25 mag 2016

I MIGLIORI ALBUM-DOPPI DEL METAL (anteprima)




Gli album-doppi nel metal. Mi riallaccio al post che il nostro Doc ha redatto proprio su questo tema: se l’esimio collega ha affrontato la questione con il suo peculiare approccio espressionista, cogliendo incontestabili verità con la penetrazione del genio visionario, io mi accingo a dare un complemento da "professorino" a quello stesso scritto, fornendo uno sguardo d’insieme che vorrebbe affrontare in modo più canonico l’argomento.

Prima linea di demarcazione: concentriamoci su quelli che sono i "veri" album-doppi del metal, andando ad escludere quelle opere che risultavano doppie per via delle ristrettezze imposte dal supporto in vinile. Per noi i "veri" doppi sono quelli in cui la quantità del materiale travalica la capienza massima del singolo CD (circa ottanta minuti) per riversarsi in ben due dischetti: quelle durate che il nostro Doc chiamava “wagneriane”.

Nella storia del rock si hanno sostanzialmente due situazioni in cui si rende necessaria un’operazione del genere e queste due dimensioni sono esemplificate perfettamente da due grandi classici: “The Wall” dei Pink Floyd e il White Album dei Beatles. Nel primo caso si parla di concept, nel secondo di un “disco mondo” in cui la band dispone di così tanto materiale e si trova al contempo in uno stato di predisposizione tale da sentirsi in grado di confezionare un lavoro colossale che, alla rinfusa e senza limitazioni, sappia raccogliere tutte le energie creative di un momento artisticamente così fecondo.

Entrambi i casi presentano dei pro e dei contro. Nel caso del concept è innegabile non riconoscere a questa tipologia di opera un fascino tutto suo dovuto al fatto che i brani risultano collegati fra di loro da una “narrazione”, da temi musicali ricorrenti e da un mood complessivo che li unifica. Se il materiale a disposizione è buono, il prodotto finale è sicuramente di qualità superiore, non solo per il fattore quantità, ma anche per l’innegabile complessità che diviene necessaria per confezionare il tutto. Una complessità che si riversa anche nella dimensione degli arrangiamenti e della produzione: creare un’atmosfera, ambire a creare un contesto, una cornice per gli accadimenti, richiede spesso escamotage (intermezzi, dialoghi ecc.) che non sono indispensabili in una semplice raccolta di canzoni. E il più delle volte diviene determinate una dotta regia a dare un’uniformità al concept: regia che spesso è nella mani di abili produttori (sempre parlando di “The Wall” è il caso di Bob Ezrin, la cui mano influirà pesantemente sul risultato finale – se non ci si crede, si vada ad ascoltare “Berlin” di Lou Reed, sempre seguito da Ezrin, e si noti come lo stile di un produttore possa avvicinare artisti così lontani). Spesso a questo stato di cose segue un folto dispiegamento di forze (ospiti, orchestre intere, cori ecc.). Ma nonostante tutto questo, la buona riuscita non è da dare per scontata: spesso il rigore dell’impianto concettuale può spingere l’artista a dover sacrificare l’aspetto strettamente musicale o deviare artificialmente il libero flusso creativo per farlo convergere nelle maglie di uno schema predefinito. Nel peggiore dei casi l’artista poco ispirato può vedersi costretto a dover inserire riempitivi dallo scarso mordente per giustificare il “lato concettuale” della faccenda.      

