21 ott 2015

ANATHEMA: PERCHE’ NON ANDREI MAI A BERE UNA BIRRA CON I FRATELLI CAVANAGH


I MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL

2° CLASSIFICATO: “WEATHER SYSTEMS”

Abbiamo già incontrato gli Anathema in questa nostra rassegna: stavamo disquisendo sugli Antimatter, il progetto del loro ex-bassista Duncan Patterson. In quella circostanza, degli Anathema abbiamo osservato le origini doom/death e gli sviluppi appena successivi. Li abbiamo infine lasciati ad “Alternative 4”, cruciale spartiacque per la loro carriera. E da qui ripartiremo.

Alternative 4”, insieme a “One Second” dei Paradise Lost, “A Deeper Kind of Slumber” dei Tiamat, “Discouraged Ones” dei Katatonia, e “Sin/Pecado” dei Moonspell, è sicuramente da indicare fra i capitoli più avvincenti di quell’evoluzione che, sul finire degli anni novanta, ha condotto molte eminenze dell'universo gothic fuori dal selciato metal. Se non abbiamo incluso quest’importante album all’interno della nostra top-ten, è semplicemente perché gli Anathema, sotto la guida degli affiatatissimi fratelli Cavanagh, sapranno in futuro fare di meglio.


Come già avevamo sostenuto, “Alternative 4” è stato il frutto della contesa fra le due anime contrastanti della band: quella più melodica e rock-oriented del chitarrista Daniel Cavanagh e quella più oscura e minimalista del bassista Duncan Patterson. Un connubio che ha portato, senz’altro, a momenti grandiosi come “Fragile Dreams” da un lato e “Lost Control” dall’altro. Il problema di fondo, però, è che gli Anathema persero quell’ariosità, quella fluidità, quella forza visionaria che li avevano contraddistinti in passato, per spezzettarsi in particelle semplici, pregne di un’emotività castigata che solo a tratti sapeva irrompere in tutta la sua irruenza. Un po’ come succedeva ai Pink Floyd di “The Final Cut”, a cui “Alternative 4” avrebbe voluto somigliare in più di un frangente. Altro problema: i Pink Floyd, da sempre influenza fondamentale per gli Anathema, si facevano in questo lavoro troppo ingombranti, richiamati apertamente come mai era successo prima. La colpa (questo verrà assodato) era di Patterson, che nella sua carriera solista si trascinerà dietro il suo bagaglio di citazioni watersiane.

Judgement” (del 1999), il primo album senza Patterson, portava ancora su di sé l’impronta del carismatico bassista, ma già qualcosa si stava muovendo nel sottofondo: l’ispirazione dei fratelli Cavanagh era pronta per emergere nuovamente in tutto il suo splendore. I successivi “A Fine Day to Exit” (2001) e “A Natural Disaster” (2003) ci descriveranno dei nuovi Anathema, oramai orientati verso gli orizzonti di un rock iper-emotivo che, in certi suoi sviluppi (stralci di elettronica minimale, impiego di vocoder, rarefazione ambientale ecc.) li avvicinava a Radiohead e Sigur Ros. Se dei Pink Floyd rimaneva qualcosa, questo qualcosa era indubbiamente di ispirazione gilmouriana, un’influenza ancora rinvenibile nei bellissimi assolo (costruiti sul modello dell’assolo di “Comfortably Numb”, ideal-tipo irraggiungibile per la ballata anathemiana) e, più in generale, nella maestosità delle ambientazioni che richiamavano le atmosfere di album come “Wish You Were Here” ed “Animals”.

