23 ott 2015

“ROCK STAR”: IL DRAMMA DI TIM “RIPPER” OWENS SI TINGE DI COMMEDIA




Leggendo la scorsa settimana il post del collega Morningrise su “Rock of Ages” mi è subito balzato alla mente un film di qualche anno fa, “Rock Star”: commedia banalotta a firma del regista Stephen Herek e con attori di grido come Mark Wahlberg e Jennifer Aniston. Commedia sì leggera, ma in grado di offrire interessanti spunti di riflessione per il popolo metallico, a cui consiglio la visione per diversi motivi (principalmente non cinematografici...).

La trama si va ad incentrare sulle vicende di una band heavy metal di fantasia, gli Steel Dragon, dichiaratamente ispirati ai Judas Priest. Ed ecco che il neurone dell’attenzione si desta…

Lo dico subito: al termine di questo scritto ci saranno degli spoiler (tranquilli, vi avverto io un paragrafo prima), ma aggiungo anche che potrete tranquillamente arrivare alla fine della lettura, perché, come si diceva sopra, il film di per sé non è un granché e la trama è per giunta prevedibile...

Seattle, seconda metà degli anni ottanta: Chris “Izzy” Cole (Mark Wahlberg – ironica la scelta dell'attore, visto che Wahlberg aveva mosso i primi passi nel mondo dello spettacolo come rapper!) è un giovane cantante che milita nei Blood Pollution, cover-band dei famosissimi Steel Dragon. Chris (capello lungo, chiodo in pelle ed acuti schianta-tonzille) è uno che nel rock ci crede fino a sfiorare il fanatismo. Il naturale corso della sua esistenza (divisa fra prove in garage, concerti in piccoli club, spacconate da rocker di provincia, beghe familiari con tanto di fratello poliziotto e devota compagna, la bella ed affettuosa Emily, impersonata dalla Aniston) viene bruscamente ad interrompersi nel momento in cui squilla il telefono e viene convocato dal manager degli stessi Steel Dragon per un provino volto al rimpiazzo del mitico Bobby Beers, lo storico cantante della band. Il sogno di una vita si avvererà, ma niente sarà più come prima: ricchezza, fama, eccessi di ogni tipo (alcool, droghe, groupie ecc.), un percorso di formazione che condurrà il protagonista alla disillusione e ad una forte crisi di identità e di valori. Cosa farà della sua vita Chris (mollato dalla fidanzata, frustrato nelle sue velleità artistiche, costretto ad eseguire come un burattino quello che gli viene imposto da band e manager, e sempre più conscio di dover recitare un personaggio e non essere se stesso) lo lascio indovinare a voi.

Andiamo invece ad affrontare i temi che ci interessano. Come già visto nella nostra rassegna sul glam, nel corso del decennio ottantiano abbiamo potuto assistere alla folgorante parabola del rock nella sua forma più godereccia, irriverente ed edonistica, fino alla sua eclissi definitiva agli albori degli anni novanta, a causa della rivoluzione culturale (ed ovviamente musicale) portata dal fenomeno grunge. Il film di Herek ripercorre questa epopea con una variante che ci può interessare: il fatto che non si parla di rock, ma di metal.

Noi metallari italiani, nati e cresciuti nel Bel Paese dei Venditti e dei Baglioni, siamo abituati a vivere il metal come una dimensione di nicchia, totalmente scollegata dal resto della società. In Italia non è scontato che colui che si definisce metallaro sia anche un estimatore di Kiss, Van Halen ed Alice Cooper, spesso bollati come esponenti di un Universo Altro rispetto a quello del metal duro e puro.

Negli Stati Uniti degli anni ottanta, invece, i due mondi erano ancora contigui, tant’è che il metallaro non era solo un povero nerd che, chiuso nella sua cameretta, passava le giornate a scapocciare davanti allo specchio con la racchetta da tennis in mano, o a contare le note riversate negli assolo dei propri beniamini, ma anche uno che portava nel mondo il suo senso di appartenenza al metal, usciva per locali, aveva successo con le ragazze (tutt’altro che schifate dall’universo di cui era portatore), viveva la musica come uno stile di vita e non solo come un passatempo. Ma non solo: le band heavy metal apparivano in TV, giravano spettacolari videoclip, indicevano attesissime conferenze-stampa, incarnavano una popolarità che dal decennio successivo in poi sarebbe stato appannaggio esclusivo degli “artisti” pop.

E’ per questo che, ad un primo impatto, ci sembrerà strano che gli “idolatrati” Steel Dragon, sebbene incarnino tanti dei cliché della tipica band hair-metal degli anni ottanta, suonino heavy metal a tutti gli effetti: il sound è granitico, la batteria scorre spedita e gli acuti di Chris sono taglienti come quelli di Rob Halford. Questo miscuglio di elementi potrebbe far pensare ad un pasticcio di sceneggiatura, ma sono troppi gli indizi che ci fanno pensare che la mano dello sceneggiatore abbia seguito in realtà un disegno ben preciso.

Gli Steel Dragon, tanto per cominciare, non sono un semplice spauracchio di luoghi comuni, ma una band vera e propria creata per l’occasione. Wahberg, per esempio, viene doppiato niente meno che da Michael Matijevic (Steelheart) e da Jeff Scott Soto (Malmsteen), mentre gli altri membri sono impersonati da Zakk Wylde (Ozzy Osbourne, Black Label Society), Jeff Pilson (Dokken, Dio, Michael Schenker Group) e Jason Bonham (figlio di John Bonham). Mica cazzi.,,

I richiami ai Judas Priest (senza contare il fatto che il titolo del film doveva essere originariamente “Metal God”) sono molteplici, a partire dalle vicende del protagonista  che ricalcano quelle di Tim Owens, invitato dai Judas Priest (che lo avevano adocchiato durante un concerto) a sostituire Rob Halford, suo mito assoluto. Anche se nel film l’istrionico e stralunato Bobby Beers poco assomiglia (sia fisicamente che come attitudine) all’originale, il Metal God viene palesemente evocato quando ad un certo punto il suo tipico vestiario in pelle e borchie, con tanto di caratteristico berrettino con visiera, compare addosso ad un manichino nel museo dei cimeli della band, a confermare tutte le insinuazioni disseminate fino a quel momento.

