Decima
puntata: Rome
La nostra
rassegna non si conclude con un personaggio a caso: Jerome
Reuter, in arte Rome, è l'ultimo grande autore
germogliato e fiorito nella galassia del folk apocalittico.
Quello che
lui ha e che gli altri non hanno, detto in poche parole, è una
sensibilità che lo avvicina più al mondo del cantautorato
(Leonard Cohen, Tom Waits, Nick Cave sono
indicati fra le maggiori fonti di ispirazione) che al neo-folk in
senso stretto, sebbene i Death in June del maestro ispiratore
Douglas Pearce rimangano centrali nella visione artistica di
Reuter.
Il progetto
ha origini in Lussemburgo ed è relativamente giovane (la fondazione
risale appena al 2005; il primo full-lenght verrà licenziato
l'anno successivo). Tuttavia il Nostro si è dimostrato
particolarmente prolifico, tanto da sapersi presentare (e sempre con
lavori di grande qualità) sul mercato discografico almeno una volta
all'anno. I fan dei Rome, ad oggi, possono dunque deliziarsi con un
bel po' di dischetti.
"Nera"
(2006), "Confessions d'un Voleur d'Ames" (2007),
"Masse Mensch Material" (2008) modellano la materia
pearciana in un crescendo di perfezione formale e definizione
di identità: Rome è un'entità ispirata e lo si capisce dalle sue
primissime mosse, benché il progetto si muova fra le classiche
ballate à la Death in June e un industrial marziale in
stile Der Blutharsch. Ma la voce profonda, là sensibilità
raffinata di Retuer, gli umori delicati e struggenti della sua musica
affondano le radici nel cantautorato più nobile.
La svolta
definitiva si avrà con l'accoppiata "Flowers from Exile"
(2009) e "Nos Chants Perdus" (2010). Il primo
(luminoso ed evocante l'assolata Spagna della guerra civile) e il
secondo (intimo e notturno, ambientato nella Francia occupata dai
Nazisti) sono due facce della stessa medaglia, costituendo due
concept a sfondo
storico sul tema della Resistenza:
opere della maturità che allontaneranno il Nostro dagli stilemi
classici del folk apocalittico per avvicinarlo al cantautorato tout
court. Ma evidentemente il viaggio attraverso le piaghe dello
scorso secolo per Reuter non si è esaurito nel corso di soli due
album e, stimolato dal gran lavoro di ricerca e documentazione svolto
per essi, e dunque spinto da una rinnovata urgenza comunicativa, il
Nostro si è visto costretto a tornare sul tema: uno sfogo lungo tre
album, trentasei nuovi brani, centocinquanta minuti di
musica.
Signore e
signori: "Die Aesthetik der Herrschafts-Freiheit",
"opera mondo", poliglotta, universale, dalle titaniche
dimensioni (è un trittico di album: "Aufbruch - A Cross of
Wheat", "Aufrhur - A Cross of Fire" e
"Aufgabe - A Cross of Flowers") che ha visto la luce
nel 2011 nelle vesti di un cofanetto distribuito in edizione
ultra-limitata, e che solo l'anno successivo ha goduto di una
diffusione ordinaria (tre cd in versione digipack acquistabili
separatamente).
Il tutto
trae ispirazione da "L'Estetica della Resistenza" di
Peter Weiss (scrittore, drammaturgo e pittore tedesco), opera
in tre tomi che delinea lo schema su cui si sviluppa il lavoro di
Reuter, il quale arricchirà il discorso con innumerevoli contributi
(Brecht, Neruda, Nietzsche, Russel i nomi
più noti), andando a scrivere una dei capitoli più imponenti ed
ambiziosi della storia del folk apocalittico.
L'attività
dell'infaticabile Reuter, ritirato nella quiete chiarificatrice della
campagna belga nella casa dell'amico e produttore Duke Baudhuin,
è stata spossante: la notte era dedicata alla composizione, la
mattina alla registrazione di chitarre e percussioni. Un paio di ore
per dormire e poi, dopo pranzo, veniva inciso tutto il resto. La
sera, infine, giungeva quel momento di lucidità per giudicare se il
prodotto era buono o da cestinare: una canzone dopo l'altra, fino
alla fine, in perfetta solitudine.
La
separazione con il produttore storico Patrick Damiani (che
aveva influito significativamente sugli esiti dei recenti capolavori
dei Rome) porta linfa vitale al processo creativo di Reuter, la cui
musica rischiava di ingessarsi nei cliché della visione
artistica di Damiani, nei suoi arrangiamenti elaborati. Reuter
dunque, salvo le spoken part affidare a Ruper Kraushofer,
si farà carico di tutto, musica e parti vocali. E il suo neo-folk
tornerà al minimalismo dei primi lavori, scontrandosi nuovamente con
le spigolosità della musica industriale, ma alla luce della maturità
compositiva, artistica e personale raggiunta nel frattempo. E
soprattutto evitando l'utilizzo di strumentazione analogica e troppi
ripensamenti in sede di arrangiamento e post-produzione, cosicché il
risultato va a rilucere dell'immediatezza di una ispirazione
travolgente.
