Riprendiamo la nostra Retrospettiva sulla prima parte di carriera dei Blue Öyster Cult.
Ci eravamo lasciati con l’analisi del loro debut
omonimo. E quindi riprendiamo dal suo successore…
“Tyranny And Mutation” (1973)
1973: mentre i Judas Priest
dovevano ancora debuttare, i Black Sabbath, con lo splendido “Sabbath, bloody
sabbath” scoprivano il progressive, i Deep Purple cominciavano a evidenziare le
prime crepe con “Who do we think we are” e tutto il mondo musicale “colto”
celebrava l’uscita di “The dark side of the moon” dei Pink Floyd, i Blue Öyster Cult andavano contro tutto
questo, dando alla luce una sorta di
mostro sonoro dominato da ibridazioni stilistiche e da testi che andavano
dal disagio urbano a tematiche magico-occultistiche.
I 38’ di “Tyranny and
mutation” sono suddivisi in due parti e l’opener, la splendida “The red and the
black” (ricalcata sulla melodia e il testo di “I’m on the lamb but I ain’t no
sheep” da “BÖC”) è in tal senso programmatica: il rosso e il nero come ordine e
caos? O viceversa? Quello che si coglie al primo ascolto è un sound divenuto
più potente, violento, sferragliante. E quindi più metal in senso stretto. Il
songwriting di altissimo livello sembra sempre sul punto di deragliare, di
perdersi in divagazioni dovute ad un’esuberanza e ad un’irrequietezza difficili
da tenere a bada. Ma i 5 polistrumentisti, con contorsioni da equilibrista,
riescono sempre a rimanere nei binari, anche quando la veemenza del loro sound
sembrerebbe debordante.
Manifesto della prima parte,
limpida espressione di un certo proto-metal dannato, è la violentissima “Hot
rails to hell” (cantata dal bassista Joe Bouchard), song molto sostenuta che
sfocia nella mini-suite progressiva e altamente disturbante “7 screaming
diz-busters”. Ma in realtà tutte e 4 le canzoni del “lato A” vanno a formare
una sorta di unico brano, una creatura mostruosa lunga oltre 20’.
“Baby ice dog” apre invece la 2a
parte, canzone scritta col contributo dell’amica Patti Smith (che inizialmente era stata candidata da Pearlman per
diventare la cantante della band…). Ancora una struttura atipica, un po’
sghemba, libera, dove continuano a mischiarsi hard-rock, blues e un certo swing
da balera (sic!). Il tutto contorniato da un’aura decadente, lasciva e
maledetta. La malsana e morbosa ballata “Wings wetted down” (una delle più
belle rock ballad della loro carriera) non è altro che un’altra sfaccettatura
di questo stesso ragionamento.
Attenzione, cari lettori: i brani dei BÖC sono difficili
da descrivere: vanno ascoltati e basta. Anche perché i cambi di umore, stili,
ritmi e ambientazioni sono continui, quasi a rivedere, in maniera ovviamente più
accessibile, le lezioni che i Mostri Sacri Frank Zappa e Captain Beefheart
avevano insegnato alla fine degli anni ’60.
TAM è, in definitiva, una sorta
di bignami, un riassunto che definirei “enciclopedico” di tutti i bozzetti
sonori che si erano distinti in ambito rock nel lustro precedente alla sua
uscita. Un mix malato di potenza e morbidezza, durezza e melodia, fantasia e
realistica quotidianità, capace di fagocitare qualsiasi altro genere passato
(swing, beat, prog, psichedelia e ovviamente blues). Il tutto in un’ottica che
definirei heavy tout-court.
Per capire la genesi del nostro genere preferito,
prego passare anche da queste parti. Paura…
Voto: 9
Ma il meglio doveva ancora
venire. E il meglio fu...
“Secret treaties” (1974)
Se in TAM si inneggiava a
Lucifer, the light, in “Secret Treaties” i Nostri alzano il tiro e diventano
ancora più…ancora più…ancora più cosa?? Non saprei, ancora una volta, definire
la loro musica: terrificante? Ambiguamente malsana? Ascoltate e fate voi.
La copertina già dice molto: i Nostri in
posa sicura e fiera, sono pronti a salire su un aereo da combattimento della 2a
guerra mondiale assieme ai loro cani (sic!). Ecco, come andrà a finire lo
vediamo nel retro della stessa: i cani giacciono tutti morti stecchiti, riversi
a terra in un bianco e nero che lascia poco spazio alla speranza.
Guidati dalle sapienti mani di Pearlman,
che qui raggiunge vette liriche clamorose andando a scrivere ben cinque degli
otto testi, i BÖC continuano a miscelare le loro mille influenze dando vita per
la terza volta in tre anni a un ibrido mostruoso senza pari, caratterizzato da
una visionarietà, tematica e musicale, che non ha riscontro nel rock dell’epoca
e che, in fin dei conti, rappresenta la maturità artistica di questo
incredibile ensemble.
La band è al top della forma, sia
esecutivamente che compositivamente; Buck Dharma artiglia i pezzi con assoli
graffianti e ricchi di inventiva, mentre i fratelli Bouchard garantiscono
un’accompagnamento ritmico sostenuto e sempre heavy, anche laddove i brani, nel
loro eclettismo, recuperano gli stilemi blues, quando non addirittura boogie o
swing.
Patti Smith dà ancora un
contributo non da poco scrivendo la malvagia “Career of evil” (opener
memorabile del disco), ma ogni brano è un pezzo di un puzzle mastodontico e
quasi senza forma finale. Un puzzle formato da racconti di cospirazioni
extraterrestri (“Subhuman”), epilettici crescendo (come nella lasciva
“Dominance and submission”, uno dei miei brani preferiti del Culto), da bombe
belliche (come “ME-262”, caratterizzata da un’ambientazione guerresca da far
tremare i polsi tra sirene antiaereo, deflagrazioni di ordigni e marce militari)
e chi più ne ha più ne metta.
La seconda parte del disco non è
da meno: l’orrorifica “Harvester of eyes” (ma che titolo fenomenale!), fa da
preludio all’elegiaca, disperata “Flaming telepaths” (canzone da "10") e a lei…si LEI. Quella
che, per chi scrive, è la più grande rock ballad degli interi anni ’70
(superata solo da quell’unicum indescrivibile che è “Boehmian rhapsody” dei
Queen, guardacaso uscita proprio in quel 1974…). Parliamo ovviamente di
“Astronomy”, 6’ e mezzo di perfezione assoluta (testo di Pearlman, musica dei
fratelli Bouchard, voce di Bloom), che il pubblico metallico conosce per la
cover, validissima peraltro, che ne fecero i Metallica su “Garage inc.” (1998);
ma l’originale è ancora più da pelle d’oca, una sorta di viaggio cosmico: dal
soffuso inizio di pianoforte e accompagnamento di charleston delle prime due
strofe, all’inserimento della chitarra, che crea un crescendo melodico che pare
emergere dalle viscere della terra fino all’esplosione finale, a quel “Call me
Desdenova, eternal light…astronomy…a star!”. Una stella che esplode e che
lascia dietro di sè solo il lieve sibilo, come di un vento che soffia nel vuoto
cosmico, che suggella la fine di un trittico di dischi che li consegnerà ai
posteri …
Null’altro da aggiungere quindi: "Secret Treaties" è senza dubbio il loro lavoro più dark, più negativo, provocatoriamente
inneggiante al Male.
Senza dubbio il loro capolavoro.