Nella mia storia personale la
parabola artistica dei Therion ha
occupato un posto di grande riguardo, almeno nel corso degli anni novanta.
Posso dire di essere cresciuto con loro, anzi, che loro son cresciuti con me.
Ma come spesso capita nella vita, i gusti, gli interessi, le percezioni
cambiano e così, similmente a quanto successo con molti altri miei beniamini di
quegli anni (Paradise Lost, Tiamat, Moonspell ecc.), anche dei Therion ad un certo punto ho perso le
tracce.
Cosa
mi riporta a loro?
Alla notizia che la combriccola capitanata da Christofer Johnsson sarebbe passata in città ad anno nuovo per il loro prossimo tour, mi si è accesa di colpo la "fiammella dei ricordi" e mi son detto: guardiamo su YouTube cosa oggigiorno i Nostri combinano sul palco!
Nemmeno più di tanto sorpreso
ho trovato una band uguale ma diversa
(sebbene sulle prime mi sia chiesto: ma
per sbaglio avrò caricato un video dei Nightwish?).
Uguale perché la formula collaudata
della band è oramai un marchio distintivo che in pochi altri possono vantare
nel metal. Diversa perché nella
musica degli svedesi non si respira più quell'aria frizzante di una volta: un
circo senz'anima sembra essere divenuto quell'ensemble che nel corso degli anni novanta aveva occupato
l'avamposto più avanzato della sperimentazione in campo death metal.
Non sono sconvolto innanzi a
queste "rivelazioni" perché già quando iniziai a disinteressarmi alla
loro proposta, i segni di questa "deriva" erano presenti: gli album
avevano perso ogni traccia di "estremo" ed in essi confluivano
copiosamente quelle propensioni al metal classico (del resto da sempre presenti nel sound della band)
rivitalizzate lungo i binari di un rigenerante power metal, che era indubbiamente il trend del momento.
Scelta
dettata da opportunismo? Felice congiuntura fra il capolinea di un percorso
evolutivo e le tendenze del periodo? Oppure semplice necessità?
In questo cambio di passo ha
sicuramente influito il fatto che nei Therion sia venuto a mancare la figura di
un front-man carismatico che nel
corso degli anni potesse polarizzare, catalizzare, incarnare l'identità di un sound sempre mutevole (un Riberio, per fare un esempio): Christofer
Johnsson nelle vesti di cantante non si è mai sentito troppo a suo agio ed una
volta intravista una soluzione ai propri affanni dietro al microfono, non ha
perso l'occasione per defilarsi e nascondersi dietro alle sei corde ed alla
composizione, continuando ad operare dietro alle quinte come regista.
Con la conseguenza che
l'entità Therion ha finito per perdere le caratteristiche di una band vera e
propria (con tutte i vantaggi delle sinergie e del “gioco di squadra” che si
possono instaurare fra componenti stabili), per divenire una sorta di collettivo
circense ruotante attorno alla figura del suo demiurgo, non sempre
impeccabile dal punto di vista dell'ispirazione (e il maldestro tentativo di
rivoluzionare nuovamente i Therion uscendo dal metal con l'ultimo "Les Fleurs du Mal", ormai vecchio
di cinque anni, rappresenta una scelta assai forzata ed indubbiamente il momento più basso di una carriera ormai quasi
trentennale).
Ad essere onesti, già con "Vovin"
quella spinta propulsiva che aveva caratterizzato i primi anni di vita del
progetto si era nella sostanza esaurita, lasciando ampi spazi al mestiere ed
agli arrangiamenti. Da qui sarebbe iniziato un nuovo corso per i Therion, un
corso più lineare e focalizzato a raffinare la formula: un cammino baciato
simbolicamente dall'ugola "reazionaria" di Ralf Scheepers (cantante power di razza, prima nelle file dei Gamma Ray, poi nei priestiani Primal Fear),
chiamato a dare voce al brano "The
Wild Hunt".
