Una serata a casa di gente,
una TV che trasmette video che in realtà sono l'emanazione di oscure playlist
comandate da telefoni cellulari. La padrona di casa si definisce una rocker,
ma per adesso si è visto solo un lentone strappalacrime targato Whitesnake,
con tanto di Coverdale sull’orlo di una crisi di nervi per via di
una bellissima modella che nella vita pare essere stata pure sua moglie (accidenti
a lui!).
Sarà perché in questo periodo
sono fragile, o perché quella sera ero ubriaco, o perché un momento prima la
gente aveva cantato in coro "Killing Me Softly" dei Fugees,
fatto sta che quando sento l'attacco del riff iniziale di "Poison"
e vedo il faccione grinzoso di Alice Cooper mi commuovo.
Alice, Alice mio, quanto poco hai fatto parte
della mia vita, eppure eccoti qua come il più intimo degli amici a soccorrermi
nel momento del bisogno. Primo: a me Alice Cooper fa tanta tanta simpatia.
Secondo: non è che poi la disprezzi la sua musica, anzi. Se mi è capitato di
ascoltarla (non spessissimo a dire il vero), posso dire di esserne rimasto
sempre molto soddisfatto. Ed anzi, proprio album come "Trash"
(dove è contenuta la sopra menzionata "Poison") e "Hey
Stooped" son quelli che mi hanno sempre lasciato perplessi, per le
sonorità sfacciatamente commerciali e per i suoni un po' di plastica.
Quanto abbiamo disprezzato l'hair
metal, il pop metal, il pomp rock e l'A.O.R.. E quanto
ci abbiamo goduto quando tutto questo universo di capelloni cotonati è stato
spazzato via dal fenomeno grunge all'inizio degli anni novanta. E veder così
relegato l'intero baraccone nel posto che più gli competeva: ossia in cofanetti
di cd-compilation reclamizzati a notte fonda fra uno spot porno e l'altro,
e messi in commercio a €9.9.
Vedere il video di
"Poison", con i musicisti ingioiellati ed imbandanati, con l’Alicione
al centro che sventola il bastone sul trono del coglione e con la
modella mezza svestita che gli ronza intorno, e pensare che pochi anni dopo i
video delle rock band avrebbero avuto come protagonisti ragazzi bruttini in T-shirt,
camicia a quadri e con ciuffi di capelli sulla faccia, può suscitare
riflessioni interessanti.
La prima è che il mondo del rocker
classico, figlio di quel filone che si è originato nella filosofia
"sex, drug & rock'n'roll", per poi rafforzarsi nei
settanta con l'hard-rock ed incartapecorirsi con l'heavy metal negli
ottanta, è un mondo di certezze. Lo si capisce dai dettagli: dal batterista,
per esempio, che fra una battuta e l'altra lancia la bacchetta roteante e la
riprende al volo.
Ci credo che il rocker puro
non ce l'ha fatta a convertirsi alle paturnie post-adolescenziali degli artisti
grunge: perché rinunciare a quel mondo di certezze fatto di uomini vincenti,
di belle donne, di una virilità ostentata dove l'unica sofferenza ammessa era
quella dell'amore non ricambiato? Il risultato però non è stato
sociologicamente edificante: il rocker sarà costretto a pagare il dazio
dell'anacronismo, rimanendo relegato in un mondo autoreferenziale che
conserva ben pochi contatti con quello reale, dal quale è visto come qualcosa
di bizzarro e molto spesso ridicolo. Il rock non morirà, ma terrà conto di
questi cambiamenti, sganciandosi dall'universo glam e riappropriandosi
dell'immediatezza garage e dell'inesauribile serbatoio di visioni, idee, attitudini
sabbathiane.
Ed Alice Cooper? Alice Cooper, che ai tempi
di "Trash" aveva già quarantuno anni ed un bel curriculum, fa storia
a sé. Attivo già dalla seconda metà degli anni sessanta, pupillo di Frank
Zappa, artista istrionico che fece della sua particolare visione artistica
un genere a sé stante (lo shock rock) e che vanta una infinità di
proseliti fra il rock e il metal (dai Kiss a Marylin Manson
passando per i Mercyful Fate), è stato spesso infilato nel filone glam,
pur incastrandoci ben poco.
La sua macabra e provocatoria
teatralità ha fatto scuola ed album come "School's Out",
"Billion Dollar Babies" e "Welcome to my Nightmare"
dovrebbero essere oggetti presenti nella casa di chiunque si ritenga un
appassionato della musica rock. Eppure per il Nostro gli anni ottanta furono un
periodo di crisi, artistica e personale (per problemi legati soprattutto
all'alcool). Per questo, una volta ripulito, si è messo come un infante nelle
mani di Desmond Child, che a sua volta lo ha circondato dei soliti Bon
Jovi, Sambora, Tyler, Perry e Lukather, e ha
rilanciato la sua immagine con uno dei lavori più commerciali mai usciti sotto
l’etichetta Alice Cooper: "Trash".
Basti pensare che il
chitarrista John McCurry era un turnista che vantava trascorsi con Cher
e Cindy Lauper. Ma del resto McCurry è un professionista, uno che su
richiesta (si vada appunto a risentire “Poison”) ti sfodera un assolo da
manuale lungo sette secondi, per non togliere troppo spazio alla figura di
Alice Cooper (il chitarrista si rifarà in chiusura di canzone, dove fra cori
e berci assortiti, sparerà un altro
assolo di gran classe, ricordandomi non poco certi passaggi dei Death SS
(altri fan dichiarati di Alice Cooper), in particolare quelli di "Heavy
Demons", che sarebbe uscito di lì a poco).
E Desmond è un volpone di
prima cartella che ti confeziona l'album giusto al momento giusto, con i suoni
giusti, e il formato canzone seduto sul trono del ritornello catchy e di
facile presa, a scapito dei guizzi teatrali e gli spunti progressivi di una
volta.
Da notare l'ipocrisia del
video di "Poison" in cui non compare mai il tastierista (sebbene nel
brano vi siano dei ricami di tastiere), il quale viene prontamente rimpiazzato
da un secondo chitarrista (quando invece le parti di chitarra sono state incise
dal solo McCurry). Ma del resto erano gli anni di gloria di Aerosmith, Bon
Jovi e Guns N' Roses, e bisognava apparire più fighi e più rocker
possibile. Si tentò persino di imbellire lo stesso Alice Cooper che, senza il
suo proverbiale make-up e dopo un trattamento di urgenza dall'estetista,
sembrava una imbarazzante via di mezzo fra Macchia Nera senza maschera e
Martufello.
Eppure ci piace
"Trash" e il suo singolo di lancio “Poison”, sebbene non siano
lontanamente paragonabili ai capolavori del passato. Quei suoni laccati, quel chitarrismo
elegante che ricorda a tratti Randy Rhoads (il Dio del Metallo mi
fulmini per la bestemmia!), quella voce raschiante che non si abbandona più
a chissà quali voli pindarici, ma che crea un bel contrasto: insomma, ci piace,
ci piace tutto questo, perché cresciuti nel disagio dell'era grunge e poi
invecchiati negli apocalittici anni zero, sentiamo un po' di nostalgia per un
periodo di sicurezze che non avremo più (si stava meglio quando si stava
peggio?). E in questi tempo duri un po' di calore emanato dai ricordi e gli
umori di una fase storica irripetibile (che abbiamo appena avuto modo di intravedere)
tanto schifo non ci fa...