28 ott 2015

ULVER: IL LUPO PERDE IL PELO E QUALCHE VOLTA ANCHE IL VIZIO…(parte prima)




I MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL

1° CLASSIFICATO (parte prima): “KVELDSSANGER”

Quando ho concepito questa classifica, fui certo fin dal primo istante che ai piani alti si sarebbero posizionati gli Ulver. Compiendo successivamente un'analisi maggiormente approfondita, mi sono reso conto che i norvegesi avrebbero meritato di occupare come minimo due o tre posizioni. Se c'è infatti una band simbolo del tema che stiamo trattando, questa è sicuramente la formazione capitanata da Kristoffer Rygg (Garm per gli amici metallari). Più che essere i protagonisti di una vera e propria evoluzione, gli Ulver hanno proceduto per strappi, anche violenti, passando in rassegna i generi più svariati, ma sempre mantenendo una forza identitaria che li ha resi un'entità unica dentro e fuori il Reame del Metallo.

Sarebbe dunque riduttivo riassumere le qualità dei Lupi Norvegesi trattando una sola opera: il loro percorso non può essere rappresentato da questo o quell'episodio, per questo abbiamo deciso di prendere in considerazione almeno tre step del loro excursus artistico successivo all’iniziale fase metal. Perché fra il black metal ferale delle origini e la colta avanguardia dei nostri giorni c'è un abisso, e Metal Mirror vi ci condurrà per mano.

Tappa numero uno: “Kveldssanger”, anno 1996. 

Come abbiamo già avuto modo di vedere nella nostra rassegna sul black metal norvegese, fin dal loro esordio, gli Ulver seppero colpire nel segno. Figlio di un periodo florido e di una scena in stato di grazia, “Bergtatt – Et Eeventyr i 5 Capitler” non solo è stato uno dei debutti più belli di quella stagione, ma si rivelerà un'opera seminale che in seguito sarà in grado di aprire spiragli sul fronte del post-black metal che verrà. Il segreto, oltre alla dannata ispirazione, ad una indiscutibile perizia tecnica e ad un gusto melodico fuori dal comune, stava in una riuscita ricetta a base di verace black-metal e folk nord-europeo come nessuno era riuscito a definire prima. Un capolavoro di intensità ad oggi ineguagliato: era il 1995 e si apriva un futuro potenzialmente roseo per i novelli Lupi, eppure già dal loro secondo lavoro capimmo che ai Nostri non piacevano i sentieri lineari.

Kveldssanger” colpiva l'acquirente già dalla bellissima copertina (collegata tematicamente a quella del suo predecessore): un suggestivo dipinto dalle tinte espressioniste ritraente figure fantastiche immerse in un magnetico paesaggio boschivo. Sfogliando le pagine del booklet interno già si poteva però intuire che qualcosa era cambiato (e non aiutava il fatto che tutto fosse redatto rigorosamente in lingua norvegese): la formazione si era misteriosamente ristretta a soli tre componenti, elegantemente vestiti in pelle, su uno sfondo di baita montana in legno, fra cui spiccava un Garm con tanto di fiaccola in mano a dissipare le tenebre.   

Gli stravolgimenti di line-up erano del resto all'ordine del giorno in quel periodo, per questo il nostro stupore fu solo momentaneo. Premendo fiduciosamente play fummo immediatamente inondati dalla bellezza di una chitarra acustica, presto raggiunta dal caloroso ed avvolgente canto di Garm. Violoncello, persino un flauto, l’opener terminava dopo pochi minuti lasciandoci soddisfatti e curiosi di procedere avanti. Seconda traccia: un brano a cappella di sole voci. Terza traccia: una parentesi strumentale di sole chitarre acustiche. Ehi! Ma qui c'è qualcosa che non va! Il nostro dito iniziò da solo a premere freneticamente il tasto per skippare i brani e presto giungemmo ad una inquietante consapevolezza: di black metal, anzi, di metal, nemmeno l'ombra!

Queste sono state le mie sensazioni al momento in cui mi approcciai per la prima volta a “Kveldssanger”. Solo con il tempo, dopo aver soppresso la tentazione iniziale di frullare il dischetto dalla finestra, seppi far mia questa opera, la quale poco a poco si rivelò essere uno scrigno prezioso, prestandosi alle mie orecchie come il perfetto compendio per le gelide serate invernali, trascorse sotto le coperte a (far finta di) studiare, o ad aspettare il calar della notte. Oggi, con il senno di poi, è facile decantarne le lodi. “Kveldssanger” è anzitutto un lavoro bellissimo. E' inoltre coerente, stilisticamente e concettualmente, con il percorso che gli Ulver decisero di intraprendere con i loro primi lavori. Sarà infine di fondamentale influenza per gli sviluppi in direzione folk di un certo metal che preferirà riporre chitarre elettriche ed amplificatori per rifugiarsi nell''intimità di una strumentazione rigorosamente acustica (un nome su tutti: Empyrium). L'album, invero, diverrà uno standard anche al di fuori dei confini del metal (si veda per esempio il caso Vàli). Oggi è facile, quasi banale, affermare tutto questo, ma all'epoca non fu semplice accettare una svolta così drastica, solamente un anno dopo quel “Bergtatt” che aveva fatto sperare in un proseguo della band sul tracciato di un black metal di altissimi livelli.

