15 lug 2017

LA RECENSIONE CHE NON AVETE ANCORA LETTO DI "THE OPTIMIST" DEGLI ANATHEMA



Non ero molto ottimista nei confronti di questo "The Optimist" (ok, anche io non ho saputo resistere alla tentazione di idioti giochi di parole), ultima fatica discografica degli Anathema, perché su di esso avevo letto una serie di recensioni non proprio entusiastiche (qua e là, addirittura, qualche netta stroncatura).

Poi però ha prevalso l'amore e l'affetto che mi legano da sempre alla musica dei fratelli Cavanagh e l'ho comunque comprato. Il mio ragionamento è stato: ma come potrebbe mai fallire una band che ha sempre fatto prevalere su tutto la sincerità?, una "macchina" il cui motore gira solo ed esclusivamente per comunicare e trasmettere emozioni?


Il saper emozionare è nel DNA degli Anathema: come quei personaggi buffi che ci fanno sorridere solo a guardarli, e che ci dobbiamo trattenere dal ridere anche quando sono seri, così gli Anathema non possono non emozionare.

Potrete dire quello che vi pare, che gli Anathema non sono ispirati e che gli Anathema in salsa post rock sono prevedibili: a me sinceramente avete rotto i coglioni! Tutta la storia degli Anathema è fatta di critiche. E lasciando stare i fan della prima ora (che seddiovuole si sono tolti di torno presto), mi ricordo ancora quando diceste che "Alternative 4" era un album sciatto, che "Closer" era la canzone più brutta degli Anathema, me le ricordo tutte le vostre stronzate!

Ad album ascoltato, posso dirmi contento di aver seguito il mio istinto e di aver ignorato le indicazioni di scribacchini che probabilmente hanno dato un ascolto frettoloso al disco su YouTube, magari mentre già scrivevano la recensione gonfi di pregiudizi.

Ammesso e premesso che gli Anathema non possono fallire, se ad essi capita di sbagliare (perché tutti sbagliano, e gli Anathema, in quanto "più umani di tutti", sono più di tutti soggetti ad errori), non sbagliano artisticamente, ma al massimo possono far confusione, inciampare, scivolare nel confezionare il prodotto, attività per la quale ci vuole intelligenza e non cuore. In "Distant Satellites", che di emozioni ce ne aveva comunque date a vagonate (si pensi ad un brano come "Anathema"), in certi frangenti le idee dei Nostri non sembravano rendere al meglio con suoni poco a fuoco ed arrangiamenti approssimativi.

Ebbene, signori miei, "The Optmist" gode di una delle migliori produzioni che un album degli Anathema abbia mai avuto. E la mano del produttore Tony Doogan che è noto per aver lavorato con i Mogwai, non è stata di certo ininfluente: suoni pieni e corposi in generale, nitidi e cristallini nei momenti soft, potenti e definiti quando si esplode. Mai il pianoforte ha avuto un suono così brillante, mai gli arrangiamenti di archi sono stati così raffinati e dinamici, mai l'elettronica si è integrata così perfettamente alle partiture rock. Questo è un dato solo formale, ma è sicuramente un buon inizio.

Scendiamo dunque sul lato più prettamente artistico, affrontando l'impianto concettuale che sta dietro all'opera. Come è ormai ampiamente noto, "The Optmist" è il sequel di "A Fine Day to Exit", strana cosa se si pensa che i brani di quell'album straordinario non hanno mai trovato grande spazio nelle scalette dei concerti, come se l'opera non avesse mai goduto più di tanta considerazione da parte della band. Perché tutto ad un tratto ripescarlo dal cilindro? E perché dover tornare su quella fatidica spiaggia in cui si era consumato un bellissimo finale (aperto) che era già di per sé perfetto? Probabilmente è il cambio di visione (sicuramente più positiva oggi che ieri) ad aver convinto i Nostri a riprendere il protagonista di quella storia, che avevamo lasciato in spiaggia (non si capisce se a trovare la pace nel suicidio o in una nuova consapevolezza), e a rimetterlo in macchina e ricondurlo probabilmente da dove era partito (mollandolo nuovamente in un finale aperto, ma questa volta non in procinto di affrontare se stesso, bensì il mondo - scelta che esprime se non altro un atteggiamento più costruttivo/propositivo). E così l'intro "32.63n 117.14w" riprende le fila del discorso proprio laddove era stato interrotto, con il suono delle onde e la musica proveniente da una autoradio, perché di "road movie" si tratterà (a proposito, altamente consigliato l'ascolto alla guida).

