Leggendo
la scorsa settimana il post del collega Morningrise su “Rock of Ages”
mi è subito balzato alla mente un film di qualche anno fa, “Rock Star”:
commedia banalotta a firma del regista Stephen Herek e con attori
di grido come Mark Wahlberg e Jennifer Aniston. Commedia sì
leggera, ma in grado di offrire interessanti spunti di riflessione per il
popolo metallico, a cui consiglio la visione per diversi motivi (principalmente
non cinematografici...).
La
trama si va ad incentrare sulle vicende di una band heavy metal di fantasia,
gli Steel Dragon, dichiaratamente ispirati ai Judas Priest. Ed
ecco che il neurone dell’attenzione si desta…
Lo
dico subito: al termine di questo scritto ci saranno degli spoiler
(tranquilli, vi avverto io un paragrafo prima), ma aggiungo anche che potrete
tranquillamente arrivare alla fine della lettura, perché, come si diceva sopra,
il film di per sé non è un granché e la trama è per giunta prevedibile...
Seattle,
seconda metà degli anni ottanta: Chris “Izzy” Cole (Mark Wahlberg – ironica
la scelta dell'attore, visto che Wahlberg aveva mosso i primi passi nel mondo
dello spettacolo come rapper!) è un giovane cantante che milita nei Blood
Pollution, cover-band dei famosissimi Steel Dragon. Chris (capello
lungo, chiodo in pelle ed acuti schianta-tonzille) è uno che nel rock ci
crede fino a sfiorare il fanatismo. Il naturale corso della sua esistenza
(divisa fra prove in garage, concerti in piccoli club, spacconate da rocker di
provincia, beghe familiari con tanto di fratello poliziotto e devota compagna,
la bella ed affettuosa Emily, impersonata dalla Aniston) viene bruscamente ad
interrompersi nel momento in cui squilla il telefono e viene convocato dal
manager degli stessi Steel Dragon per un provino volto al rimpiazzo del mitico Bobby
Beers, lo storico cantante della band. Il sogno di una vita si avvererà, ma
niente sarà più come prima: ricchezza, fama, eccessi di ogni tipo (alcool,
droghe, groupie ecc.), un percorso di formazione che condurrà il
protagonista alla disillusione e ad una forte crisi di identità e di valori.
Cosa farà della sua vita Chris (mollato dalla fidanzata, frustrato nelle sue
velleità artistiche, costretto ad eseguire come un burattino quello che gli
viene imposto da band e manager, e sempre più conscio di dover recitare un
personaggio e non essere se stesso) lo lascio indovinare a voi.
Andiamo
invece ad affrontare i temi che ci interessano. Come già visto nella nostra rassegna sul glam, nel corso del decennio ottantiano abbiamo potuto assistere alla
folgorante parabola del rock nella sua forma più godereccia, irriverente ed
edonistica, fino alla sua eclissi definitiva agli albori degli anni novanta, a
causa della rivoluzione culturale (ed ovviamente musicale) portata dal fenomeno
grunge. Il film di Herek ripercorre questa epopea con una variante che
ci può interessare: il fatto che non si parla di rock, ma di metal.
Noi
metallari italiani, nati e cresciuti nel Bel Paese dei Venditti e dei Baglioni,
siamo abituati a vivere il metal come una dimensione di nicchia, totalmente
scollegata dal resto della società. In Italia non è scontato che colui che si
definisce metallaro sia anche un estimatore di Kiss, Van Halen ed
Alice Cooper, spesso bollati come esponenti di un Universo Altro
rispetto a quello del metal duro e puro.
