate di thrash
à la Celtic Frost. L’attitudine era essenzialmente punk: nichilismo
sonoro che toglieva organicità al thrash ed al death; totale disprezzo per
tutte le regole che il metal estremo allora seguiva. La potenza dei suoni, prerogativa
principale del genere, lasciava spazio ad atmosfere malate e ad una disarticolazione
sonora che aveva qualcosa di irrazionale, grottesco: i legami con il passato si
limitavano stilisticamente alla cattiveria dei primi Bathory (lo stesso “gracidare”
di Nocturno Culto era non altro che una versione estremizzata dell’urlo
agonizzante del primo Quorton) ed alle visioni morbose di Hellhammer
e Celtic Frost. Disseminate qua e là troviamo diverse soluzioni inedite,
come le inquiete chitarre arpeggiate buttate con noncuranza su furibondi
blast-beat, o i primi riff in tremolo. Sebbene da anni Euronymous predicasse un
nuovo linguaggio, per i motivi che tutti noi conosciamo, il primo full-lenght
dei Mayhem vedrà la luce non prima del 1994: essendo datato 26
febbraio 1992, “A Blaze in the Northern Sky” è ufficialmente il primo
album del nuovo corso del black metal che si affaccia sul mercato
discografico.
Secondo
gli autori stessi sarà invece “Under a Funeral Moon” (1993) il loro
primo disco puramente black metal: molti elementi considerati “non-black-metal”
verranno cestinati, mentre in parallelo verranno sviluppate certe idee che
erano state solamente abbozzate nel lavoro precedente. Sebbene persistano qua e
là dei rallentamenti e degli inquietanti arpeggi (comunque resi in forma
distorta e cacofonica), il sound è in tutti i sensi un’ulteriore
estremizzazione di quanto allestito in precedenza: la registrazione sarà ancora
più confusa ed indefinita; le proverbiali chitarre zanzarose di
Zephirous prenderanno finalmente il sopravvento, la voce di Nocturno Culto si appiattirà
in un gracchiare cieco, monocorde, che non lascia spazio a grandi variazioni;
le ritmiche a cura di Fenriz (fra i massimi teorici del black metal),
salvo qualche cambio di tempo, iniziano ad indugiare su un battere ossessivo quanto
approssimativo e per niente tecnico.
Contrariamente
alla stragrande maggioranza delle band metal, che vedevano l’evoluzione
stilistica come una conseguenza dell’innalzamento del tasso tecnico, i
Darkthrone percorrevano un percorso inverso, forse unico nell’universo metal:
per certi aspetti è stato un atto rivoluzionario, quello di scegliere
coscientemente di involvere album dopo album, come se il bagaglio tecnico
fosse una zavorra, una variabile spuria che ostacola l’espressione più sincera
ed immediata delle emozioni.
In
questo percorso, il traguardo finale, oltre il quale non si poteva più andare,
è rappresentato da “Transilvanian Hunger”, uscito nell’anno di grazia 1994. In questa opera, al
quale all’epoca fu riservata una tiepida accoglienza di critica e pubblico, la
registrazione peggiorava ulteriormente, la batteria si stabilizzava in un
pulsare quasi impercettibile ed un tintinnar di piatti in sottofondo, le
chitarre esprimevano tematiche sempre più affascinanti ed impalpabili, come
arie di musica classica eseguite da una nera orchestra post-moderna. Se,
come già da noi spiegato, gli Slayer in “Reign in Blood” definivano e
descrivevano una forma pura di thrash metal, ossia un thrash metal senza rallentamenti,
senza melodia, senza arpeggi, senza ritornelli orecchiabili, “Transilvanian
Hunger” portava a termine la medesima operazione nei confronti del nascente
black metal, eliminando tutto ciò su cui si era poggiato durante la sua ascesa
a genere a sé stante (riff thrasheggianti, macabri passaggi doom, interludi
acustici, fosche tastiere, atmosfere rituali).