Vediamo dunque la musica. "A Fine Day to Exit" era stato l'album radioheadiano per eccellenza degli Anathema e in questo aspetto troviamo una certa continuità stilistica, visto che "The Optionist" è l'album più radioheadiano da un po' di anni a questa parte, pur non rinnegando quelle divagazioni prog che hanno caratterizzato il corso recente della band. Ma rispetto ai tre album precedenti, "The Optimist" si scrolla di dosso un poco di miele, per recuperare l'antica inquietudine, qua attraversato da nevrosi radioheadiane, là incupito da vecchi fantasmi pinkfloydiani, tutti ingredienti che non ci dispiacciono e che ritroviamo ben miscelati con denotazioni post-rock che, se vogliamo, solo la novità servita a questo giro.

In questo frangente risulta di estrema utilità il drumming vitaminico e galoppante di Daniel Cardoso, che di soppiatto ha finito per sfilare lo sgabello allo storico John Douglas, il quale ormai da tempo preferisce occuparsi delle parti di elettronica, sebbene questa componente non sia poi così presente come certe sperimentazioni di "Distant Satellites" avrebbero fatto presagire.

Giungiamo dunque alla canzoni: gli Anathema sono ispirati? Ci fanno emozionare? Alla prima domanda rispondiamo "ni", alla seconda "comunque sì". Perché anche se l'ispirazione è altalenante, l'album rimane un bel sentire, mettendo insieme piacevoli pezzi "up-tempo" che evocano la mitica "Panic" (l'opener "Leaving It Behind", "Can't Let Go") ed intense ballate ("Endless Ways", la titletrack, "Springfield") spesso animate nel finale da bei crescendo, che a qualcuno possono sembrare telefonati, o prevedibili, ma che in realtà sono diversi da ogni altro crescendo vi sia nel mondo post-rock. Gli Anathema, del resto, nel mutare ed adottare stilemi altrui hanno sempre avuto un vantaggio rispetto a molti loro colleghi: hanno personalità, un loro stile. Daniel Cavanagh, indubbiamente, rimane un grande ed ispirato chitarrista, nonostante si ostini, di album in album, a ridurre i suoi momenti solisti, quando invece ai tempi death-doom quel mélange sonoro, in cui venivano fusi continuamene accordi potenti, fraseggi acustici e strascichi di feedback, era la sua vera cifra stilistica.

Ma se vediamo il buon Daniel indietreggiare sul fronte delle sei corde, in compenso lo troviamo più ispirato che mai dietro ai tasti d'avorio. "The Optmist" è denso di pianoforte e presenta fra le più belle e sentite partiture di piano che un album degli Anathema abbia mai avuto. Dite quello che vi pare, ma un gioiello pop come "Ghosts", semplice e ruffiana quanto volete, è emozionante come non mai: ascoltatela in cuffia e scoprire dietro la scorza zuccherosa i preziosismi tecnici, la ricercatezza ritmica che non è propria del mondo pop; scovate il ribollire sottocutaneo di una identità artistica che sopravvive negli anni e porta ancora il marchio di certi umori gothic-metal dell'"era di mezzo". Ma è anche vero che oramai, ogni volta che entro in contatto con un singolo vocalizzo di Lee Douglas mi emoziono come mi succedeva ai tempi dei Gathering con Anneke: la cantante è indubbiamente cresciuta negli anni e con "The Optimist" guadagna spazi inauditi, oscurando persino il buon Vincent Cavanagh, mai così defilato come in questa circostanza.

Passiamo dunque ai punti deboli, che a parere di chi scrive sono essenzialmente due. Il primo è appunto un Vincent sotto tono: dopo anni di crescita inarrestabile, il Nostro sembra subire una fase di arresto, adagiandosi nella dimensione del citazionismo (chi ha detto Thom Yorke?) e dell'auto-citazionismo. Presente il minimo indispensabile con linee vocali abbastanza prevedibili, più che altro non ci regala quei picchi di intensità che sono da sempre la sua peculiarità. Ma al di là che si tratta di un processo fisiologico, comprensibile dopo tanti anni di studio e migliorie costanti, abbiamo visto che la Douglas va a mettere una toppa con il suo stile sempre più ricercato ed intimo.