Poi però vi fu un incredibile silenzio, sette anni in tutto, in cui la band si astenne dal riversare materiale inedito sul mercato discografico. Risolti problemi di svariata natura ed individuata un’etichetta che potesse supportare e promuovere adeguatamente il nuovo album, uscì finalmente nel 2010 il tanto atteso “We’re Here Because We’re Here”: un ritorno con i fiocchi per gli Anathema, che, sotto la guida sapiente del guru Steven Wilson, riemersero dall’oblio con sonorità sempre più soft (e non sarebbe un azzardo tirare in ballo il pop-rock dei Coldplay), ma al contempo per niente banali. Verranno per comodità definiti neo-prog, anche se di prog i Nostri conservavano solamente la volontà di travalicare il classico formato canzone. La musica degli Anathema, in continuità con il passato, si settava definitivamente sulle coordinate della sofferta ballad acustica, qua e là illuminata da assolo strabilianti e crescendo strumentali che denotavano un approccio post-rock, prima ancora che progressivo in senso stretto.

La formazione, del resto, si compattò intorno alle sinergie “sanguigne” delle due “famiglie” che la componevano: da un lato i tre fratelli Cavanagh (ricordiamo che nel frattempo era tornato all’ovile Jamie, il gemello di Vincent), e dall’altro i due Douglas, ossia John, lo storico batterista, e sua sorella Lee, sempre più indispensabile dietro al microfono. Una rinnovata energia vitale pervadeva quest’ultima incarnazione della band, che finì per ripudiare molto del materiale della produzione passata (cosa riscontrabile nella scaletta di brani scelti per essere riproposti dal vivo). Questa continua tensione al miglioramento, questo concentrarsi solo ed esclusivamente sul presente, sarà la causa prima di un percorso artistico virtuoso che ad oggi non conosce particolari cenni di cedimento (personalmente parlando, non c’è capitolo discografico della band che mi abbia deluso) e che culminerà con un tardo-capolavoro come “Weather Systems”, del 2012: il nono full-lenght della carriera.

Lascio alle sensibilità personali dei nostri lettori l’ardua sentenza su quale sia effettivamente il miglior album degli Anathema, ma nessuno potrà negare che questo di cui stiamo parlando sia un lavoro superlativo che denota un’ulteriore crescita per la band, sia sul fronte della scrittura che su quello interpretativo, sia sul piano della mera forma (si noti la perfezione dei suoni, affidati al nuovo produttore Crister-André Cederberg) che dal punto di vista della sostanza. La band oramai si muove con le dinamiche del collettivo, dove ovviamente vige lo strapotere dei fratelli Cavanagh. Se la composizione dei brani viene lasciata quasi tutta nelle capaci mani di Daniel (non solo alla chitarra, ma anche al pianoforte), occorre sottolineare la crescita di Vincent, sia come cantante (la sua voce si farà nel tempo più potente, più raffinata, andando ad evocare, per forza ed emotività, il fantasma del mai troppo compianto Jeff Buckley), sia come musicista (pure alle tastiere ed al programming), risultando sempre più incisivo in sede di arrangiamenti.

Laddove il contributo del terzo fratellino Jamie Cavanagh (impiegato al basso in un solo brano, per il resto sostituito dal produttore Cederberg) e quello di John Douglas (rimpiazzato in un paio di circostanze dietro alle pelli dal ben più dinamico Wetle Holte) vanno ad assottigliarsi, Lee Douglas emerge come il vero astro nascente dell’ultima incarnazione della band, guadagnando spazi crescenti e ritagliandosi persino momenti da protagonista: gli Anathema, grazie a lei, avranno due voci, quella epica, esasperata ed intensissima di Vincent, e quella dolce e commovente di Lee.

Ecco perché non potrei mai andare a bere una birra con gli Anathema: anzitutto perché sarei l’unico al tavolo ad ordinare qualcosa di alcolico. E poi perché, per quanto li adori artisticamente, i Nostri sono i tipici personaggi da parrocchia che un po’ mi lasciano perplessi: retorici, mielosi, melensi, gli Anathema si vogliono e ti vogliono bene, si farebbero in quattro per te, sono sempre animati da buone intenzioni, piangono pur non essendo dei pessimisti, ridono pur non essendo ironici, credono nel Destino, amano i propri partner di un amore sincero e fedele, sono i figli che criticano la madre se fuma o beve troppo, gli amici che ti giudicano con sguardo severo se fai delle cazzate, ma che sono anche pronti a perdonarti perché sono consapevoli della natura fallace dell’uomo. C’è molto zucchero nella nuova musica degli Anathema e ringrazio Iddio che il mio inglese non mi permetta di cogliere tutte le sfumature dei loro testi, che sembrano scritti da Baglioni.