Paradossalmente,
l’obiettivo veniva raggiunto non con il rigore, non con la maggiore
concentrazione e dedizione dei musicisti, bensì con l’esatto contrario, ossia l’incuria
ed il menefreghismo innalzati a metodo. Vale la regola “buona la prima”:
le tracce vengono interrotte bruscamente, spesso decurtate brutalmente nel loro
finale. Fra esse vengono con ostentazione lasciati a friggere i feedback,
il fruscio delle chitarre, lo scricchiolio degli spinotti introdotti negli
amplificatori. Anche a livello di formazione, si perde un ulteriore pezzo,
visto che Zephirous abbandonerà la nave, lasciando i soli Fenriz e Nocturno
Culto a spartirsi gli strumenti come se fossero un’unica entità (da segnalare
la presenza aleggiante di Varg Vikernes che collaborò dal carcere,
scrivendo i testi di ben quattro brani).
Quel
che scaturisce da questo processo di costruzione per sottrazione è
un indistinguibile marasma sonoro fatto di riff gelidi che corrono sospesi nel
vuoto, un blast-beat incessante, un monotono screaming che recita
il suo ruolo in modo distaccato ed inespressivo. Un unico cambio di tempo in un
traccia, ed una voce pulita che recita all’incontrario poche parole al termine
di un brano, sono le sole concessioni di un lavoro intransigente e totalmente
privo di variazioni ritmiche o contaminazioni di sorta. È come se il metal,
genere musicale fisico per eccellenza, perdesse la sua natura corporea e si
innalzasse a spirito, o si degradasse ad ombra: un’eco lontana di una voce
proveniente da un’altra dimensione, una dimensione di odio e disprezzo per tutto, dove misantropia ed elitarismo procedono a braccetto, veicolati
attraverso melodie che corrono alla velocità della luce, scavano, penetrano
nella carne e nelle ossa, perforano la materia fino a trascendere il Reale.
Non amo
in questi contesti utilizzare espressioni altisonanti, ma è indubbio che nella
musica dei Darkthrone si compia un vero e proprio salto metafisico, unico
nella storia del metal. La concretezza, il pragmatismo di questo genere
finiscono per smaterializzarsi nella velocità priva di variazioni e nel
minimalismo di melodie fredde ed ossessive: un’inseguirsi senza soluzione di continuità
in un circuito autoreferenziale che trova origine e sfogo in se stesso. Una
sorta di trance mistica ottenuta senza l’impiego di escamotage
“allucinogeni” che sono i trucchi tipici della psichedelia. L’impresa di Ferniz
e Nocturno Culto, piuttosto, è di raggiungere il medesimo obiettivo con il
minimo dei mezzi e dello sforzo. Un disprezzo per l’umana stirpe che non è solo
il messaggio dichiarato, ma pure il medium per rappresentarlo. Quel che ci
insegnano i Darkthrone è che il black metal è un genere che tende all’Assoluto,
un movimento, uno slancio artistico che corre forsennatamente in una direzione
ben precisa e che trova la sua forma più autentica, la perfezione, man mano che
si approssima a quel luogo posto oltre l’Infinito. Ad oggi,
“Transilvanian Hunger” è l’opera che, lungo questo tracciato, vi si avvicina di
più.
È
inutile aggiungere che tutto questo diverrà la quintessenza del black
metal. In “Transilvanian Hunger” individuiamo l’ideal-tipo di uno
stilema musicale che troverà negli anni successivi una miriade sconfinata di
epigoni ed appendici. Se negli anni successivi ci imbatteremo in una copertina
in bianco e nero con sopra un cretino con la faccia pitturata, bisognerà
ringraziare i Darkthrone. Se anche l’ultimo degli incompetenti musicali s’improvviserà
con fierezza appartenente ad un elite di artisti illuminati, sarà sempre
merito dei Darkthrone, cattivi maestri dell’universo metal e non solo.
Solamente in pochi, pochissimi, saranno in grado di bissare quanto edificato
dai Nostri in “Transilvanian Hunger” (mi vengono in mente gli Ulver di “Nattens
Madrigal”), a dimostrazione di come in verità sia difficile pervenire all’equilibrio
raggiunto da Fenriz e Nocturno Culto in questa opera.
Un
equilibrio che poggia su un punto ben preciso oltre il quale non è umanamente
possibile andare. Con “Transilvanian Hunger” il black metal incarna
un’esperienza che è inutile emulare, poiché proseguire per quella via,
significherebbe ripetere, continuare a battere compulsivamente la testa contro
una barriera invalicabile o, meglio ancora, mordere ferocemente il freno che ci
tiene radicati alla piccolezza della natura umana.