Gli album-doppi
nel metal. Mi riallaccio al post che il nostro Doc ha redatto proprio su
questo tema: se l’esimio collega ha affrontato la questione con il suo
peculiare approccio espressionista, cogliendo incontestabili verità con la
penetrazione del genio visionario, io mi accingo a dare un complemento da "professorino" a quello
stesso scritto, fornendo uno sguardo d’insieme che vorrebbe affrontare in modo più canonico
l’argomento.
Prima
linea di demarcazione: concentriamoci su quelli che sono i "veri" album-doppi
del metal, andando ad escludere quelle opere che risultavano doppie per via
delle ristrettezze imposte dal supporto in vinile. Per noi i "veri" doppi sono quelli in cui la quantità del materiale travalica la capienza
massima del singolo CD (circa ottanta minuti) per riversarsi in ben due dischetti:
quelle durate che il nostro Doc chiamava “wagneriane”.
Nella
storia del rock si hanno sostanzialmente due situazioni in cui si rende
necessaria un’operazione del genere e queste due dimensioni sono esemplificate
perfettamente da due grandi classici: “The Wall” dei Pink Floyd e
il White Album dei Beatles. Nel primo caso si parla di concept,
nel secondo di un “disco mondo” in cui la band dispone di così
tanto materiale e si trova al contempo in uno stato di predisposizione tale da
sentirsi in grado di confezionare un lavoro colossale che, alla rinfusa e senza
limitazioni, sappia raccogliere tutte le energie creative di un momento artisticamente
così fecondo.
Entrambi
i casi presentano dei pro e dei contro. Nel caso del concept è innegabile
non riconoscere a questa tipologia di opera un fascino tutto suo dovuto al
fatto che i brani risultano collegati fra di loro da una “narrazione”, da temi
musicali ricorrenti e da un mood complessivo che li unifica. Se il
materiale a disposizione è buono, il prodotto finale è sicuramente di qualità
superiore, non solo per il fattore quantità, ma anche per l’innegabile
complessità che diviene necessaria per confezionare il tutto. Una complessità
che si riversa anche nella dimensione degli arrangiamenti e della produzione:
creare un’atmosfera, ambire a creare un contesto, una cornice per gli
accadimenti, richiede spesso escamotage (intermezzi, dialoghi ecc.) che
non sono indispensabili in una semplice raccolta di canzoni. E il più delle
volte diviene determinate una dotta regia a dare un’uniformità al concept:
regia che spesso è nella mani di abili produttori (sempre parlando di “The
Wall” è il caso di Bob Ezrin, la cui mano influirà pesantemente sul
risultato finale – se non ci si crede, si vada ad ascoltare “Berlin” di Lou
Reed, sempre seguito da Ezrin, e si noti come lo stile di un produttore
possa avvicinare artisti così lontani). Spesso a questo stato di cose segue un
folto dispiegamento di forze (ospiti, orchestre intere, cori ecc.). Ma nonostante
tutto questo, la buona riuscita non è da dare per scontata: spesso il rigore
dell’impianto concettuale può spingere l’artista a dover sacrificare l’aspetto
strettamente musicale o deviare artificialmente il libero flusso creativo per
farlo convergere nelle maglie di uno schema predefinito. Nel peggiore dei casi l’artista
poco ispirato può vedersi costretto a dover inserire riempitivi dallo scarso
mordente per giustificare il “lato concettuale” della faccenda.
Nel
caso di quello che abbiamo chiamato un “disco-mondo”, sfavillante
espressione dell’incontinenza comunicativa dell’artista, i rischi sono ancora
maggiori. Pensiamo sempre al White Album: all’epoca i Beatles erano oramai
un gruppo in piena disgregazione, lavoravano autonomamente ed altrettanto
autonomamente riversarono le loro canzoni in quel contenitore che già emergeva
come il ricettacolo delle varie carriere soliste. Nell’immediatezza della
creazione possono maturare frutti bellissimi, ma si possono anche combinare dei
grandi pasticci che, nell’esagitazione del momento, non si ha la cura di evitare.
