16 dic 2017

THERION: GLI ANNI DELLA RIVOLUZIONE




Nella mia storia personale la parabola artistica dei Therion ha occupato un posto di grande riguardo, almeno nel corso degli anni novanta. Posso dire di essere cresciuto con loro, anzi, che loro son cresciuti con me. Ma come spesso capita nella vita, i gusti, gli interessi, le percezioni cambiano e così, similmente a quanto successo con molti altri miei beniamini di quegli anni (Paradise Lost, Tiamat, Moonspell ecc.), anche dei Therion ad un certo punto ho perso le tracce.

Cosa mi riporta a loro?

Alla notizia che la combriccola capitanata da Christofer Johnsson sarebbe passata in città ad anno nuovo per il loro prossimo tour, mi si è accesa di colpo la "fiammella dei ricordi" e mi son detto: guardiamo su YouTube cosa oggigiorno i Nostri combinano sul palco!

Nemmeno più di tanto sorpreso ho trovato una band uguale ma diversa (sebbene sulle prime mi sia chiesto: ma per sbaglio avrò caricato un video dei Nightwish?). Uguale perché la formula collaudata della band è oramai un marchio distintivo che in pochi altri possono vantare nel metal. Diversa perché nella musica degli svedesi non si respira più quell'aria frizzante di una volta: un circo senz'anima sembra essere divenuto quell'ensemble che nel corso degli anni novanta aveva occupato l'avamposto più avanzato della sperimentazione in campo death metal.

Non sono sconvolto innanzi a queste "rivelazioni" perché già quando iniziai a disinteressarmi alla loro proposta, i segni di questa "deriva" erano presenti: gli album avevano perso ogni traccia di "estremo" ed in essi confluivano copiosamente quelle propensioni al metal classico (del resto da sempre presenti nel sound della band) rivitalizzate lungo i binari di un rigenerante power metal, che era indubbiamente il trend del momento.

Scelta dettata da opportunismo? Felice congiuntura fra il capolinea di un percorso evolutivo e le tendenze del periodo? Oppure semplice necessità?

In questo cambio di passo ha sicuramente influito il fatto che nei Therion sia venuto a mancare la figura di un front-man carismatico che nel corso degli anni potesse polarizzare, catalizzare, incarnare l'identità di un sound sempre mutevole (un Riberio, per fare un esempio): Christofer Johnsson nelle vesti di cantante non si è mai sentito troppo a suo agio ed una volta intravista una soluzione ai propri affanni dietro al microfono, non ha perso l'occasione per defilarsi e nascondersi dietro alle sei corde ed alla composizione, continuando ad operare dietro alle quinte come regista.

Con la conseguenza che l'entità Therion ha finito per perdere le caratteristiche di una band vera e propria (con tutte i vantaggi delle sinergie e del “gioco di squadra” che si possono instaurare fra componenti stabili), per divenire una sorta di collettivo circense ruotante attorno alla figura del suo demiurgo, non sempre impeccabile dal punto di vista dell'ispirazione (e il maldestro tentativo di rivoluzionare nuovamente i Therion uscendo dal metal con l'ultimo "Les Fleurs du Mal", ormai vecchio di cinque anni, rappresenta una scelta assai forzata ed indubbiamente il momento più basso di una carriera ormai quasi trentennale).

Ad essere onesti, già con "Vovin" quella spinta propulsiva che aveva caratterizzato i primi anni di vita del progetto si era nella sostanza esaurita, lasciando ampi spazi al mestiere ed agli arrangiamenti. Da qui sarebbe iniziato un nuovo corso per i Therion, un corso più lineare e focalizzato a raffinare la formula: un cammino baciato simbolicamente dall'ugola "reazionaria" di Ralf Scheepers (cantante power di razza, prima nelle file dei Gamma Ray, poi nei priestiani Primal Fear), chiamato a dare voce al brano "The Wild Hunt".


Negli anni successivi la proposta degli svedesi sarebbe stata ulteriormente annacquata con ingredienti grati al metal-kid del nuovo millennio, mentre l'originaria verve sperimentale si sarebbe affievolita, sia nei fatti che nelle intenzioni, con un appiattimento di idee e soluzioni che non rende assolutamente giustizia all'attitudine di coloro che per un certo periodo sono stati i più brillanti innovatori in materia di metal estremo. I veri eredi, potremmo aggiungere, dei grandi Celtic Frost.

Vorremmo oggi pertanto celebrare questa parte virtuosa della carriera della band ricordando quei Therion che più ci hanno entusiasmato. E lo facciamo con un trittico di album che esprime al meglio quell'eccitante aria di creatività che aveva caratterizzato la loro travolgente ascesa. 

"Symphony Masses: Ho Drakon Ho Megas" (1993)

Terzo full-lenght in tre anni, esso segna il primo netto affrancamento dagli stilemi classici del death metal. Seppur timidi tentativi di sperimentazione fossero stati compiuti già nel precedente "Beyond Sanctorum", e sebbene esso stesso costituisca ancora un frutto indubbiamente acerbo, è qui che ci imbattiamo per le prima volta nella manifesta volontà di forgiare qualcosa di nuovo e di diverso. Il growl di Johansson è ancora greve ed impersonale, mentre il suo stile chitarristico non presenta particolari peculiarità; sopravvive nel complesso quella ruvidità hardcore che era tipica delle produzioni death svedesi di inizio decade, eppure è possibile imbattersi continuamente in spunti, accenni che contengono in embrione i tratti salienti di quella che sarà l'evoluzione futura.