Negli anni successivi la proposta
degli svedesi sarebbe stata ulteriormente annacquata con ingredienti grati al metal-kid del nuovo millennio, mentre l'originaria verve sperimentale si
sarebbe affievolita, sia nei fatti che nelle intenzioni, con un appiattimento
di idee e soluzioni che non rende assolutamente giustizia all'attitudine di
coloro che per un certo periodo sono stati i più brillanti innovatori in
materia di metal estremo. I veri eredi, potremmo aggiungere, dei grandi Celtic Frost.
Vorremmo oggi pertanto celebrare questa parte virtuosa della carriera della band ricordando quei Therion che più ci hanno entusiasmato. E lo facciamo con un trittico di album che esprime al meglio quell'eccitante aria di creatività che aveva caratterizzato la loro travolgente ascesa.
"Symphony
Masses: Ho Drakon Ho Megas"
(1993)
Terzo full-lenght in tre anni, esso segna il primo netto affrancamento
dagli stilemi classici del death metal. Seppur timidi tentativi di
sperimentazione fossero stati compiuti già nel precedente "Beyond Sanctorum", e sebbene esso stesso costituisca ancora
un frutto indubbiamente acerbo, è qui che ci imbattiamo per le prima volta
nella manifesta volontà di forgiare qualcosa di nuovo e di diverso. Il growl di Johansson è ancora greve ed
impersonale, mentre il suo stile chitarristico non presenta particolari
peculiarità; sopravvive nel complesso quella ruvidità hardcore che era tipica delle produzioni death svedesi di inizio decade, eppure è possibile imbattersi continuamente in spunti, accenni che contengono in embrione i tratti salienti di quella che sarà l'evoluzione futura.
I tempi rallentano, l'utilizzo
delle tastiere si fa più invadente e lungo i solchi di queste dieci tracce si
fanno largo quelle pulsioni progressive che andavano ben al di là delle
ambizioni atmosferiche delle death metal band del periodo. Correva l'anno 1993
e nessuno, dico nessuno, in ambito death metal aveva composto un brano come
"The Ritual Dance of the Yezidis",
che in poco più di due minuti abbinava growl
cavernoso e folk mediorientale (ingrediente presente peraltro in altri brani
dell’album).
Ma basta scorrere i titoli dei
brani (“Baal Reginon”, “Dark Princess Naamah” ecc.) per
rendersi conto che dietro a tutto vi sia un immaginario
ben preciso: nozioni e visioni tratte dagli studi svolti e dalle disquisizioni
maturate nel circolo occultista di cui Johansson faceva parte (il famigerato Dragon Rouge). A suggellare il tutto,
al posto dei classici scatti di gruppo a base di energumeni in giacchetti jeans, nel booklet interno troviamo una foto che ritrae un sacerdote con una maschera inquietante in procinto di compiere un sacrificio umano. I semi magici del cambiamento sono stati
dunque piantati!
"Lepaka
Kliffoth"
(1995)
I Therion, potendosi
permettere finalmente una strumentazione ed una produzione adeguate alle loro
ambizioni, mettono a segno il loro primo
capolavoro. Mai prima nel metal ci si era imbattuti in un'opera così bizzarra e spiazzante. Ed attenzione, non si ha mai
l'impressione che la band voglia strafare o semplicemente provocare: tutto è
congegnato alla perfezione, senza inutili dispersioni e senza mai perdere la
bussola (cosa che sovente ancora accadeva nel lavoro procedente). Gli ingredienti di successo di questa nuova prova in studio sono brani ben strutturati e dalla
durata contenuta, una produzione più a fuoco e finalmente suoni nitidi che
valorizzano le idee dei Nostri.
Si va in parallelo a
consolidare l'asse Johnsson/Priot
Wawrzeniuk (unico sopravvissuto, insieme al "grande capo", della formazione precedente) che offre un
drumming dinamico, preciso, coinciso: i binari ideali lungo i quali si può
esprimere in libertà l'estro straripante del mastermind, diviso fra microfono, chitarre e tastiere, le quali
iniziano a guadagnare spazi veramente importanti.
