17 set 2018

DIECI ALBUM PER CAPIRE IL POST-INDUSTRIAL: BLOOD AXIS, "THE GOSPEL OF INHUMANITY"



Sesta puntata: Blood Axis

I nostri lettori più attenti già conoscono i Blood Axis, avendoli incontrati nella nostra rassegna sul folk apocalittico.

Come i già analizzati Current 93, i Blood Axis vantano origini ‘industriali” e sviluppi nell’universo del neo-folk: un percorso costruito con coerenza e senza strappi concettuali, orientato proprio a superare quelli che erano stati i presupposti originari della musica industriale, ossia la critica al presente visto come fase terminale di una malattia dello spirito che infetta irreparabilmente l’uomo. Da qui la visione proiettata verso un futuro apocalittico e il conseguente recupero, a mo’ di purificazione, di un passato perduto, della Tradizione tramite stilemi folk. Ma a contrario di David Tibet e soci, nel corso della loro quasi trentennale carriera i Blood Axis hanno dato alla luce solo due full-lenght, il primo dei quali, il seminale “The Gospel of Inhumanity, sarà al centro delle nostre analisi di oggi.


All’inizio i Blood Axis, che nascevano dalle ceneri dei Coupe de Grace (esperienza multimediale che prevedeva esibizioni dal vivo, produzione di cassette e pubblicazioni di testi), erano composti da Michael Moynihan, voce e percussioni, e Robert Ferbrache, tastiere e chitarre.

Con la nuova sigla i due avrebbero debuttato nel 1991 sulla compilationThe Lamp of the Invisible Light” con i brani “Electricity” e “Lord of Ages”. Nel 1995 avrebbero bissato partecipando all'operazione “Im Blutfeuer” con ulteriori due brani, “I Walked in Line” e “The Storm before the Calm”: un poker di assi che ben mettevano in luce le potenzialità artistiche del duo americano. In “Electricity” le macchine tagliavano come lame e l’enfasi di cori operistici facevano da contorno ad un oscuro recitato e percussioni marziali; “Lord of Ages”, forte di un testo che prendeva in prestito versi del poeta Rudyard Kipling, si imponeva per mezzo di melodie medievaleggianti e suoni sintetici scossi dal trottare solenne della drum-machine; “Walked in Line” era invece una cover dei Joy Division (dal testo modificato) e svelava il versante post-punk dell'Asse; “The Storm Before the Calm”, infine, esplorava lidi ambient, adagiandosi su un desolante giro di pianoforte sul quale si stagliavano, ancora una volta, voci campionate e il magnetico recitato di Moynihan.

Già da questi episodi si evinceva che quella dei Blood Axis sarebbe stata arte della trasfigurazione e degli accostamenti più azzardati. Inscindibile inoltre risultava essere, nel loro modus operandi, l'integrazione fra forma ed apparato concettuale, musica e testi. E l’apoteosi di tutto questo sarebbe stato proprio “The Gospel of Inhumanity”, edito nel 1995 e destinato a cambiare il corso della storia del genere.

Evidente era l'influenza di artisti come Boyd Rice (Non) e Douglas Pearce (Death in June), con i quali, fra l'altro, Moynihan aveva collaborato anni prima nell'operazione "Music, Martinis and Misanthropy". Da non scordare inoltre le analogie con la concezione musicale introdotta dal progetto di culto francese Les Joyaux de la Princesse, pionieri del martial-industrial (non a caso, nel 2001 avrebbe visto la luce "Absinthe: Le Folie Verte", frutto della collaborazione fra l'Asse e la Principessa). Ma con "The Gospel of Inhumanity" i Blood Axis avrebbero dato vita ad un'esperienza a sé stante, al di fuori di ogni categorizzazione stilistica, e quindi avamposto per futuri sviluppi per tutta quella zona grigia sospesa fra industrial, neo-folk, dark-wave, musica rituale ed avanguardia.

Il Gospel si presenta come un torbido monolite in cui le otto tracce si fondono l’una nell’altra in un claustrofobico viaggio attraverso i meandri oscuri della natura umana. La copertina è eloquente nell'esplicare il carattere elitario e misantropico del concept rappresentato: un guerriero che, a cavallo del suo destriero, schiaccia impassibile i corpi dei suoi nemici sconfitti. Ma anche le altre immagini scelte a corredare il booklet interno (fra cui una minacciosa parata di condottieri - da Giulio Cesare a Napoleone passando per Alessandro Magno e faraoni assortiti - ed una bella “foto-ricordo” direttamente dal Terzo Reich) non scherzano, aprendo uno squarcio nella coscienza dell'ascoltatore ed un varco verso una dimensione estrema in cui ogni pregiudizio, convenzione e comun sentire devono essere necessariamente abbandonati.

La title-track è una strumentale che introduce il mood apocalittico dell'opera: evocazione di suggestioni belliche in lontananza, organo chiesastico ed una inquieta accelerazione di clavicembalo nel finale, prima manifestazione della componente irrazionale e morbosa che pervaderà l’intero album. Rincara la dose l’incipit a base di trombe/frustate/grida di dolore di “The Voyage (Canto I)”. Questo secondo brano si svilupperà sulle malinconiche note di organo di un’aria liturgica di Bach (riarrangiata dai Nostri) sulla quale viene innestata la registrazione della voce del poeta statunitense Ezra Pound (all’epoca della registrazione internato in un manicomio): il risultato è qualcosa di pacchiano e di bellissimo al tempo stesso, e ciò che viene trasmesso all’ascoltatore è un senso profondo di estraniazione, follia e solitudine.

