I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI '90)
1993: "DEMON BOX"
Mi ero ripromesso di non
parlarne. Di non inserirli in questa Rassegna. Perché è troppo, troppo
difficile dire qualcosa di organico su di loro. Della loro musica se ne potrebbe parlare per
decine di post. O all’opposto non dire nulla.
Me l'ero ripromesso perché sono pienamente consapevole
dell’enorme influsso che i Motorpsycho hanno avuto sulla mia anima musicale. Ne
sono stato da subito irrimediabilmente stregato, ammaliato. E quindi sono troppo "di parte" per scriverne obiettivamente.
E così me lo ero riproposto
categoricamente: “Per il 1993 NON scriverò sui Motorpsycho. Sarà l’anno dell’Italia! Lo dedicherò alla celebrazione
del thrash italiano!" Lo spazio sarà riservato agli Extrema che in quell’anno davano alle stampe il più che buono “Tension at the seams”; o magari agli In.Si.Dia. (è sempre del 1993 l’ottimo
“Istinto e Rabbia”).
E invece alla fine, eccomi qua. A
parlare dei Motorpsycho. Di questo folle trio norvegese. Folle e
controcorrente. Essere di Trondheim, suonare a inizio anni novanta e non essere
una black metal band è già qualcosa di originale. Ma se poi andiamo sui
contenuti musicali, beh…allora perdiamo completamente le coordinate e qualsiasi
punto di riferimento!
A cura di Morningrise
Già, perché…che cavolo suonano i
Motorpsycho??!! Boh, non ne ho idea.
Suonano metal i Motorpsycho? Non lo so!
Suonano quantomeno una specie di metal i Motorpsycho?? Ecchecazzo, non lo so!!!
Davvero! Aiutatemi…
Non esistono etichette, non
esistono definizioni minimamente idonee a definirli. Siamo in una dimensione
musicale particolare, a tratti leggiadra, sognante, dolce, bucolica…e capace
però nel breve volgere di un attimo di trasformarsi in una lacerante, brutale,
demoniaca…perché sotto l’apparenza tutto sommato innocua, i Motorpsycho fanno
sempre sottointendere una malignità e un’essenza insidiosa da far paura. Non da
meno dei loro conterranei blacksters coevi!
Ma guardate che diamine di
copertina per questo loro terza release! Una cover orribile, ok! Però
soffermatevi sull’espressione di quella sdentata nonnina, o su quella del viso dell’uomo alla sua sinistra…e ditemi se non vi corre un brivido lungo
la schiena! Una copertina inquietante, ambigua. Come la loro musica, appunto…
Proviamo ad addentrarci nei
meandri del disco, facendoci guidare dall’unica stella polare che ci può
rischiare quest’oscuro cammino: eclettismo. O “contaminazione”, la nostra
parola-guida che già avevamo identificato nell’Anteprima.
Per giustificare la scelta basterebbe dire che nei Motorpsycho
tutti suonano tutto: il mastermind Bent
Saether suona ogni tipo di strumento, così come “Snah”, alias Hans M. Ryan, un chitarrista, sì, ma
che aiuta il sound complessivo della band dandosi da fare anche con mandolino,
flauto, sitar e violino! E, tanto per non essere da meno, anche il batterista Hakon Gebhardt è un polistrumentista
capace di cimentarsi con percussioni, sei corde e svariate diavolerie
synth…
Forse i primi quattro pezzi di "Demon Box" sono
un esempio valido per dare un'idea di tutto l’andamento del platter: 1- “Waiting for the one”,
l’opener, sembra di trovarsi nella casa di campagna di un amico; un banjo e un
violino, intorno a un falò d’estate, accompagnano una chitarra acustica e un
cantato approssimativo, ma il calore che sa creare è un qualcosa di
difficilmente esprimibile…
2- l’intro di “Nothing to Say” è da
pelle d’oca, con la sua elettricità satura, distorta, piena, corposa, stonata,
riverberata; è il pezzo che i Nirvana avrebbero dovuto incidere dopo “Nevermind”, con la splendida voce adolescenziale di Bent Saether che assomiglia a
quella di Dave Pirner, singer dei
mitici Soul Asylum.
