Ricordo che da ragazzo, durante
le tante ore passate con l’atlante geografico in mano, catturava la mia
attenzione questa strana isola dell’Oceano Indiano dal nome così bizzarro. Forse
per la sua forma a goccia (o lacrima); o forse per la capitale dal nome
italiano (ma l’origine del nome Colombo, sia detto per inciso, non c’entra
nulla né col celeberrimo navigatore genovese né con l’Italia tout court).
Nei
vecchi atlanti stampati negli anni settanta ancora veniva riportato il nome
coloniale tra parentesi, Ceylon. Che a sua volta mi rimandava alle pubblicità
in tv di una nota marca di thè.
Con il passare degli anni poi, lo
Sri Lanka lo sentivo di tanto in
tanto nominare al TG per le stragi e le violenze derivate dalla guerra civile
scoppiata nel 1983 a seguito della rivolta delle famigerate Tigri Tamil, il
gruppo etnico indiano marxista-secessionista attivo nel nord dell’isola che,
per oltre 25 anni, ha tenuto sotto scacco il governo singalese (uccidendone
persino un primo ministro), lottando per la separazione e la creazione di uno
Stato indipendente.
Insomma, per tutto questo
associare lo Sri Lanka al Metal mi era parso davvero improponibile ma, lavorandoci
sopra, in realtà ho scoperto che la scena metallica non è così sparuta. E né
sprovveduta. Vi sono decine e decine di gruppi, per lo più nati dopo il 2000,
quando il nostro genere preferito ha visto un rapido sviluppo e aumento di
popolarità, soprattutto nella capitale e hinterland. E i generi a prevalere sono di gran lunga quelli estremi: death,
grind, black. Ma soprattutto, se un minimo comun denominatore può essere
ritrovato, è, oltre a quello della giovanissima età dei musicisti, è la catarsi, la sublimazione degli orrori della guerra civile, che, proprio per la giovinezza
di cui sopra, questi metallari singalesi hanno probabilmente vissuto in
tenerissima età.
Esemplificativi di quanto detto
sono i Funeral In Heaven, il gruppo
storico del black singalese, attivi da 16 anni. Accanto a tematiche
astrologico-demoniache, nei loro album sono appunto affrontati di petto i temi
della lacerante guerra civile; e alcuni loro video sono davvero per
gente forte di stomaco. La loro proposta musicale poi, basata soprattutto su
composizioni lancinanti in mid-tempo (ma non si disdegnano neppure
accelerazioni in blast-beat), presenta un’atmosfera avvolgente e davvero malevola.
Parti tribali e ambient rendono vario il tutto, con il batterista che si
improvvisa pure violinista. Insomma, è un sound che ci regala un po' di
orientalità e sapori folkish. Quello che speravamo di incontrare.
Comunque: da dove partire? Già
che abbiamo iniziato col black dei FIH, continuo a scavare lì. E che bella
partenza! Ci imbattiamo subito nei A Village in Despair (ottimo nome, ragazzi) fautori, seppur solo
per un EP di 18’, di uno splendido atmospheric BM con voce maligna, inserti ambient
e voce femminile.
Come avevo riscontrato in Libano,
anche qui in Sri Lanka i gruppi neri abbondano. E vi
segnalo gli ottimi Dhishti che,
messi sotto contratto dai russi della Rigorism, tirano fuori nel 2012 un full
lenght dallo stampo burzumiano/inthewoodsiano, “Meditation of death”, davvero
di buona fattura. Accordi circolari, screaming acutissimo e sofferto ed una
produzione volutamente lo-fi.
Non poteva poi mancare la
one-man-band black. Il protagonista questa volta è un ragazzino smilzo che pare
essere appena uscito dalle scuole superiori, tal Abigor Windeal, factotum del
progetto Baphometh (w l’originalità)
che in un paio di EP ci propone un acerbo black primissima maniera,
confusionario e mal suonato. E orrendamente cantato. Passare oltre, prego.
Per variare l’ascolto, cambiamo
genere e, dopo aver constatato che il thrash non tira granchè (però gli Ancient Curse non sono malaccio),
passiamo al melo-death. Se i Sevexth
e i Mass Damnation (questi ultimi,
scialbi epigoni degli In Flames 2.0) mischiano gli stilemi melo-death a quelli
groove/nu metal, con risultati mediocri, i Nefertem invece, con il loro “The Defiance”, si fanno portatori di
un ottimo death melodico molto epico. La voce è, come spesso avviene in questi
paesi, rivedibile ma brani come “A good servant, bad master” o “Rivers run red”
non hanno nulla da invidiare ai maestri del genere.
Ma, come accennato sopra, le
soddisfazioni maggiori ce le danno i gruppi estremi. Il death/grind, ad
esempio, annovera i pazzoidi Konflict
messi sotto contratto da una label cinese e che, tra rumorismi industriali,
riffoni rallentati, accelerazioni storcicollo e una voce disumana,
rappresentano davvero un bell’esempio di violenza sonora senza compromessi. Ma
i migliori, a mio modo di vedere, sono i
Genocide Shrines che declinano il death/grind su tematiche esoteriche.
Signori, questi 5 ragassuoli sono dei grandi e spaccano il culo ai passeri. E
hanno dei nickname sensazionali, tipo
BlasphemousWarGoat (si, tutto attaccato), NarkotikPerversor e Tridenterrorcult
(si, sempre tutti attaccati). Consigliatissimo il loro full lenght dal titolo
impronunciabile “Manipura Imperial Deathevokovil: Scriptures of Reversed
Puraana Dharmurder”. E i titoli dei 9 brani che lo compongono sono persino più
lunghi di questo…
Ma è con i Plecto Aliquem Capite che raggiungiamo il top della devastazione. Andate
a vedervi i due video gemelli “Hypersomnia” – “Parasomnia” per farvi un’idea. Noise
black con iconografia death-trash (con un’”acca” sola, nel senso proprio di
spazzatura). Paura…
Faccio un rapido tuffo anche su
generi più classici (heavy/prog) ma ciò in cui mi imbatto non mi stuzzica (non
male comunque i Nevi’im, prog metal
non banale il loro). E così, per concludere il mio viaggio mi rituffo nel
Depressive Black, tanto per andare sul sicuro.
“Suicidal mind” è già di per sé
un titolo emblematico. Il monicker è Solitary
Depression. Un polistrumentista e due cantanti. Titoli come “I failed” e
“Leave my tears upon my coffin” mi rendono simpatici assai i 3 singalesi. E il
contenuto, per quanto acerbo, è comunque valido.
Ormai lo abbiamo ben capito: i metallari
singalesi amano il Black e lo compongono, a parte qualche eccezione, davvero
bene. La lista sarebbe ancora lunga ma vogliamo segnalarvi giusto un nome: i Pariah Demise che ripropongono, nel
loro ottimo “Rise from our forefathers ashes” un true norwegian BM con voce
lancinante davvero suggestivo e che riporta ancora in primo piano il tema della
Storia dello Sri Lanka e dei suoi conflitti interni.
Ragazzi, qua di metal tropicale,
etnico e/o folkish se ne sente poco. Flora e fauna equatoriali non paiono
essere d’ispirazione per le metal band che preferiscono usare il mezzo
espressivo dei generi classici estremi. E come dargli torto quando vivi un
dramma che dura decenni con decine di migliaia di morti e un milione e mezzo di
sfollati?
Paura, frustrazione, solitudine,
angoscia. Lo Sri Lanka ci ha restituito questo. Parafrasando il noto proverbio,
lettore avvisato…