17 set 2016

DIECI ALBUM (PIU' UNO) PER CAPIRE IL FOLK APOCALITTICO: ROME, "DIE AESTHETIK DER HERRSCHAFTS-FREIHEIT"



Decima puntata: Rome

La nostra rassegna non si conclude con un personaggio a caso: Jerome Reuter, in arte Rome, è l'ultimo grande autore germogliato e fiorito nella galassia del folk apocalittico.


Quello che lui ha e che gli altri non hanno, detto in poche parole, è una sensibilità che lo avvicina più al mondo del cantautorato (Leonard Cohen, Tom Waits, Nick Cave sono indicati fra le maggiori fonti di ispirazione) che al neo-folk in senso stretto, sebbene i Death in June del maestro ispiratore Douglas Pearce rimangano centrali nella visione artistica di Reuter.

Il progetto ha origini in Lussemburgo ed è relativamente giovane (la fondazione risale appena al 2005; il primo full-lenght verrà licenziato l'anno successivo). Tuttavia il Nostro si è dimostrato particolarmente prolifico, tanto da sapersi presentare (e sempre con lavori di grande qualità) sul mercato discografico almeno una volta all'anno. I fan dei Rome, ad oggi, possono dunque deliziarsi con un bel po' di dischetti.

"Nera" (2006), "Confessions d'un Voleur d'Ames" (2007), "Masse Mensch Material" (2008) modellano la materia pearciana in un crescendo di perfezione formale e definizione di identità: Rome è un'entità ispirata e lo si capisce dalle sue primissime mosse, benché il progetto si muova fra le classiche ballate à la Death in June e un industrial marziale in stile Der Blutharsch. Ma la voce profonda, là sensibilità raffinata di Retuer, gli umori delicati e struggenti della sua musica affondano le radici nel cantautorato più nobile.

La svolta definitiva si avrà con l'accoppiata "Flowers from Exile" (2009) e "Nos Chants Perdus" (2010). Il primo (luminoso ed evocante l'assolata Spagna della guerra civile) e il secondo (intimo e notturno, ambientato nella Francia occupata dai Nazisti) sono due facce della stessa medaglia, costituendo due concept a sfondo storico sul tema della Resistenza: opere della maturità che allontaneranno il Nostro dagli stilemi classici del folk apocalittico per avvicinarlo al cantautorato tout court. Ma evidentemente il viaggio attraverso le piaghe dello scorso secolo per Reuter non si è esaurito nel corso di soli due album e, stimolato dal gran lavoro di ricerca e documentazione svolto per essi, e dunque spinto da una rinnovata urgenza comunicativa, il Nostro si è visto costretto a tornare sul tema: uno sfogo lungo tre album, trentasei nuovi brani, centocinquanta minuti di musica.

Signore e signori: "Die Aesthetik der Herrschafts-Freiheit", "opera mondo", poliglotta, universale, dalle titaniche dimensioni (è un trittico di album: "Aufbruch - A Cross of Wheat", "Aufrhur - A Cross of Fire" e "Aufgabe - A Cross of Flowers") che ha visto la luce nel 2011 nelle vesti di un cofanetto distribuito in edizione ultra-limitata, e che solo l'anno successivo ha goduto di una diffusione ordinaria (tre cd in versione digipack acquistabili separatamente).

Il tutto trae ispirazione da "L'Estetica della Resistenza" di Peter Weiss (scrittore, drammaturgo e pittore tedesco), opera in tre tomi che delinea lo schema su cui si sviluppa il lavoro di Reuter, il quale arricchirà il discorso con innumerevoli contributi (Brecht, Neruda, Nietzsche, Russel i nomi più noti), andando a scrivere una dei capitoli più imponenti ed ambiziosi della storia del folk apocalittico.

L'attività dell'infaticabile Reuter, ritirato nella quiete chiarificatrice della campagna belga nella casa dell'amico e produttore Duke Baudhuin, è stata spossante: la notte era dedicata alla composizione, la mattina alla registrazione di chitarre e percussioni. Un paio di ore per dormire e poi, dopo pranzo, veniva inciso tutto il resto. La sera, infine, giungeva quel momento di lucidità per giudicare se il prodotto era buono o da cestinare: una canzone dopo l'altra, fino alla fine, in perfetta solitudine.

La separazione con il produttore storico Patrick Damiani (che aveva influito significativamente sugli esiti dei recenti capolavori dei Rome) porta linfa vitale al processo creativo di Reuter, la cui musica rischiava di ingessarsi nei cliché della visione artistica di Damiani, nei suoi arrangiamenti elaborati. Reuter dunque, salvo le spoken part affidare a Ruper Kraushofer, si farà carico di tutto, musica e parti vocali. E il suo neo-folk tornerà al minimalismo dei primi lavori, scontrandosi nuovamente con le spigolosità della musica industriale, ma alla luce della maturità compositiva, artistica e personale raggiunta nel frattempo. E soprattutto evitando l'utilizzo di strumentazione analogica e troppi ripensamenti in sede di arrangiamento e post-produzione, cosicché il risultato va a rilucere dell'immediatezza di una ispirazione travolgente.

