I
MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL
2° CLASSIFICATO: “WEATHER SYSTEMS”
Abbiamo
già incontrato gli Anathema in questa nostra rassegna:
stavamo disquisendo sugli Antimatter, il progetto del loro
ex-bassista Duncan Patterson. In
quella circostanza, degli Anathema abbiamo osservato le
origini doom/death e gli sviluppi appena successivi. Li abbiamo
infine lasciati ad “Alternative 4”, cruciale spartiacque
per la loro carriera. E da qui ripartiremo.
“Alternative
4”, insieme a “One Second” dei Paradise Lost,
“A Deeper Kind of Slumber” dei Tiamat, “Discouraged
Ones” dei Katatonia, e “Sin/Pecado” dei
Moonspell, è sicuramente da indicare fra i capitoli più
avvincenti di quell’evoluzione che, sul finire degli anni novanta,
ha condotto molte eminenze dell'universo gothic fuori dal selciato
metal. Se non abbiamo incluso quest’importante album all’interno
della nostra top-ten, è semplicemente perché gli Anathema,
sotto la guida degli affiatatissimi fratelli Cavanagh,
sapranno in futuro fare di meglio.
Come
già avevamo sostenuto, “Alternative 4” è stato il frutto della
contesa fra le due anime contrastanti della band: quella più
melodica e rock-oriented del chitarrista Daniel Cavanagh
e quella più oscura e minimalista del bassista Duncan Patterson.
Un connubio che ha portato, senz’altro, a momenti grandiosi come
“Fragile Dreams” da un lato e “Lost Control”
dall’altro. Il problema di fondo, però, è che gli Anathema
persero quell’ariosità, quella fluidità, quella forza visionaria
che li avevano contraddistinti in passato, per spezzettarsi in
particelle semplici, pregne di un’emotività castigata che solo a
tratti sapeva irrompere in tutta la sua irruenza. Un po’ come
succedeva ai Pink Floyd di “The Final Cut”, a cui
“Alternative 4” avrebbe voluto somigliare in più di un
frangente. Altro problema: i Pink Floyd, da sempre influenza
fondamentale per gli Anathema, si facevano in questo lavoro troppo
ingombranti, richiamati apertamente come mai era successo prima. La
colpa (questo verrà assodato) era di Patterson, che nella sua
carriera solista si trascinerà dietro il suo bagaglio di citazioni
watersiane.
“Judgement”
(del 1999), il primo album senza Patterson, portava ancora su di sé
l’impronta del carismatico bassista, ma già qualcosa si stava
muovendo nel sottofondo: l’ispirazione dei fratelli Cavanagh era
pronta per emergere nuovamente in tutto il suo splendore. I
successivi “A Fine Day to Exit” (2001) e “A Natural
Disaster” (2003) ci descriveranno dei nuovi Anathema, oramai
orientati verso gli orizzonti di un rock iper-emotivo che, in certi
suoi sviluppi (stralci di elettronica minimale, impiego di vocoder,
rarefazione ambientale ecc.) li avvicinava a Radiohead e Sigur
Ros. Se dei Pink Floyd rimaneva qualcosa, questo qualcosa era
indubbiamente di ispirazione gilmouriana, un’influenza
ancora rinvenibile nei bellissimi assolo (costruiti sul modello
dell’assolo di “Comfortably Numb”, ideal-tipo
irraggiungibile per la ballata anathemiana) e, più in
generale, nella maestosità delle ambientazioni che richiamavano le
atmosfere di album come “Wish You Were Here” ed “Animals”.
Poi
però vi fu un incredibile silenzio, sette anni in tutto, in cui la
band si astenne dal riversare materiale inedito sul mercato
discografico. Risolti problemi di svariata natura ed individuata
un’etichetta che potesse supportare e promuovere adeguatamente il
nuovo album, uscì finalmente nel 2010 il tanto atteso “We’re
Here Because We’re Here”: un ritorno con i fiocchi per gli
Anathema, che, sotto la guida sapiente del guru Steven Wilson,
riemersero dall’oblio con sonorità sempre più soft (e non
sarebbe un azzardo tirare in ballo il pop-rock dei Coldplay),
ma al contempo per niente banali. Verranno per comodità definiti
neo-prog, anche se di prog i Nostri conservavano solamente la
volontà di travalicare il classico formato canzone. La musica degli
Anathema, in continuità con il passato, si settava definitivamente
sulle coordinate della sofferta ballad acustica, qua e là
illuminata da assolo strabilianti e crescendo strumentali che
denotavano un approccio post-rock, prima ancora che
progressivo in senso stretto.