Ma forse è proprio questa loro purezza a renderli i più incredibili cantori di emozioni che la musica rock conosca oggi. I duetti di Vincent e Lee nelle due parti di “Untouchable” sono per esempio magnifici, e pazienza se i testi contengono un tasso di glucosio così alto da costituire una minaccia per i malati di diabete e non. Quello che più di ogni altra cosa mi stupisce di questo album è che luci ed ombre, felicità e tristezza, serenità e malinconia riescono a convivere pacificamente in ogni singola nota. E’ come se i Nostri avessero colto l’essenza complessa e contraddittoria dell’esistenza umana, e l’avessero riversata in ogni rivolo di cui si alimenta quel torrente in piena che è la loro arte. Il tema della meteorologia non diviene altro che una metafora del succedersi, tempestoso o placido, irruente o graduale, dei vari stati d’animo: le emozioni viste e narrate non come un qualcosa di statico, di cristallizzato nella coscienza, ma come qualcosa di mutevole e in continua evoluzione, come flusso dinamico, come intreccio complesso, come articolata composizione di sfumature anche impercettibili. E queste sono le medesime caratteristiche che animano la musica degli Anathema: “Weather Systems” è così una corrente di emozioni, sogni e visioni che gioca continuamente sui dettagli, sullo spessore dei suoni, sull’intensità dell’interpretazione di ogni singolo membro.

La ballata è sempre il medium privilegiato per gli Anathema, sulla quale costruiscono e sviluppano soluzioni sempre diverse, che vanno dal prog al post-rock, passando per lo orchestrazioni classiche e lo shoegaze (inedito ingrediente, quest’ultimo, che ritroviamo nell’irresistibile “Sunlight”, la quale ospita come voce protagonista quella di Daniel, che torna a ritagliarsi uno spazio tutto suo dai tempi di “A Nice Day to Exit”). Non amo il track-by-track, ma è doveroso menzionare almeno due episodi. Uno è la mastodontica “The Storm Before the Calm” (quasi dieci minuti di durata), divisa in due parti: una dominata da un’elettronica inquieta, l’altra, orgasmica, caratterizzata dal passo fatale dei Pink Floyd più paesaggistici e culminante in un crescendo orchestrale da brividi che richiama i Queen più barocchi, con in mezzo un Vincent clamoroso come non l’avevamo mai sentito. L’altro brano è l’ottima “The Beginning and the End”, emozionante “ballad in crescendo” che si ricongiunge al filone delle mitiche “One Last Goodbye” e “Flying”, impreziosita da un riuscitissimo assolo di Daniel, che ancora una volta guarda a Gilmour come alla sua musa privilegiata.

Personalmente parlando, sono contento che, grazie anche all’operato di band controverse come i Muse, in questo ultimo decennio, nel rock sia tornata in voga l’ambizione, la voglia di esagerare, la spocchia della “canzone assoluta”, dell’arrangiamento pomposo, dell’esibizionismo emotivo,la volontà di gridare le emozioni a squarciagola, dopo un periodo in cui ha prevalso l’idea del less is more, del sussurro, del minimalismo sonoro, dimensione a tutti costi elevata dalla critica come unico possibile modo per essere sinceri, umani, reali: mondi, questi, che ovviamente non si devono necessariamente escludere a vicenda, come gli Anathema dimostrano efficacemente. Poi, del resto, potranno anche non piacere (e in effetti non sempre “Weather Systems” ha ricevuto recensioni entusiastiche), ma è innegabile che quel che gli Anathema fanno, lo fanno con gran convinzione ed incredibile passione, quasi con devozione, come se la loro musica divenisse per loro stessi (e per i loro fan più incondizionati) una religione in cui credere.

Comunque li si guardi: sinceri, vivi, reali ed estremi, quasi brutali, nel sapere comunicare emozioni senza mediazione alcuna. In una parola: unici.