"Die Aesthetik..." è dunque un capolavoro, non solo per i contenuti e per la mole, ma anche e soprattutto per il concept, il quale si basa su una sofferta rilettura della Storia recente: una visione trasversale (che travalica miopi e settarie posizioni ideologiche) in cui il concetto di resistenza viene analizzato nelle sue complesse interconnessioni con le sfere della politica, dell'economia e della dimensione sociale, in un'ottica utopica secondo cui, in fondo ad un oscuro tunnel di sofferenza ed insensatezza, sembrano brillare le componenti positive della natura umana, i rapporti di altruismo e di solidarietà che pure sopravvivono alle barbarie.

Il "piccolo" Reuter, dunque, con la sua sensibilità e le sue capacità analitiche, supera l'intera scena creando, seppur attraverso un medium espressivo altamente drammatico, un sogno che non significa solo guardare con nostalgia al passato, ma che è anche un atto di rivolta, un monito per il futuro e la proiezione di un nuovo ordine da instaurare (una proiezione, ahimè, dalla lunga gittata che scavalca l'indolente presente, gettandosi oltre il lasso di tempo in cui potrebbe ragionevolmente ricadere la nostra esistenza). Una nobiltà di intenti che innalza il ruolo dell'artista all'interno del fluire incomprensibile dell'umano divenire, un ruolo che viene ben esplicitato nella frase che campeggia nel retro della copertina di tutti e tre gli album: "Art holds a unity that hystory does not".

L'impresa è grandiosa, ma Reuter continua a costruire la sua arte con semplicità: i suoi brani sono ancora brevi e solo nelle parentesi ambientali (dalla funzione contestualizzante) egli indugia qualche minuto in più. Il cantautorato del Nostro, settato sul classico binomio voce/chitarra acustica, viene qua rinvigorito dal battito marziale delle percussioni, là scombussolato dal "caos della Storia": un ribollire di voci e testimonianze che si accavallano, un "luogo psichico" dove le cicatrici del passato si riaprono e dal cuore sanguinante dell'umanità sgorgano immagini confuse e deliranti.

In mezzo a tutto questo, si eleva ferma ed autorevole la voce di Jerome Reuter, provetto Douglas Pearce del terzo millennio, abilmente diviso fra malinconiche ballate, scorie industriali che evidenziano la componente più aspra e declamatoria del progetto e sonorità dark-wave, se vogliamo più digeribili, ma che con la loro "orecchiabilita'" non vanno certo a ledere un quadro fatto di drammi inenarrabili.

"Aufbruch - A Cross of Wheat", "Aufrhur - A Cross of Fire" e "Aufgabe - A Cross of Flowers" sono la sofferenza, l'impeto che porta alla ribellione, il seme della rivolta e poi lo sviluppo delle correnti filosofiche e delle ideologie, l'esplosione delle guerre, l'affermarsi dei totalitarismi ed infine l'utopia, il miraggio di un mondo nuovo di libertà e solidarietà dove trionfano l'auto-affermazione e la dedizione all'estetica morale. Impossibile descrivere a parole le emozioni che suscita questo complesso di cose: un colossale mosaico dove tutti gli elementi della poetica reuteriana trovano felice collocazione, vuoi nelle fasi più cruente, vuoi nei momenti più introspettivi che ne sono la necessaria e mitigatrice controparte.

L'ultimo grande capolavoro del folk apocalittico porta impressa la firma di Jerome Reuter e dei suoi Rome, ma la "lotta" senza posa dell'apolide Reuter, alla stregua di un eroe hemingwayano, continuerà altrove con altri pregevoli lavori: prima contro il Capitale e le nevrosi delle società a "capitalismo avanzato" in "Hell Money" (2012), poi in Africa con l'ispirato (ed ancora una volta capolavoro) "A Passage to Rhodesia" (2014). Dell'ultimo "The Hyperion Machine", uscito proprio in questi giorni, non sappiamo dirvi ancora nulla, ma siamo certi che si tratterà dell'ennesimo bellissimo e coinvolgente album dei Rome.

Discografia essenziale:
"Nera" (2006)
"Confessions d'un Voleur d'Ames" (2007)
"Masse Mensche Material" (2008)
"Flowers from Exile" (2009)
"Nos Chants Perdus" (2010)
"Die Aesthetik der Herrshafts-Freiheit" (2011)
"A Passage to Rhodesia" (2014)