I tempi rallentano, l'utilizzo delle tastiere si fa più invadente e lungo i solchi di queste dieci tracce si fanno largo quelle pulsioni progressive che andavano ben al di là delle ambizioni atmosferiche delle death metal band del periodo. Correva l'anno 1993 e nessuno, dico nessuno, in ambito death metal aveva composto un brano come "The Ritual Dance of the Yezidis", che in poco più di due minuti abbinava growl cavernoso e folk mediorientale (ingrediente presente peraltro in altri brani dell’album).

Ma basta scorrere i titoli dei brani (“Baal Reginon”, “Dark Princess Naamah” ecc.) per rendersi conto che dietro a tutto vi sia un immaginario ben preciso: nozioni e visioni tratte dagli studi svolti e dalle disquisizioni maturate nel circolo occultista di cui Johansson faceva parte (il famigerato Dragon Rouge). A suggellare il tutto, al posto dei classici scatti di gruppo a base di energumeni in giacchetti jeans, nel booklet interno troviamo una foto che ritrae un sacerdote con una maschera inquietante in procinto di compiere un sacrificio umano. I semi magici del cambiamento sono stati dunque piantati!

"Lepaka Kliffoth" (1995)

I Therion, potendosi permettere finalmente una strumentazione ed una produzione adeguate alle loro ambizioni, mettono a segno il loro primo capolavoro. Mai prima nel metal ci si era imbattuti in un'opera così bizzarra e spiazzante. Ed attenzione, non si ha mai l'impressione che la band voglia strafare o semplicemente provocare: tutto è congegnato alla perfezione, senza inutili dispersioni e senza mai perdere la bussola (cosa che sovente ancora accadeva nel lavoro procedente). Gli ingredienti di successo di questa nuova prova in studio sono brani ben strutturati e dalla durata contenuta, una produzione più a fuoco e finalmente suoni nitidi che valorizzano le idee dei Nostri.

Si va in parallelo a consolidare l'asse Johnsson/Priot Wawrzeniuk (unico sopravvissuto, insieme al "grande capo", della formazione precedente) che offre un drumming dinamico, preciso, coinciso: i binari ideali lungo i quali si può esprimere in libertà l'estro straripante del mastermind, diviso fra microfono, chitarre e tastiere, le quali iniziano a guadagnare spazi veramente importanti.

Il growl di un tempo si fa urlo becero e grottesco, in linea con una musica che abbonda di barocchismi ed arabeschi. Le atmosfere orientaleggianti vengono coltivate e poste ancora più al centro di un sound che non è più collocabile in coordinate conosciute: indubbiamente non è più death metal questo, ma allora cos'è? Riff massicci e ritmiche potenti dettano ancora legge, ma il tutto è continuamente pervaso da un dotto esoterismo: un'atmosfera folle, potremmo dire da alchimisti, quali erano questi musicisti, non certo dei virtuosi, ma con la rara capacità di saper mettere in pratica idee non affatto comuni. Un’esplosione di spunti melodici, fughe progressive ed ovviamente massicce dosi di sinfonismi, con in prima fila quella "The Beauty in Black" che nel duetto fra baritono e soprano (una certa Claudia Maria Mokri - si, quella di "Into the Pandemonium", peraltro citato apertamente con la cover di "Sorrows of the Moon") costituisce un primo gustoso assaggio di quello che sarebbero divenuti di lì a poco i Therion.

"Theli" (1996)

Eccoci finalmente al completamento della mutazione. Quelle che erano state le sperimentazioni più azzardate del tomo precedente, divengono qui regola. Del resto Johnsson aveva sostenuto in una vecchia intervista che l'evoluzione dei Therion avrebbe coinciso con i mezzi a loro disposizione. Uno studio di registrazione professionale, collaborazioni importanti e ben due cori sono le armi a disposizione per concretizzare quelle ambizioni covate da così lungo tempo. 
Ecco dunque che per magia il sound dei Nostri si farà ancora più sinfonico (la struttura stessa dell'album, scandita da preludio, interludio e grand finale, va a richiamare le convezioni della musica classica), con addirittura schiere di baritoni e soprani a prendere il sopravvento dietro al microfono. Solo sporadicamente tornerà il ruggito di Johnsson, qua e là supportato dalle vocalità pulite di Wawrzeniuk e da quelle oscure dell'ospite d'onore Dan Swano. A completare l'organico troviamo altri nomi conosciuti del death metal svedese dell’epoca come il bassista Lars Rosemberg (ex Entombed) e il chitarrista Jonas Mellberg (reduce dall'esperienza Unanimated): insieme costoro andarono a formare quella che potremmo definire la miglior formazione dei Therion di sempre, arricchita ulteriormente dal contributo filosofico di Thomas Karlsson, fondatore del Dragon Rouge, assunto in pianta stabile come paroliere.

I brani in scaletta nel loro svolgersi finiscono per equivalersi, fra orchestrazioni incalzanti, fiere cavalcate metalliche, spunti di prog settantiano e momenti di estremo pathos. Ma come possiamo non citare titoli come "To Mega Therion", "Cults of the Shadow", "In the Desert of Set", "Nightside of Eden", "Invocation of Naamah" e l'evocativa iper-ballata "The Siren of the Woods" (quasi dieci i minuti di durata)? In questa sprizzante e tracotante creatività le energie non sempre vengono domate, e qua e là troveremo ancora qualche sbavatura, qualche difettuccio che tuttavia a conti fatti renderanno più autentica, viva ed umana un'opera che rimarrà probabilmente l'apice artistico della creatura di Johnsson.

Come si diceva all'inizio, ci penserà "Vovin" a smussare gli angoli, a limare i contorni, a correggere le ultime storture, consegnandoci cosi i Therion in una veste elegante che mai era stata indossata precedentemente. Una veste che, tuttavia, finirà per castigare in forme rigide e laccate la forza interiore di una delle entità più innovative e coraggiose che il metal abbia conosciuto.