La
formazione, del resto, si compattò intorno alle sinergie “sanguigne”
delle due “famiglie” che la componevano: da un lato i tre
fratelli Cavanagh (ricordiamo che nel frattempo era tornato
all’ovile Jamie, il gemello di Vincent), e dall’altro i
due Douglas, ossia John, lo storico batterista, e sua
sorella Lee, sempre più indispensabile dietro al microfono.
Una rinnovata energia vitale pervadeva quest’ultima incarnazione
della band, che finì per ripudiare molto del materiale della
produzione passata (cosa riscontrabile nella scaletta di brani scelti
per essere riproposti dal vivo). Questa continua tensione al
miglioramento, questo concentrarsi solo ed esclusivamente sul
presente, sarà la causa prima di un percorso artistico virtuoso che
ad oggi non conosce particolari cenni di cedimento (personalmente
parlando, non c’è capitolo discografico della band che mi abbia
deluso) e che culminerà con un tardo-capolavoro come “Weather
Systems”, del 2012: il nono full-lenght della
carriera.
Lascio
alle sensibilità personali dei nostri lettori l’ardua sentenza su
quale sia effettivamente il miglior album degli Anathema, ma nessuno
potrà negare che questo di cui stiamo parlando sia un lavoro
superlativo che denota un’ulteriore crescita per la band, sia sul
fronte della scrittura che su quello interpretativo, sia sul piano
della mera forma (si noti la perfezione dei suoni, affidati al nuovo
produttore Crister-André Cederberg) che dal punto di vista
della sostanza. La band oramai si muove con le dinamiche del
collettivo, dove ovviamente vige lo strapotere dei fratelli Cavanagh.
Se la composizione dei brani viene lasciata quasi tutta nelle capaci
mani di Daniel (non solo alla chitarra, ma anche al pianoforte),
occorre sottolineare la crescita di Vincent, sia come cantante (la
sua voce si farà nel tempo più potente, più raffinata, andando ad
evocare, per forza ed emotività, il fantasma del mai troppo
compianto Jeff Buckley), sia come musicista (pure alle
tastiere ed al programming), risultando sempre più incisivo
in sede di arrangiamenti.
Laddove
il contributo del terzo fratellino Jamie Cavanagh (impiegato al basso
in un solo brano, per il resto sostituito dal produttore Cederberg) e
quello di John Douglas (rimpiazzato in un paio di circostanze dietro
alle pelli dal ben più dinamico Wetle Holte) vanno ad
assottigliarsi, Lee Douglas emerge come il vero astro nascente
dell’ultima incarnazione della band, guadagnando spazi crescenti e
ritagliandosi persino momenti da protagonista: gli Anathema, grazie a
lei, avranno due voci, quella epica, esasperata ed intensissima di
Vincent, e quella dolce e commovente di Lee.
Ecco
perché non potrei mai andare a bere una birra con gli Anathema:
anzitutto perché sarei l’unico al tavolo ad ordinare qualcosa di
alcolico. E poi perché, per quanto li adori artisticamente, i Nostri
sono i tipici personaggi da parrocchia che un po’ mi lasciano
perplessi: retorici, mielosi, melensi, gli Anathema si vogliono e ti
vogliono bene, si farebbero in quattro per te, sono sempre animati da
buone intenzioni, piangono pur non essendo dei pessimisti, ridono pur
non essendo ironici, credono nel Destino, amano i propri partner
di un amore sincero e fedele, sono i figli che criticano la madre se
fuma o beve troppo, gli amici che ti giudicano con sguardo severo se
fai delle cazzate, ma che sono anche pronti a perdonarti perché sono
consapevoli della natura fallace dell’uomo. C’è molto zucchero
nella nuova musica degli Anathema e ringrazio Iddio che il mio
inglese non mi permetta di cogliere tutte le sfumature dei loro
testi, che sembrano scritti da Baglioni.