Seguono i cori inquietanti di quella che parrebbe essere una messa nera, fin quando irrompe la chitarra di “Eternal Soul”, destinato a divenire un classico della band: la voce cupa e monocorde di Moynihan non si discosta molto da quella di un Ian Curtis ancora più stremato, mentre la drum-machine e gli elementari giri di chitarra elettrica riescono, seppur con estrema semplicità, ad edificare un post-punk di pregevole fattura. “Between Birds Of Prey” è una fuga ambient di otto minuti in cui un’orchestrazione riverberata dal gusto wagneriano echeggia ossessivamente in lontananza, mentre freddi tappeti di synth e un incessante ululare di lupi fanno da sottofondo alla voce profonda di Moynihan, che recita un passo del “Così parlò Zarathustra” di Nietzsche.

L’organo di Bach torna a farsi sentire nella successiva “Herr, Nun Las in Frieden”, questa volta chiamato ad accompagnare un monologo di Charles Manson, “scomodato direttamente dal carcere”: sentire la bellissima melodia di Bach che sale in crescendo presto accompagnata da cori sacri e l’incedere farneticante e lontano della voce arrochita di Manson ha del commovente. E i Blood Axis? Facile la vita, verrebbe da pensare, per gente che non scrive una nota o una riga di testo e si limita a saccheggiare la musica e i versi di altri.

I Blood Axis in verità non sono degli stupidi, il loro assemblare suoni e parole non è fatto a caso, c’è una filosofia dietro a questo disco. La stessa scelta di Pound, Nietszche e Manson risponde ad un criterio, poiché questi tre figuri, in ambiti diversi, incarnano quello che sono i temi portanti dell’opera: l’elogio alla follia, il disprezzo per le masse, l’affermazione egoistica dell’individuo; il coraggio come virtù necessaria per difendere e portare avanti le proprie convinzioni, anche a costo di subire l’emarginazione; la volontà di potenza, in definitiva, come unica via per raggiungere la piena realizzazione di sé. Alla classica idea del Super-Uomo nietzscheano come emancipazione da ogni morale e da ogni dio fanno da corollario un anticristianesimo sui generis ed un per niente celato culto della personalità.

Tutto il Blood Axis-pensiero trova la sua massima espressione nella marziale ed impetuosa “Reign I Forever”, apice emotivo dell’opera: lo scroscio di un temporale, il sibilare del vento e un lontano sferragliare di chitarra elettrica introducono le maestose orchestrazioni del celebre tema del “Romeo e Giulietta” di Prokofiev. Il canto minaccioso di Moynihan, qui nelle vesti di Thor, dio del tuono e della guerra, scandisce le parole del poeta Henry Longfellow, sbraitando ed inveendo in un reale delirio di onnipotenza. Tuoni e fulmini in sottofondo e rullo di tamburi, per un pezzo veramente emozionante (anch’esso destinato a divenire un classico) in cui la commistione di sacro e profano, di musica classica e contaminazione industrial, raggiunge livelli di intensità raramente sentiti altrove.

Tempo di riprendere fiato: l’interlocutoria “Absinthe”, unico momento non esaltante del lotto, si incentra su suoni sintetici tendenti al rumorismo e sul sussurro rarefatto di Moynihan, che si fa testimonianza di “vari corpi intossicati” (come enigmaticamente riportato nelle note del booklet interno). Si tratta del necessario preludio ad un altro momento topico dell’album, quello della conclusiva “Storm Of Steel”: introdotta da una sconsolante apertura di tastiere, nei suoi dieci minuti il brano offre quanto di meglio i Blood Axis sanno combinare se decidono di impugnare gli strumenti: desolanti arpeggi, esplosioni di chitarre al limite del doom metal, tamburi trottanti, cori trionfali e la solita magistrale interpretazione di Moynihan.

“The Gospel of Inhumanity” rimarrà per molto tempo l’unico full-lenght rilasciato dal progetto, fino a quando nel 2010, ben tre lustri dopo, uscirà come un fulmine a ciel sereno quel “Born Again” di cui si è già parlato: un lavoro che, forte dell’ingresso della moglie di Moynihan Annabel Lee (violino, fisarmonica, pianoforte, voce), abbraccerà in toto il verbo folk, corteggiato nel corso degli anni precedenti.

Tutta la produzione dei Blood Axis è eccellente, seppur dispersa in collaborazioni, split, EP, raccolte ecc., ma il Gospel rimane il Gospel: l’opera che tinge di leggenda l’operato di Moynihan e compagni, consegnandoli, in un sol colpo, nei ranghi degli artisti di punta del post-industrial. 

Da avere, senza se e senza ma.

Discografia essenziale: 
"The Gospel of Inhumanity" (1995)
"Blòt: Sacrifice in Sweden" (1998)
"Born Again" (2010)
"Ultimacy MCMXCI - MMXI" (2011)