Il secondo difetto del disco, o meglio rammarico, è che i Nostri potevano dare di più, osare di più. Una sensazione che si ha con la valida strumentale "San Francisco", che, con i suoi incalzanti sintetizzatori e i suoi soundscape frippiani costeggia territori prog (quello dei tardo-settanta/ottanta), ma in modo timido, tentennante: perché non concedersi qualche costruzione più articolata come succedeva per esempio in "The Storm Before the Calm"? In fondo l'orchestra non manca, qualcuno esperto dietro il mixer neppure. E perché se Daniel è un grande chitarrista non ci propone nemmeno un assolo degno di tale nome? Ci basterebbe anche tre note gilmouriane messe in fila, mica pretendiamo per forza qualcosa di originale! Ma anche su questo fronte abbiamo la soluzione: in "The Optimist" non troveremo una “One Last Goodbye” o una "Untouchable, part 1", ma abbiamo un concept che rende fluido lo scorrere dei brani, che ben si intersecano fra loro. E questo mitiga il fatto che a tratti si ha l'impressione che i brani sfumino senza aver raggiunto il climax a cui avrebbero preteso tendere.

Un album quindi che trova la sua magia nel perfetto tempismo in cui i pezzi si dispongono sulla scacchiera: un esempio su tutti è l'incipit di "Wildfires” che si incastona perfettamente con la chiusura del brano precedente, la ninnananna "Close your Eyes" (illuminata da una tromba sorniona da night-club, esperimento insolito che alza di un poco il gradimento di un brano altrimenti un po' soporifero). Da pelle d'oca, dunque, l'attacco iper-drammatico di quel pianoforte con il suo mood molto "The Wall", presto incalzato dall'ingesso della voce effettuata di Vincent e, via di seguito, raggiunto da detonazioni chitarristiche che ci riportano ai tempi di "The Silent Enigma" (e scusate se è poco).

Insomma, fa piacere trovare gli Anathema meno coldplayani del solito, fa così piacere che si finisce per apprezzare persino l'esplosione beatlesiana della conclusiva "Back to the Start", che chiude le vicende all'insegna di toni distensivi mai uditi prima in un album degli Anathema (un montare corale che, con le dovute proporzioni, può ricordare la celebre "Hey Jude").

E' doveroso infatti riconoscere che un'operazione non affatto semplice, ma che gli Anathema svolgono con fin troppa scioltezza e disinvoltura (passando a tratti come "banali"), è quella di saper continuare a percorrere con coerenza un formidabile percorso evolutivo che li ricongiunge pacificamente al loro background culturale: in "The Optimist", infatti, vanno a condensarsi i cinque lustri della storia della band e ben cinque decadi della Storia del rock inglese e britannico. E non è poco: i 60's dei Beatles, i 70's dei Pink Floyd, gli 80's del prog di King Crimson, Yes e Genesis nelle loro incarnazioni post-ottantiane, con qualche eco depechemodiano a fare da gradito contorno; e poi i 90's dei Radiohead e gli anni “zero” delle sonorità post. Approdando così agli "anni dieci" in una sintesi che rappresenta al meglio quel filone neo-prog che ben incarna lo spirito dei nostri anni (metal e non) e di cui gli stessi Anathema sono illustri interpreti.

Un "movimento" variegato e capace di incrociare i generi più disparati che, nelle nostre conclusioni della rassegna sui migliori album non-metal rilasciati da band metal, avevamo definito "una terra di nessuno", ma che in verità inizia ad acquisire consistenza ed identità includendo un numero sempre più grande di band valide che, con storie molto diverse, si accodano al successo che sta riscuotendo la figura carismatica di Steven Wilson, aggregatore di stilemi ed attenzioni. Per rendersi conto del fenomeno basta sfogliare il libretto promozionale della Kscope incluso nel CD, dove, oltre alla discografia di Wilson solista, dei suoi vari progetti (Blackfield, No-Man ecc.) e quelli dei suoi collaboratori (Richard Barbieri, Gavin Harrison ecc.), accanto ad artisti e band come Anekdoten, Crippled Black Phoenix, North Atlantic Oscillation, The Pineapple Thief, Iamthemorning e molti altri, ci imbattiamo nondimeno in "orfani del metal" come Ulver ed appunto Anathema, che fra queste gente trovano un tetto dove poter essere accolti.

Ma al di là dei discorsi sociologici, che ci possono interessare relativamente, quello che conta è il fatto che in fondo in un album degli Anathema cerchiamo le emozioni e che anche questa volta ve le abbiamo trovate!