3- “Feedtime” invece è quasi
nu-metal, con urla belluine post-hardcore che ci salutano prima che gli
strumenti entrino in gioco in un’orgia sonora che tramortisce…probabilmente il
pezzo più duro del lotto. Notevolissima anch’essa.
4- e infine “Sunchild” a metà
tra hard core e grunge, tira fuori quel sound sporco, grezzo, da garage, dove
Saether si diletta anche in uno stonato assolo.
E il resto? Ballate acustiche
(“Tuesday morning”, “Come on in”, “Junior”), rimandi shoegaze (la sensazionale
“Plan #1”), litanie oscure (“All is loneliness”), squarci punk/metal (“Babylon”,
“Sheer profundity”) e minimali esperimenti pinkfloydiani (“Step inside again”).
Come spiegare poi i diciassette (17!!) minuti della title-track? Molto difficile, essendo un mix di tutti gli elementi succitati. La prima parte consta di suoni pastosi, con feedback pazzeschi, prima che un’elettricità oscura deflagri cavalcante in un mid-tempo quasi sludge e nel quale Gebhardt pesta come un ossesso il suo strumento e la voce di Bent pare quella di un Cobain in acido…
Quando il pezzo sembra essere finito, dopo circa sei minuti e mezzo, ci ritroviamo invece in un incubo noise vero e proprio. Un pulsante basso in sottofondo a ripetere le stesse quattro note ad libitum, mentre al di sopra rumori industriali, fischi, riverberi , ci scarica un livello di parossistica inquietudine davvero insostenibile…5 minuti che sembrano non avere mai fine (che avrei visto bene inseriti nel capolavoro dei Sunn O))) "Flight of the Behemoth", ma con quasi dieci anni di anticipo!), una sorta di inferno cacofonico capace di trasmettere un’inquietudine massima …poi i rintocchi lugubri di una campana a farci presagire il cambiamento, che in effetti arriva repentino con squarci elettrici supportati da una batteria tribale in stato di grazia. Si torna nel finale al motivo iniziale, portando a compimento un viaggio circolare dal quale si esce esausti…
Una circolarità ribadita più avanti con la conclusiva “The one who went away” che non è altro che l’iniziale “Waiting for the one” rifatta in versione plugged.
Stoner, metal, grunge, hardcore, punk, shoegaze, psychedelic rock, ecc.: un maelstrom di suoni e
sperimentazioni senza paraocchi o barriere di qualsivoglia genere! Ogni pezzo
andrebbe analizzato per quanto riesce a “dire” e a “suscitare”. Nulla è banale
in questi 72’, nulla è fuori posto. Anche se ciò lo si capisce dopo svariati ascolti, perché
alla prima invece sembra essere TUTTO
fuori posto! Niente sembra avere senso o logica, perché pare di saltare “di
palo in frasca” a ogni passaggio di traccia.
E invece i Nostri riescono a
domare questo fumante calderone delle più svariate sonorità, non scadendo mai
nella dispersione, e colmando gli
interstizi con passione e soprattutto potenza, sia strumentale che
visionaria. Una potenza satura, distorta, riverberata, sporca.
Quanto cuore, quanta emozione che sanno
regalare i Motorpsycho! Non saranno dei mostri di tecnica, qualcuno potrà
tacciarli di fare una musica “povera”, di essere “grezzi” & sporchi”, ma
quest’atteggiamento indie, fai-da-te, amatoriale, è solo uno specchietto per le
allodole perché sotto c’è tanta, tanta professionalità, tanta ispirazione e
attenzione ai dettagli. Un disco capace di stupire ad ogni ascolto, di rivelare
piano piano mille e mille sfaccettature diverse.
I Motorpsycho sapranno
confermarsi con altri dischi sensazionali negli anni successivi ma rimarranno
un gruppo cult underground, di nicchia, nonostante DB ebbe un notevole successo
in patria, tanto da spalancare le porte del mercato europeo a questi ragazzi
24enni (tutti i membri dell’epoca sono coetanei, classe ’69).
Di "nicchia" quindi, ma con uno
zoccolo duro di fan fedeli e devoti. E come avrete capito io sono uno di questi!