Se nel concept la sfera razionale è il fattore che può indebolire
l’intera operazione, in questo caso il nemico principale diviene l’istinto. L’impresa
riesce se la maggior parte del materiale è passabile, cosicché diviene più facilmente
perdonabile l’inciampo: in quel caso beneficeremo del fatto di poter
abbracciare l’artista nella sua essenza, con i suoi pregi e con i suoi difetti,
nel bene e nel male, in un’anarchia creativa che sa toccare grandi picchi,
mentre le inevitabili cadute (che sono l’insopprimibile altra faccia della
medaglia) sono ammortizzate da un’ispirazione mediamente alta. In questi casi
il produttore dovrà affannarsi a mettere i pezzi insieme, e qui penso ad un affannato
e paziente George Martin (che voleva condensare il White Album in
un solo disco) alle prese con le bizze incontenibili dei Fab Four.
C'è
poi una terza categoria: quella degli album di estesa durata che sono
tali in quanto la tipologia di musica suonata richiede ampi spazi. È una
casistica che ricade principalmente in settori altri rispetto al rock, come per
esempio sono l'ambient, la cosmic music e certe forme di musica
classica temporanea (un esempio su tutti, "Cyborg" del
corriere cosmico Klaus Schulze: doppio album che si compone di solo
quattro composizioni che hanno una durata che oscilla fra i venti e i
venticinque minuti). Anche nel rock ovviamente ciò può accadere in ambiti
legati principalmente alla psichedelia o a sonorità post (si consideri il mastodontico "Lift your Skinny Fists like Antennas to Heaven"
dei post-rocker canadesi God Speed You! Black Emperor).
Nel
metal queste tre categorie vanno ovviamente declinate entro gli stilemi che
sono tipici del genere. Ma saprà il metal, con il suo bagaglio di
caratteristiche, rivaleggiare con i grandi della musica rock che proprio per
mezzo di quel “doppio formato” hanno edificato il tempio sontuoso del loro
stato di grazia? Come confrontarsi, senza impallidire, con album del
calibro dei già citati “The Wall” e White Album, o anche di un “Quadrophenia”
degli Who (manifesto generazionale di ribellione giovanile), di un “Physical
Graffiti” dei Led Zeppelin (autentico manuale di hard-rock/blues in tutte le sue forme), di
un “The Lamb Lies Down on Broadway” dei Genesis (non solo
monumento del progressive rock, ma anche trampolino di lancio per
l’avveniristica carriera solista di Peter Gabriel)?
Si è
visto nella nostra classifica sui migliori brani lunghi come il metal,
dal più nobile al più poverello, abbia ambito a ricoprire “lunghe distanze”. E
questa cosa vale ovviamente anche per la durata degli album: un esito da non dare
affatto per scontato, visto che il metal discende dal rock’n’roll, dall’hard-rock,
dal punk: generi fisici che fanno del brano breve e deciso il proprio standard.
Non ci stupiamo dunque se i primi album heavy metal mostravano una durata contenuta che generalmente oscillava fra i trentacinque e i
quarantacinque minuti. Avverrà solo in seguito che le band si azzarderanno a
nutrire il minutaggio dei propri lavori: ci vorrà infatti lo sviluppo del movimento
progressivo, di quello sinfonico e del post-hardcore (a
partire dagli anni novanta) per far sì che si dilateranno le durate dei brani e
quindi quelle degli album.
E
proprio i sottogeneri appena indicati, per ambizione, arroganza o semplice
necessità, sono i luoghi dove si è favorita la volontà di pianificare album di
lunga durata. In questi casi sarà molto frequente imbattersi in minutaggi
superiori all’ora, ma meno frequentemente sarà possibile imbattersi in veri e
propri album-doppi (salvo ovviamente il caso dei live-album,
per i quali quel tipo di formato è chiaramente il più congeniale). Il doppio album
inciso in studio rimane invece cosa assai rara, per questo abbiamo
deciso di estendere la nostra trattazione a quelle opere divise “in due parti” che
sono state pubblicate separatamente (in confezioni diverse, tanto per
intenderci), vuoi in contemporanea (in quelli che potremmo definire parti
gemellari, mono o eterozigoti che siano), vuoi in stretta successione, ma che
possiamo comunque concepire come un’unica incontestabile entità.