Nel caso di quello che abbiamo chiamato un “disco-mondo”, sfavillante espressione dell’incontinenza comunicativa dell’artista, i rischi sono ancora maggiori. Pensiamo sempre al White Album: all’epoca i Beatles erano oramai un gruppo in piena disgregazione, lavoravano autonomamente ed altrettanto autonomamente riversarono le loro canzoni in quel contenitore che già emergeva come il ricettacolo delle varie carriere soliste. Nell’immediatezza della creazione possono maturare frutti bellissimi, ma si possono anche combinare dei grandi pasticci che, nell’esagitazione del momento, non si ha la cura di evitare. Se nel concept la sfera razionale è il fattore che può indebolire l’intera operazione, in questo caso il nemico principale diviene l’istinto. L’impresa riesce se la maggior parte del materiale è passabile, cosicché diviene più facilmente perdonabile l’inciampo: in quel caso beneficeremo del fatto di poter abbracciare l’artista nella sua essenza, con i suoi pregi e con i suoi difetti, nel bene e nel male, in un’anarchia creativa che sa toccare grandi picchi, mentre le inevitabili cadute (che sono l’insopprimibile altra faccia della medaglia) sono ammortizzate da un’ispirazione mediamente alta. In questi casi il produttore dovrà affannarsi a mettere i pezzi insieme, e qui penso ad un affannato e paziente George Martin (che voleva condensare il White Album in un solo disco) alle prese con le bizze incontenibili dei Fab Four.

C'è poi una terza categoria: quella degli album di estesa durata che sono tali in quanto la tipologia di musica suonata richiede ampi spazi. È una casistica che ricade principalmente in settori altri rispetto al rock, come per esempio sono l'ambient, la cosmic music e certe forme di musica classica temporanea (un esempio su tutti, "Cyborg" del corriere cosmico Klaus Schulze: doppio album che si compone di solo quattro composizioni che hanno una durata che oscilla fra i venti e i venticinque minuti). Anche nel rock ovviamente ciò può accadere in ambiti legati principalmente alla psichedelia o a sonorità post (si consideri il mastodontico "Lift your Skinny Fists like Antennas to Heaven" dei post-rocker canadesi God Speed You! Black Emperor).

Nel metal queste tre categorie vanno ovviamente declinate entro gli stilemi che sono tipici del genere. Ma saprà il metal, con il suo bagaglio di caratteristiche, rivaleggiare con i grandi della musica rock che proprio per mezzo di quel “doppio formato” hanno edificato il tempio sontuoso del loro stato di grazia? Come confrontarsi, senza impallidire, con album del calibro dei già citati “The Wall” e White Album, o anche di un “Quadrophenia” degli Who (manifesto generazionale di ribellione giovanile), di un “Physical Graffiti” dei Led Zeppelin (autentico manuale di hard-rock/blues in tutte le sue forme), di un “The Lamb Lies Down on Broadway” dei Genesis (non solo monumento del progressive rock, ma anche trampolino di lancio per l’avveniristica carriera solista di Peter Gabriel)?

Si è visto nella nostra classifica sui migliori brani lunghi come il metal, dal più nobile al più poverello, abbia ambito a ricoprire “lunghe distanze”. E questa cosa vale ovviamente anche per la durata degli album: un esito da non dare affatto per scontato, visto che il metal discende dal rock’n’roll, dall’hard-rock, dal punk: generi fisici che fanno del brano breve e deciso il proprio standard. Non ci stupiamo dunque se i primi album heavy metal mostravano una durata contenuta che generalmente oscillava fra i trentacinque e i quarantacinque minuti. Avverrà solo in seguito che le band si azzarderanno a nutrire il minutaggio dei propri lavori: ci vorrà infatti lo sviluppo del movimento progressivo, di quello sinfonico e del post-hardcore (a partire dagli anni novanta) per far sì che si dilateranno le durate dei brani e quindi quelle degli album.

E proprio i sottogeneri appena indicati, per ambizione, arroganza o semplice necessità, sono i luoghi dove si è favorita la volontà di pianificare album di lunga durata. In questi casi sarà molto frequente imbattersi in minutaggi superiori all’ora, ma meno frequentemente sarà possibile imbattersi in veri e propri album-doppi (salvo ovviamente il caso dei live-album, per i quali quel tipo di formato è chiaramente il più congeniale). Il doppio album inciso in studio rimane invece cosa assai rara, per questo abbiamo deciso di estendere la nostra trattazione a quelle opere divise “in due parti” che sono state pubblicate separatamente (in confezioni diverse, tanto per intenderci), vuoi in contemporanea (in quelli che potremmo definire parti gemellari, mono o eterozigoti che siano), vuoi in stretta successione, ma che possiamo comunque concepire come un’unica incontestabile entità.