Il growl di un tempo si fa urlo becero e grottesco, in linea con una
musica che abbonda di barocchismi ed arabeschi. Le atmosfere orientaleggianti
vengono coltivate e poste ancora più al centro di un sound che non è più collocabile in coordinate conosciute:
indubbiamente non è più death metal questo, ma
allora cos'è? Riff massicci e
ritmiche potenti dettano ancora legge, ma il tutto è continuamente pervaso da
un dotto esoterismo: un'atmosfera folle, potremmo dire da alchimisti, quali erano questi musicisti,
non certo dei virtuosi, ma con la rara capacità di saper mettere in pratica idee non affatto
comuni. Un’esplosione di spunti melodici, fughe
progressive ed ovviamente massicce dosi di sinfonismi, con in prima fila quella
"The Beauty in Black" che
nel duetto fra baritono e soprano (una certa Claudia Maria Mokri - si, quella di "Into the Pandemonium", peraltro citato apertamente con la cover di "Sorrows of the Moon") costituisce un primo gustoso assaggio di
quello che sarebbero divenuti di lì a poco i Therion.
"Theli"
(1996)
Eccoci finalmente al completamento della mutazione. Quelle
che erano state le sperimentazioni più azzardate del tomo precedente, divengono
qui regola. Del resto Johnsson aveva sostenuto in una vecchia intervista che
l'evoluzione dei Therion avrebbe coinciso con i mezzi a loro disposizione. Uno
studio di registrazione professionale, collaborazioni importanti e ben due cori
sono le armi a disposizione per concretizzare quelle ambizioni covate da così lungo tempo.
Ecco dunque che per magia il sound dei Nostri si farà ancora più
sinfonico (la struttura stessa dell'album, scandita da preludio, interludio e
grand finale, va a richiamare le convezioni della musica classica), con
addirittura schiere di baritoni e soprani a prendere il sopravvento dietro al
microfono. Solo sporadicamente tornerà il ruggito di Johnsson, qua e là
supportato dalle vocalità pulite di Wawrzeniuk e da quelle oscure dell'ospite
d'onore Dan Swano. A completare
l'organico troviamo altri nomi conosciuti del death metal svedese dell’epoca
come il bassista Lars Rosemberg (ex Entombed) e il chitarrista Jonas Mellberg (reduce dall'esperienza Unanimated): insieme costoro andarono a
formare quella che potremmo definire la miglior formazione dei Therion di
sempre, arricchita ulteriormente dal contributo filosofico di Thomas Karlsson, fondatore del Dragon
Rouge, assunto in pianta stabile come paroliere.
I brani in scaletta nel loro
svolgersi finiscono per equivalersi, fra orchestrazioni incalzanti, fiere
cavalcate metalliche, spunti di prog settantiano e momenti di estremo pathos. Ma
come possiamo non citare titoli come "To
Mega Therion", "Cults of
the Shadow", "In the
Desert of Set", "Nightside
of Eden", "Invocation of
Naamah" e l'evocativa iper-ballata "The Siren of the Woods" (quasi dieci i minuti di durata)? In
questa sprizzante e tracotante creatività le energie non sempre vengono domate,
e qua e là troveremo ancora qualche sbavatura, qualche difettuccio che tuttavia
a conti fatti renderanno più autentica, viva ed umana un'opera che rimarrà
probabilmente l'apice artistico della creatura di Johnsson.
Come si diceva all'inizio, ci
penserà "Vovin" a smussare
gli angoli, a limare i contorni, a correggere le ultime storture, consegnandoci
cosi i Therion in una veste elegante che mai era stata indossata
precedentemente. Una veste che, tuttavia, finirà per castigare in forme rigide e laccate la
forza interiore di una delle entità più innovative e coraggiose che il metal
abbia conosciuto.