Decideremo
invece di escludere quei sequel che seguono di molti anni
l’uscita di opere originariamente concepite e realizzate in solitaria
(operazioni che spesso vengono effettuate furbescamente da band oramai alla
frutta che decidono di raschiare il fondo sfruttando i fasti di popolarità del
passato). Due esempi possono essere i Queensryche che nel 2006 decidono
di rilasciare la seconda parte di “Operation: Mindcrime” e gli Edge
of Sanity che nel 2003 fanno la stessa cosa per il loro capolavoro “Crimson”:
in entrambi i casi è ovvio che i due lavori, usciti a distanza di molti anni
fra di loro, e per giunta con formazioni differenti (addirittura nel caso degli
Edge of Sanity sarà il solo Dan Swano a curare il sequel), non
possono essere considerati come un’unica entità, sebbene il titolo sulla
copertina sia il medesimo.
Non
contempleremo nemmeno le “saghe”, ossia quei progetti ancora più complessi ed
estesi che annoverano ben più di due parti (i Saviour Machine di “Legion”,
mega-colossal biblico sulla fine del mondo originariamente concepito
come trilogia e poi ampliato e lasciato incompiuto; i Blut Aus Nord con il
trittico di album usciti con il titolo “777”,
che, almeno all’apparenza, non sembrano avere niente in comune se non forse dei
legami concettuali; i vari intricati ed intrecciati progetti della carriera
solista di quel pazzo di Devin Townsend): progetti sicuramente ben
architettati, ma che, come potrete capire, non possiamo considerare come album-doppi.
Ci è
inoltre dispiaciuto dover lasciare fuori dalla nostra lista il bel “How to Measure a Planet?” dei Gathering, del quale abbiamo già parlato nella
nostra rassegna sui migliori album non-metal fatti da band metal:
all’epoca (correva l’anno 1998) gli olandesi si erano oramai spostati
definitivamente sui territori della psichedelia, dello space-rock e persino del
pop d’autore, per questo diviene inutile includerli nella presente trattazione,
che riguarda invece solo ed esclusivamente il metal. Basti solo dire che per
gli illuminati Gathering l’espediente del doppio-album non è stato il frutto di
sole manie di grandezza, ma semmai di una necessità dettata dalla volontà di
sperimentare in diverse direzioni (si guardi alla title-track, viaggio
cosmico di quasi mezzora di durata!) e di tessere pazientemente i contorni di
una dimensione magica sospesa fra suggestioni oniriche ed introspezione.
Concludiamo
questa anteprima ammettendo infine che non abbiamo ancora ascoltato “The Astonishing” dei Dream Theater, opera colossale rilasciata dalla
band colossale per eccellenza. Ma da quel che abbiamo letto ed ascoltato
qua e là ci sentiamo comunque di escludere con serenità l’ultima fatica
discografica di Petrucci & Co., che non pare aggiungere molto a
quanto i cinque alfieri del prog-metal abbiano combinato nelle decadi
precedenti.
I dieci
titoli che abbiamo individuato, infatti, non pretendono di essere i
“migliori in assoluto”. Anzitutto perché in certi casi prevalgono ragioni di ordine
soggettivo. Ma poi perché è stata una nostra scelta metodologica quella di non
procedere nella direzione di una presunta “meritocrazia”: ciò avrebbe infatti significato
limitarsi a quegli ambiti in cui il doppio album è più utilizzato e dunque meglio
gestito (ossia nel prog e nel power). La ratio che invece ci ha mosso in questa
selezione è stata, come al solito, quella di voler fornire una panoramica sufficientemente
esaustiva sui vari sotto-generi del metal, in modo da andare a vedere
come il metal stesso, attraverso le sue diverse forme e i suoi diversi
approcci, con le sue vision e le sue mission, si sia cimentato
nel concepimento e nell’edificazione del doppio-album.