Decideremo invece di escludere quei sequel che seguono di molti anni l’uscita di opere originariamente concepite e realizzate in solitaria (operazioni che spesso vengono effettuate furbescamente da band oramai alla frutta che decidono di raschiare il fondo sfruttando i fasti di popolarità del passato). Due esempi possono essere i Queensryche che nel 2006 decidono di rilasciare la seconda parte di “Operation: Mindcrime” e gli Edge of Sanity che nel 2003 fanno la stessa cosa per il loro capolavoro “Crimson”: in entrambi i casi è ovvio che i due lavori, usciti a distanza di molti anni fra di loro, e per giunta con formazioni differenti (addirittura nel caso degli Edge of Sanity sarà il solo Dan Swano a curare il sequel), non possono essere considerati come un’unica entità, sebbene il titolo sulla copertina sia il medesimo.

Non contempleremo nemmeno le “saghe”, ossia quei progetti ancora più complessi ed estesi che annoverano ben più di due parti (i Saviour Machine di “Legion”, mega-colossal biblico sulla fine del mondo originariamente concepito come trilogia e poi ampliato e lasciato incompiuto; i Blut Aus Nord con il trittico di album usciti con il titolo “777”, che, almeno all’apparenza, non sembrano avere niente in comune se non forse dei legami concettuali; i vari intricati ed intrecciati progetti della carriera solista di quel pazzo di Devin Townsend): progetti sicuramente ben architettati, ma che, come potrete capire, non possiamo considerare come album-doppi.  

Ci è inoltre dispiaciuto dover lasciare fuori dalla nostra lista il bel “How to Measure a Planet?” dei Gathering, del quale abbiamo già parlato nella nostra rassegna sui migliori album non-metal fatti da band metal: all’epoca (correva l’anno 1998) gli olandesi si erano oramai spostati definitivamente sui territori della psichedelia, dello space-rock e persino del pop d’autore, per questo diviene inutile includerli nella presente trattazione, che riguarda invece solo ed esclusivamente il metal. Basti solo dire che per gli illuminati Gathering l’espediente del doppio-album non è stato il frutto di sole manie di grandezza, ma semmai di una necessità dettata dalla volontà di sperimentare in diverse direzioni (si guardi alla title-track, viaggio cosmico di quasi mezzora di durata!) e di tessere pazientemente i contorni di una dimensione magica sospesa fra suggestioni oniriche ed introspezione.

Concludiamo questa anteprima ammettendo infine che non abbiamo ancora ascoltato “The Astonishing” dei Dream Theater, opera colossale rilasciata dalla band colossale per eccellenza. Ma da quel che abbiamo letto ed ascoltato qua e là ci sentiamo comunque di escludere con serenità l’ultima fatica discografica di Petrucci & Co., che non pare aggiungere molto a quanto i cinque alfieri del prog-metal abbiano combinato nelle decadi precedenti.

I dieci titoli che abbiamo individuato, infatti, non pretendono di essere i “migliori in assoluto”. Anzitutto perché in certi casi prevalgono ragioni di ordine soggettivo. Ma poi perché è stata una nostra scelta metodologica quella di non procedere nella direzione di una presunta “meritocrazia”: ciò avrebbe infatti significato limitarsi a quegli ambiti in cui il doppio album è più utilizzato e dunque meglio gestito (ossia nel prog e nel power). La ratio che invece ci ha mosso in questa selezione è stata, come al solito, quella di voler fornire una panoramica sufficientemente esaustiva sui vari sotto-generi del metal, in modo da andare a vedere come il metal stesso, attraverso le sue diverse forme e i suoi diversi approcci, con le sue vision e le sue mission, si sia cimentato nel concepimento e nell’edificazione del doppio-album.