Ma
forse è proprio questa loro purezza a renderli i più incredibili
cantori di emozioni che la musica rock conosca oggi. I duetti di
Vincent e Lee nelle due parti di “Untouchable” sono per
esempio magnifici, e pazienza se i testi contengono un tasso di
glucosio così alto da costituire una minaccia per i malati di
diabete e non. Quello che più di ogni altra cosa mi stupisce di
questo album è che luci ed ombre, felicità e tristezza, serenità e
malinconia riescono a convivere pacificamente in ogni singola nota.
E’ come se i Nostri avessero colto l’essenza complessa e
contraddittoria dell’esistenza umana, e l’avessero riversata in
ogni rivolo di cui si alimenta quel torrente in piena che è la loro
arte. Il tema della meteorologia non diviene altro che una
metafora del succedersi, tempestoso o placido, irruente o graduale,
dei vari stati d’animo: le emozioni viste e narrate non come un
qualcosa di statico, di cristallizzato nella coscienza, ma come
qualcosa di mutevole e in continua evoluzione, come flusso dinamico,
come intreccio complesso, come articolata composizione di sfumature
anche impercettibili. E queste sono le medesime caratteristiche che
animano la musica degli Anathema: “Weather Systems” è
così una corrente di emozioni, sogni e visioni che gioca
continuamente sui dettagli, sullo spessore dei suoni, sull’intensità
dell’interpretazione di ogni singolo membro.
La
ballata è sempre il medium privilegiato per gli Anathema, sulla
quale costruiscono e sviluppano soluzioni sempre diverse, che vanno
dal prog al post-rock, passando per lo orchestrazioni classiche e lo
shoegaze (inedito ingrediente, quest’ultimo, che ritroviamo
nell’irresistibile “Sunlight”, la quale ospita come voce
protagonista quella di Daniel, che torna a ritagliarsi uno spazio
tutto suo dai tempi di “A Nice Day to Exit”). Non amo il
track-by-track, ma è doveroso menzionare almeno due episodi.
Uno è la mastodontica “The Storm Before the Calm” (quasi
dieci minuti di durata), divisa in due parti: una dominata da
un’elettronica inquieta, l’altra, orgasmica, caratterizzata dal
passo fatale dei Pink Floyd più paesaggistici e culminante in un
crescendo orchestrale da brividi che richiama i Queen più barocchi,
con in mezzo un Vincent clamoroso come non l’avevamo mai sentito.
L’altro brano è l’ottima “The Beginning and the End”,
emozionante “ballad in crescendo” che si ricongiunge al
filone delle mitiche “One Last Goodbye” e “Flying”,
impreziosita da un riuscitissimo assolo di Daniel, che ancora una
volta guarda a Gilmour come alla sua musa privilegiata.
Personalmente
parlando, sono contento che, grazie anche all’operato di band
controverse come i Muse, in questo ultimo decennio, nel rock
sia tornata in voga l’ambizione, la voglia di esagerare, la
spocchia della “canzone assoluta”, dell’arrangiamento pomposo,
dell’esibizionismo emotivo,la volontà di gridare le emozioni a
squarciagola, dopo un periodo in cui ha prevalso l’idea del less
is more, del sussurro, del minimalismo sonoro, dimensione a
tutti costi elevata dalla critica come unico possibile modo per
essere sinceri, umani, reali: mondi, questi, che ovviamente non si
devono necessariamente escludere a vicenda, come gli Anathema
dimostrano efficacemente. Poi, del resto, potranno anche non piacere
(e in effetti non sempre “Weather Systems” ha ricevuto recensioni
entusiastiche), ma è innegabile che quel che gli Anathema fanno, lo
fanno con gran convinzione ed incredibile passione, quasi con
devozione, come se la loro musica divenisse per loro stessi (e per i
loro fan più incondizionati) una religione in cui credere.
Comunque
li si guardi: sinceri, vivi, reali ed estremi, quasi brutali, nel
sapere comunicare emozioni senza mediazione alcuna. In una parola:
unici.