5 set 2016

SHORT STORIES: "POISON" - ALICE COOPER (e io mi commuovo...)




Una serata a casa di gente, una TV che trasmette video che in realtà sono l'emanazione di oscure playlist comandate da telefoni cellulari. La padrona di casa si definisce una rocker, ma per adesso si è visto solo un lentone strappalacrime targato Whitesnake, con tanto di Coverdale sull’orlo di una crisi di nervi per via di una bellissima modella che nella vita pare essere stata pure sua moglie (accidenti a lui!).

Sarà perché in questo periodo sono fragile, o perché quella sera ero ubriaco, o perché un momento prima la gente aveva cantato in coro "Killing Me Softly" dei Fugees, fatto sta che quando sento l'attacco del riff iniziale di "Poison" e vedo il faccione grinzoso di Alice Cooper mi commuovo.

Alice, Alice mio, quanto poco hai fatto parte della mia vita, eppure eccoti qua come il più intimo degli amici a soccorrermi nel momento del bisogno. Primo: a me Alice Cooper fa tanta tanta simpatia. Secondo: non è che poi la disprezzi la sua musica, anzi. Se mi è capitato di ascoltarla (non spessissimo a dire il vero), posso dire di esserne rimasto sempre molto soddisfatto. Ed anzi, proprio album come "Trash" (dove è contenuta la sopra menzionata "Poison") e "Hey Stooped" son quelli che mi hanno sempre lasciato perplessi, per le sonorità sfacciatamente commerciali e per i suoni un po' di plastica.

Quanto abbiamo disprezzato l'hair metal, il pop metal, il pomp rock e l'A.O.R.. E quanto ci abbiamo goduto quando tutto questo universo di capelloni cotonati è stato spazzato via dal fenomeno grunge all'inizio degli anni novanta. E veder così relegato l'intero baraccone nel posto che più gli competeva: ossia in cofanetti di cd-compilation reclamizzati a notte fonda fra uno spot porno e l'altro, e messi in commercio a €9.9.

Vedere il video di "Poison", con i musicisti ingioiellati ed imbandanati, con l’Alicione al centro che sventola il bastone sul trono del coglione e con la modella mezza svestita che gli ronza intorno, e pensare che pochi anni dopo i video delle rock band avrebbero avuto come protagonisti ragazzi bruttini in T-shirt, camicia a quadri e con ciuffi di capelli sulla faccia, può suscitare riflessioni interessanti.

La prima è che il mondo del rocker classico, figlio di quel filone che si è originato nella filosofia "sex, drug & rock'n'roll", per poi rafforzarsi nei settanta con l'hard-rock ed incartapecorirsi con l'heavy metal negli ottanta, è un mondo di certezze. Lo si capisce dai dettagli: dal batterista, per esempio, che fra una battuta e l'altra lancia la bacchetta roteante e la riprende al volo.

Ci credo che il rocker puro non ce l'ha fatta a convertirsi alle paturnie post-adolescenziali degli artisti grunge: perché rinunciare a quel mondo di certezze fatto di uomini vincenti, di belle donne, di una virilità ostentata dove l'unica sofferenza ammessa era quella dell'amore non ricambiato? Il risultato però non è stato sociologicamente edificante: il rocker sarà costretto a pagare il dazio dell'anacronismo, rimanendo relegato in un mondo autoreferenziale che conserva ben pochi contatti con quello reale, dal quale è visto come qualcosa di bizzarro e molto spesso ridicolo. Il rock non morirà, ma terrà conto di questi cambiamenti, sganciandosi dall'universo glam e riappropriandosi dell'immediatezza garage e dell'inesauribile serbatoio di visioni, idee, attitudini sabbathiane.

Ed Alice Cooper? Alice Cooper, che ai tempi di "Trash" aveva già quarantuno anni ed un bel curriculum, fa storia a sé. Attivo già dalla seconda metà degli anni sessanta, pupillo di Frank Zappa, artista istrionico che fece della sua particolare visione artistica un genere a sé stante (lo shock rock) e che vanta una infinità di proseliti fra il rock e il metal (dai Kiss a Marylin Manson passando per i Mercyful Fate), è stato spesso infilato nel filone glam, pur incastrandoci ben poco.

La sua macabra e provocatoria teatralità ha fatto scuola ed album come "School's Out", "Billion Dollar Babies" e "Welcome to my Nightmare" dovrebbero essere oggetti presenti nella casa di chiunque si ritenga un appassionato della musica rock. Eppure per il Nostro gli anni ottanta furono un periodo di crisi, artistica e personale (per problemi legati soprattutto all'alcool). Per questo, una volta ripulito, si è messo come un infante nelle mani di Desmond Child, che a sua volta lo ha circondato dei soliti Bon Jovi, Sambora, Tyler, Perry e Lukather, e ha rilanciato la sua immagine con uno dei lavori più commerciali mai usciti sotto l’etichetta Alice Cooper: "Trash".

Basti pensare che il chitarrista John McCurry era un turnista che vantava trascorsi con Cher e Cindy Lauper. Ma del resto McCurry è un professionista, uno che su richiesta (si vada appunto a risentire “Poison”) ti sfodera un assolo da manuale lungo sette secondi, per non togliere troppo spazio alla figura di Alice Cooper (il chitarrista si rifarà in chiusura di canzone, dove fra cori e  berci assortiti, sparerà un altro assolo di gran classe, ricordandomi non poco certi passaggi dei Death SS (altri fan dichiarati di Alice Cooper), in particolare quelli di "Heavy Demons", che sarebbe uscito di lì a poco).

E Desmond è un volpone di prima cartella che ti confeziona l'album giusto al momento giusto, con i suoni giusti, e il formato canzone seduto sul trono del ritornello catchy e di facile presa, a scapito dei guizzi teatrali e gli spunti progressivi di una volta.

Da notare l'ipocrisia del video di "Poison" in cui non compare mai il tastierista (sebbene nel brano vi siano dei ricami di tastiere), il quale viene prontamente rimpiazzato da un secondo chitarrista (quando invece le parti di chitarra sono state incise dal solo McCurry). Ma del resto erano gli anni di gloria di Aerosmith, Bon Jovi e Guns N' Roses, e bisognava apparire più fighi e più rocker possibile. Si tentò persino di imbellire lo stesso Alice Cooper che, senza il suo proverbiale make-up e dopo un trattamento di urgenza dall'estetista, sembrava una imbarazzante via di mezzo fra Macchia Nera senza maschera e Martufello.

Eppure ci piace "Trash" e il suo singolo di lancio “Poison”, sebbene non siano lontanamente paragonabili ai capolavori del passato. Quei suoni laccati, quel chitarrismo elegante che ricorda a tratti Randy Rhoads (il Dio del Metallo mi fulmini per la bestemmia!), quella voce raschiante che non si abbandona più a chissà quali voli pindarici, ma che crea un bel contrasto: insomma, ci piace, ci piace tutto questo, perché cresciuti nel disagio dell'era grunge e poi invecchiati negli apocalittici anni zero, sentiamo un po' di nostalgia per un periodo di sicurezze che non avremo più (si stava meglio quando si stava peggio?). E in questi tempo duri un po' di calore emanato dai ricordi e gli umori di una fase storica irripetibile (che abbiamo appena avuto modo di intravedere) tanto schifo non ci fa...