Negli
Stati Uniti degli anni ottanta, invece, i due mondi erano ancora contigui,
tant’è che il metallaro non era solo un povero nerd che, chiuso nella
sua cameretta, passava le giornate a scapocciare davanti allo specchio con
la racchetta da tennis in mano, o a contare le note riversate negli assolo
dei propri beniamini, ma anche uno che portava nel mondo il suo senso di
appartenenza al metal, usciva per locali, aveva successo con le ragazze
(tutt’altro che schifate dall’universo di cui era portatore), viveva la musica
come uno stile di vita e non solo come un passatempo. Ma non solo: le band
heavy metal apparivano in TV, giravano spettacolari videoclip, indicevano
attesissime conferenze-stampa, incarnavano una popolarità che dal decennio
successivo in poi sarebbe stato appannaggio esclusivo degli “artisti” pop.
E’
per questo che, ad un primo impatto, ci sembrerà strano che gli “idolatrati” Steel
Dragon, sebbene incarnino tanti dei cliché della tipica band hair-metal
degli anni ottanta, suonino heavy metal a tutti gli effetti: il sound è
granitico, la batteria scorre spedita e gli acuti di Chris sono taglienti come
quelli di Rob Halford. Questo miscuglio di elementi potrebbe far pensare
ad un pasticcio di sceneggiatura, ma sono troppi gli indizi che ci fanno pensare
che la mano dello sceneggiatore abbia seguito in realtà un disegno ben preciso.
Gli
Steel Dragon, tanto per cominciare, non sono un semplice spauracchio di luoghi
comuni, ma una band vera e propria creata per l’occasione. Wahberg, per
esempio, viene doppiato niente meno che da Michael Matijevic
(Steelheart) e da Jeff Scott Soto (Malmsteen), mentre gli altri membri
sono impersonati da Zakk Wylde (Ozzy Osbourne, Black Label Society), Jeff
Pilson (Dokken, Dio, Michael Schenker Group) e Jason Bonham (figlio
di John Bonham). Mica cazzi.,,
I
richiami ai Judas Priest (senza contare il fatto che il titolo del film doveva
essere originariamente “Metal God”) sono molteplici, a partire dalle
vicende del protagonista che ricalcano
quelle di Tim Owens, invitato dai Judas Priest (che lo avevano
adocchiato durante un concerto) a sostituire Rob Halford, suo mito assoluto.
Anche se nel film l’istrionico e stralunato Bobby Beers poco assomiglia (sia
fisicamente che come attitudine) all’originale, il Metal God viene
palesemente evocato quando ad un certo punto il suo tipico vestiario in pelle e borchie, con
tanto di caratteristico berrettino con visiera, compare addosso ad un manichino nel museo dei cimeli della band, a confermare tutte le
insinuazioni disseminate fino a quel momento.
L’intera
pellicola, in realtà, diviene per gli “addetti ai lavori” una vera caccia al
dettaglio, a partire dalla bella colonna sonora, che, oltre ai brani scritti
appositamente per gli Steel Dragon (non affatto male), ospita pezzi di
Motley Crue, Bon Jovy, Ted Nugent, Kiss, AC/DC,
Def Leppard e tanti altri. Ci saranno poi diversi cammei, oltre a quelli
già citati, di personaggi più o meno noti dell’universo hard-rock/metal: per
esempio i componenti dei Blood Pollution sono Blas Elias (Slaughter),
Nick Catanese (Black Label Society) e Brian Vander Ark (The Verve
Pipe). Compaiono in altre scene Michael Starr degli L.A. Guns
e Myles Kennedy degli Alter Bridge (quando gli Alter Bridge
ancora non esistevano – ricordiamo che il film è del 2001). Senza poi
contare una miriade di episodi che rimandano a fatti veramente successi
nell’universo hard&heavy che sarebbe ozioso citare (rimandiamo i
curiosi alla pagina di Wikipedia).
Ma
al di là di tutta la costellazione di rimandi e citazioni, il film è evocatore
proprio di quella stagione d’oro dell’heavy metal in cui esso, in termini di
popolarità, traeva ancora i benefici di quel “divismo” che era proprio
del rock. Vicinanza che si traduceva anche in uno stile ancora un po’ “stradaiolo”
e molto anthemico, basti guadare agli stessi Judas Priest e a
certi loro hit all’inizio degli anni ottanta come “Living After
Midnight” e “You’ve got Another Thing Comin’”.