L’intera pellicola, in realtà, diviene per gli “addetti ai lavori” una vera caccia al dettaglio, a partire dalla bella colonna sonora, che, oltre ai brani scritti appositamente per gli Steel Dragon (non affatto male), ospita pezzi di Motley Crue, Bon Jovy, Ted Nugent, Kiss, AC/DC, Def Leppard e tanti altri. Ci saranno poi diversi cammei, oltre a quelli già citati, di personaggi più o meno noti dell’universo hard-rock/metal: per esempio i componenti dei Blood Pollution sono Blas Elias (Slaughter), Nick Catanese (Black Label Society) e Brian Vander Ark (The Verve Pipe). Compaiono in altre scene Michael Starr degli L.A. Guns e Myles Kennedy degli Alter Bridge (quando gli Alter Bridge ancora non esistevano – ricordiamo che il film è del 2001). Senza poi contare una miriade di episodi che rimandano a fatti veramente successi nell’universo hard&heavy che sarebbe ozioso citare (rimandiamo i curiosi alla pagina di Wikipedia).

Ma al di là di tutta la costellazione di rimandi e citazioni, il film è evocatore proprio di quella stagione d’oro dell’heavy metal in cui esso, in termini di popolarità, traeva ancora i benefici di quel “divismo” che era proprio del rock. Vicinanza che si traduceva anche in uno stile ancora un po’ “stradaiolo” e molto anthemico, basti guadare agli stessi Judas Priest e a certi loro hit all’inizio degli anni ottanta come “Living After Midnight” e “You’ve got Another Thing Comin’”.

Il film, senza demonizzare il metal e mantenendo quello sguardo non eccessivamente indagatore che è tipico della commedia, si addentra in territori sociologici e finisce per raccontare, attraverso i sentimenti e l’evoluzione del protagonista, la fine di un'intera epoca. Due in particolare sono le scene che mi sento di commentare. ECCO DUNQUE CHE ARRIVANO GLI SPOILER:

Quando alla fine il buon Chris si rende conto che la vita della star non fa per lui, egli decide di abbandonare gli Steel Dragon. Lo fa durante una esibizione dal vivo, cedendo, in un simbolico passaggio generazionale, il microfono ad un giovane galvanizzato in prima fila, invitato a salire sul palco e a continuare la performance al posto suo (gesto profetico, se si pensa che quel ragazzo è un giovanissimo Myles Kennedy, destinato a divenire di lì a poco una delle più grandi promesse del metal odierno con i talentuosi Alter Bridge). Una volta nel backstage, Chris si ritirerà senza clamore, lasciando detto al suo manager che sarebbe andato a pisciare (la stessa frase che il manager, anni prima, aveva utilizzato per congedarsi dalla moglie e da una grigia vita borghese fatta di doveri e responsabilità, prima di approdare all'elettrizzante e fancazzista vita on the road).

In questo epilogo, lo dico per inciso, si svia da quello che è il vero dramma di Tim Owens, rispettato ma mai accettato fino in fondo dai fan dei Judas Priest, costretto a farsi da parte per cedere nuovamente lo scettro ad un redivivo Halford. Lo sceneggiatore, in questo frangente, ha piuttosto inteso sottolineare un altro aspetto, purtroppo vero, del music business, ossia quello della “replicabilità del Mito”, della macchina del successo tritatutto, del pubblico vorace che divora ogni cosa gli venga proposta. Il metallaro, invero, è un animale ben più duro e sentimentale, che si affeziona al vecchio e mal digerisce il nuovo, soprattutto se la staffetta riguarda membri storici di band storiche.

Ancor più significativa è la scena finale in cui, in un club nella nativa Seattle (adesso capiamo il motivo della scelta di quella location), dopo una breve ellissi (siamo agli inizi degli anni novanta) ritroviamo il protagonista completamente cambiato: look spettinato, un maglione al posto di chiodo e borchie, atteggiamento dimesso e posato, egli ha oramai ha assunto le sembianze di Kurt Cobain. E’ su un palco e sta cantando in una band grunge: alla dimensione sguaiata del rock (nel corso della sua avventura il Nostro non solo ha avuto modo di scoprire l’ipocrisia che sta dietro allo star-system, ma anche la futilità di una vita materiale fatta di eccessi, maschere ed apparenze) egli antepone la sfera dell’essere, dell’intimità e dell’introversione. Inevitabilmente finirà per rimettersi insieme alla sua fidanzata. 

FINE DEGLI SPOILER: leggetevi almeno le nostre conclusioni…

Da una commedia americana non era lecito aspettarsi qualcosa in più rispetto a stereotipi e gag divertenti, ed incontreremo entrambe le cose, non preoccupatevi. Vi troviamo però anche una certa competenza nella trattazione dell'universo metallico (cosa da non dare per scontata). E nel gioco di specchi fra protagonista e musica, una interessante (forse inconsapevole) rilettura/interpretazione di un importante passaggio socio-culturale dei nostri tempi, che sancisce l’inadeguatezza da parte di un rock eccessivo ed edonistico a dare le giuste risposte ad una generazione di giovani che preferirà, quelle risposte, ricercarle non nella materialità del frutto proibito, ma nell’abisso della propria interiorità.