Coraggio, integrità intellettuale, incoscienza: solo in questi termini è possibile spiegare un gesto che può avere la valenza di un vero e proprio suicidio commerciale da parte di una band poco più che esordiente e pronta per tornare nell’oblio anche solo per colpa di una mossa sbagliata. Non ci sono altre maniere per spiegare l'idea di immettere nel mercato e gettare nelle fauci fameliche di un pubblico metal un lavoro totalmente acustico e quasi per metà strumentale 

Sebbene dunque di black metal non ve ne sia la benché minima traccia, “Kveldssanger” viene comunemente considerato come il secondo capitolo della trilogia “black metal” degli Ulver. Questo perché è lo spirito che lo pervade a ricondurlo agli altri due lavori della terna, il già citato “Bergtatt” e il successivo “Nattens Madrigal - Aatte Hymne Til Ulven I Manden” (del 1997), nel quale verrà ricomposta l’originaria formazione a cinque (da notare come fin da principio gli Ulver presentassero una straordinaria flessibilità al fine di organizzarsi in task-force di volta in volta preposte al raggiungimento di un determinato obiettivo).  

Se il black metal degli Ulver era permeato dai gelidi umori del folclore nordico, di sicuro “Kveldssanger” ne è stato lo sviluppo più coerente. Dai frequenti inserti acustici e dalle voci vellutate, da tutti quegli elementi che rendevano “Bergatatt” un album unico e rivoluzionario, gli Ulver estraevano il nettare dell’ispirazione, spingendosi ancora più lontano, al di là dello steccato del metal: verso il folk incontaminato.

Quel mondo magico ed ancestrale che in “Bergtatt” veniva evocato attraverso miti e leggende dell’antico Nord, adesso è ricongiunto alla semplicità della vita rupestre. In “Kveldssanger” l’evocazione si fa contemplazione. Già dal titolo dell’album (“Canti del crepuscolo”) lo evinciamo, e dai titoli dei brani (“Le cime delle montagne”, “Nottetempo”, “Vestito dei colori della notte”, “Sonno su un tumulo fatato”, “Il colore del lupo”, solo per fare qualche esempio) riceviamo la conferma definitiva: fra sofferto romanticismo e struggente poesia, gli Ulver ergono un monumento in onore del loro mondo, della loro storia, della loro cultura.  Trentacinque minuti, tredici brevi bozzetti, istanti sottratti ad un passato oscuro, misterioso, magico, in cui Tradizione e Natura convivevano armoniosamente.

La sostanza del sound è affidata alle chitarre di Haavard, il resto è lasciato alle vocalità eteree di Garm (sublime come al suo solito), alle sporadiche percussioni di Aiwarikiar (pure al flauto) ed ai ricami del violoncello di Alf Gaaskjonli (qui presente in qualità di ospite). Poco altro da aggiungere, se non il fatto che si parla del miglior folk nordico possibile.

Nella nostra recensione di “Bergtatt”, scrivevamo: “Gli Ulver, la Norvegia di quegli anni, ci raccontano anche un’altra storia: il fatto che la vera Arte, per motivi soprattutto sociologici, non si fa più nelle grandi città (Londra, Berlino, New York), ma laddove non c’è niente, dove l’uomo, l’artista può trovare se stesso e le verità dentro se stesso, non distratto dalla confusione, dal chiacchiericcio, dalla frenesia della società del mondo moderno.”

Parole che valgono indubbiamente (e forse ancor di più) per “Kveldssanger”, che si porta ulteriormente fuori, rispetto al predecessore, dalle coordinate della modernità. Ma lo stupefacente “Kveldssanger” non sarà l’ultimo album degli Ulver a stupirci: se già “Nattens Madrigal”, che segnò un brusco inasprimento delle sonorità (tanto che esso rimarrà in assoluto il parto più estremo nella storia della band), non fu proprio quello che ci saremmo aspettati alla luce di quanto espresso nei primi due lavori, sarà tuttavia con i passi successivi che le vere sorprese inizieranno a fioccare copiose….


To be continued…