"Die
Aesthetik..." è dunque un capolavoro, non solo per i contenuti
e per la mole, ma anche e soprattutto per il concept,
il quale si basa su una sofferta rilettura della Storia recente:
una visione trasversale (che travalica miopi e settarie posizioni
ideologiche) in cui il concetto di resistenza viene analizzato
nelle sue complesse interconnessioni con le sfere della politica,
dell'economia e della dimensione sociale, in un'ottica utopica
secondo cui, in fondo ad un oscuro tunnel di sofferenza ed
insensatezza, sembrano brillare le componenti positive della natura
umana, i rapporti di altruismo e di solidarietà che pure
sopravvivono alle barbarie.
Il "piccolo"
Reuter, dunque, con la sua sensibilità e le sue capacità
analitiche, supera l'intera scena creando, seppur attraverso un
medium espressivo altamente drammatico, un sogno che non significa
solo guardare con nostalgia al passato, ma che è anche un atto di
rivolta, un monito per il futuro e la proiezione di un nuovo ordine
da instaurare (una proiezione, ahimè, dalla lunga gittata che
scavalca l'indolente presente, gettandosi oltre il lasso di tempo in
cui potrebbe ragionevolmente ricadere la nostra esistenza). Una
nobiltà di intenti che innalza il ruolo dell'artista
all'interno del fluire incomprensibile dell'umano divenire, un ruolo
che viene ben esplicitato nella frase che campeggia nel retro della
copertina di tutti e tre gli album: "Art holds a unity that
hystory does not".
L'impresa è
grandiosa, ma Reuter continua a costruire la sua arte con semplicità:
i suoi brani sono ancora brevi e solo nelle parentesi ambientali
(dalla funzione contestualizzante) egli indugia qualche minuto in
più. Il cantautorato del Nostro, settato sul classico binomio
voce/chitarra acustica, viene qua rinvigorito dal battito
marziale delle percussioni, là scombussolato dal "caos della
Storia": un ribollire di voci e testimonianze che si
accavallano, un "luogo psichico" dove le cicatrici
del passato si riaprono e dal cuore sanguinante dell'umanità
sgorgano immagini confuse e deliranti.
In mezzo a
tutto questo, si eleva ferma ed autorevole la voce di Jerome Reuter,
provetto Douglas Pearce del terzo millennio, abilmente diviso
fra malinconiche ballate, scorie industriali
che evidenziano la componente più aspra e declamatoria del progetto
e sonorità dark-wave, se vogliamo più digeribili, ma che con
la loro "orecchiabilita'" non vanno certo a ledere un
quadro fatto di drammi inenarrabili.
"Aufbruch
- A Cross of Wheat", "Aufrhur - A Cross of Fire" e
"Aufgabe - A Cross of Flowers" sono la sofferenza, l'impeto
che porta alla ribellione, il seme della rivolta e poi lo sviluppo
delle correnti filosofiche e delle ideologie, l'esplosione delle
guerre, l'affermarsi dei totalitarismi ed infine l'utopia, il
miraggio di un mondo nuovo di libertà e solidarietà dove trionfano
l'auto-affermazione e la dedizione all'estetica morale.
Impossibile descrivere a parole le emozioni che suscita questo
complesso di cose: un colossale mosaico dove tutti gli elementi della
poetica reuteriana trovano felice collocazione, vuoi nelle
fasi più cruente, vuoi nei momenti più introspettivi che ne sono la
necessaria e mitigatrice controparte.
L'ultimo
grande capolavoro del folk apocalittico porta impressa la firma
di Jerome Reuter e dei suoi Rome, ma la "lotta" senza posa
dell'apolide Reuter, alla stregua di un eroe hemingwayano,
continuerà altrove con altri pregevoli lavori: prima contro il
Capitale e le nevrosi delle società a "capitalismo
avanzato" in "Hell Money" (2012), poi in Africa
con l'ispirato (ed ancora una volta capolavoro) "A Passage to
Rhodesia" (2014). Dell'ultimo "The Hyperion
Machine", uscito proprio in questi giorni, non sappiamo
dirvi ancora nulla, ma siamo certi che si tratterà dell'ennesimo
bellissimo e coinvolgente album dei Rome.
Discografia
essenziale:
"Nera"
(2006)
"Confessions
d'un Voleur d'Ames" (2007)
"Masse
Mensche Material" (2008)
"Flowers
from Exile" (2009)
"Nos
Chants Perdus" (2010)
"Die
Aesthetik der Herrshafts-Freiheit" (2011)
"A
Passage to Rhodesia" (2014)