Il
film, senza demonizzare il metal e mantenendo quello sguardo non eccessivamente
indagatore che è tipico della commedia, si addentra in territori sociologici e
finisce per raccontare, attraverso i sentimenti e l’evoluzione del
protagonista, la fine di un'intera epoca. Due in particolare sono le scene che
mi sento di commentare. ECCO DUNQUE CHE ARRIVANO GLI SPOILER:
Quando
alla fine il buon Chris si rende conto che la vita della star non fa per
lui, egli decide di abbandonare gli Steel Dragon. Lo fa durante una esibizione
dal vivo, cedendo, in un simbolico passaggio generazionale, il microfono ad un
giovane galvanizzato in prima fila, invitato a salire sul palco e a continuare
la performance al posto suo (gesto profetico, se si pensa che quel
ragazzo è un giovanissimo Myles Kennedy, destinato a divenire di lì a
poco una delle più grandi promesse del metal odierno con i talentuosi Alter
Bridge). Una volta nel backstage, Chris si ritirerà senza clamore,
lasciando detto al suo manager che sarebbe andato a pisciare (la
stessa frase che il manager, anni prima, aveva utilizzato per congedarsi dalla
moglie e da una grigia vita borghese fatta di doveri e responsabilità, prima di approdare all'elettrizzante e fancazzista
vita on the road).
In
questo epilogo, lo dico per inciso, si svia da quello che è il vero dramma di Tim
Owens, rispettato ma mai accettato fino in fondo dai fan dei Judas Priest, costretto
a farsi da parte per cedere nuovamente lo scettro ad un redivivo Halford. Lo
sceneggiatore, in questo frangente, ha piuttosto inteso sottolineare un altro
aspetto, purtroppo vero, del music business, ossia quello della “replicabilità
del Mito”, della macchina del successo tritatutto, del pubblico vorace che
divora ogni cosa gli venga proposta. Il metallaro, invero, è un animale ben più
duro e sentimentale, che si affeziona al vecchio e mal digerisce il nuovo,
soprattutto se la staffetta riguarda membri storici di band storiche.
Ancor
più significativa è la scena finale in cui, in un club nella nativa Seattle
(adesso capiamo il motivo della scelta di quella location), dopo una
breve ellissi (siamo agli inizi degli anni novanta) ritroviamo il protagonista completamente
cambiato: look spettinato, un maglione al posto di chiodo e borchie,
atteggiamento dimesso e posato, egli ha oramai ha assunto le sembianze di Kurt
Cobain. E’ su un palco e sta cantando in una band grunge: alla
dimensione sguaiata del rock (nel corso della sua avventura il Nostro non solo ha
avuto modo di scoprire l’ipocrisia che sta dietro allo star-system, ma
anche la futilità di una vita materiale fatta di eccessi, maschere ed
apparenze) egli antepone la sfera dell’essere, dell’intimità e
dell’introversione. Inevitabilmente finirà per rimettersi insieme alla sua
fidanzata.
FINE
DEGLI SPOILER: leggetevi almeno le nostre conclusioni…
Da
una commedia americana non era lecito aspettarsi qualcosa in più rispetto a
stereotipi e gag divertenti, ed incontreremo entrambe le cose, non
preoccupatevi. Vi troviamo però anche una certa competenza nella trattazione
dell'universo metallico (cosa da non dare per scontata). E nel gioco di specchi
fra protagonista e musica, una interessante (forse inconsapevole)
rilettura/interpretazione di un importante passaggio socio-culturale dei nostri
tempi, che sancisce l’inadeguatezza da parte di un rock eccessivo ed edonistico
a dare le giuste risposte ad una generazione di giovani che preferirà, quelle
risposte, ricercarle non nella materialità del frutto proibito, ma nell’abisso
della propria interiorità.