8 giu 2019

ANCHE QUESTA VOLTA GLI ULVER CI SONO...


Mi ricordo di uno spot pubblicitario, negli anni ottanta, di una nota marca di liquore in cui il presunto intenditore veniva bendato ed invitato ad assaggiarne tre diversi per vedere se riconosceva quello reclamizzato. E puntualmente ci riusciva, grazie al sapore unico ed inimitabile del prodotto in questione. 

Saremmo noi, in pari modo, capaci di riconoscere gli Ulver nel loro ultimo lavoro, “Drone Activity”, senza sapere che è degli Ulver? 

I norvegesi ci hanno da sempre abituati al cambiamento e quindi non ci stupiamo innanzi al loro ennesimo azzardo, questa volta compiuto dalle parti della drone-music, lido peraltro già calcato in “Terrestrial”, frutto della collaborazione con i Sunn O))) e schivato in diversi altri lavori.

Negli ultimi anni, in particolare, la discografia dei Nostri si è caratterizzata per l’alternanza fra album ufficiali ed operazioni che possiamo definire estemporanee, come l'album di cover anni sessanta "Childhood's End" e il più recente "live-album" “ATGCLVLSSCAP”, assemblaggio e rielaborazione di “suggestioni” estratte dalla stagione concertistica appena precedente.

Proprio a quest'ultimo lavoro (che presenta similitudini a partire dall'artwork) dobbiamo guardare per comprendere il nuovo “Drone Activity”, che condensa in settanta minuti il frutto di un’ora e mezza di libera improvvisazione in un capannone dismesso sul lungomare di Oslo, in seno al Red Bull’s Music Festival, lo scorso ottobre. 

Per una band che nonostante la lunga storia non può adagiarsi sugli allori e vivere di rendita (vedasi la recente cancellazione del tour americano per via delle scarse prevendite di biglietti), operazioni di questo tipo divengono occasioni indispensabili per tenere vivo il nome nel mercato discografico. E per questo siamo disposti a valutarle con maggiore indulgenza, assegnando loro lo status  di opere secondarie rispetto alla discografia "che conta" della band. Spiace solo constatare il brusco volta-faccia al raffinato electro-pop dell’acclamato “The Assassination of Julius Caesar” e della sua brillante appendice, l’EP “Sic Transit Gloria Mundi”: un percorso artisticamente virtuoso che aveva peraltro dato una maggiore visibilità al monicker.

Concentriamoci dunque sul peso specifico dell’opera in questione. Facendo questo, dovremmo partire dal seguente quesito: qual è la percentuale di Ulver che possiamo rilevare al suo interno? E ponendoci questa domanda si ritornerebbe alla situazione iniziale: se ci facessero ascoltare l’album “bendati”, ossia senza sapere chi l’ha suonato, sapremmo attribuirne la paternità? 

La mente legge/costruisce la realtà in base a categorie e conoscenze pregresse: nel momento in cui sappiamo che l’album è degli Ulver, riconosceremo senz’altro il tratto dei norvegesi in ogni singola piega dell’album, trovando persino scontato un esito sonoro di questo tipo. Ma se io non sapessi che l'album è degli Ulver, da fan di vecchia data mi troverei in forte difficoltà a rispondere con fermezza. Non c’è la voce di Kristoffer Rygg, che negli anni è rimasta il vero trait d'union fra passato e presente ed appiglio indispensabile anche per l’ascoltatore più navigato. Degli Ulver rimane solo la voglia di osare, che a conti fatti è divenuta l’essenza stessa della band. 

Più che una ricerca sistematica e scientifica, la vedrei come la volontà quasi compulsiva di confrontarsi, di volta in volta, con sfide più o meno inedite. Ogni volta, tuttavia, è come se si ripartisse da zero, non facendo più di tanto tesoro delle esperienze passate. Sarebbe dunque più opportuno parlare dell'approdo di un navigatore irrequieto che, giunto ad una spiaggia, riprende subito in mano gli ormeggi per dirigersi verso altre destinazioni, senza aver esplorato a dovere quella terra da cui sta salpando nuovamente. In questo continuo cambio di direzione non vi è in effetti una evoluzione che porta da A a B o C (come per esempio si può dire nel caso degli Anathema), ma un tracciato che assomiglia ad un diagramma radiale che, da un unico punto di partenza, si dipana in punti che si dispongono su una circonferenza, tutti più o meno distanti da quello di partenza. 

Un modus operandi, questo, che non lascia il tempo fisiologico per metabolizzare determinati stilemi e progredire stilisticamente, tant’è che in ambito ambient o, in questo caso della drone-music, i Nostri non sembrano in grado di svelare una propria cifra stilistica. Con il risultato che spesso si perviene ad esiti discografici che non presentano differenze eclatanti con altri prodotti partoriti nel medesimo ambito, né una elevata caratura se presi singolarmente. Questi lavori (che senza cattiveria potremmo definire il frutto di onesti esercizi di stile) non aggiungono nulla al genere di appartenenza e, per quanto riguarda la specifica produzione della band, sembrano penalizzati dalla trascuratezza di chi non ha più bisogno di dimostrare nulla. 

Eppure, nonostante tutti i preconcetti e le teorie sopra esposte, “Drone Activity” si fa piacere. Come spesso è capitato in passato, sono gli stessi limiti artistici dei Lupi a salvare in corner pubblicazioni che, se animate da maggior rigore, incorrerebbero in seri rischi di naufragio. E così i quattro lunghi movimenti che compongono l'opera procedono per addizione di elementi, scongiurando l'effetto noia che operazioni di questo tipo, se non realmente ispirate possono incorrere. Evidentemente i Nostri non erano intenzionati a mantenere fermo il timone lungo la via del minimalismo, cosa che invece i colleghi Sunn O)) hanno saputo fare in più di una circostanza, e con egregi risultati (si veda anche l’ultimo “Life Metal”).

Insomma, non aspettatevi solo droni, perché vi sarà molto di più: partiture elettroniche, aperture melodiche, ricami chitarristici, una pronunciata verve percussiva (che Rygg si trovi oramai più a suo agio con le bacchette in mano che dietro ad un microfono?), il tutto "ammassato un po' come viene", proprio come piace agli Ulver! Al profilo essenziale delle irrequieta suite cosmica “True North”, segue il pulsare kraut dell’accoppiata “Twenty Thousand Leagues Under the Sea”/“Blood, Fire, Woods, Diamonds”: un percorso in crescendo che culminerà nelle deflagrazioni noise/metal della conclusiva “Exodus”, unico episodio, a mio parere, che conservi peculiarità stilistiche specificatamente ulveriane (l’orecchio fino vi può udire echi di “Perdiction City”, ovviamente in una veste totalmente differente). 

Svolge un ruolo non di secondo piano la chitarra di Stian Wersterhus, già collaboratore dei Nostri in studio e sul palco. In particolare nello scorcio finale dell’opera, le sei corde si riveleranno determinanti nel delineare paesaggi sonori a metà strada fra Klaus Schulze (quello poliedrico di “X”), Pink Floyd e Sigur Ros, fino ad incresparsi minacciosamente nel repentino cambio d’umore, in cui l’excursus nella drone-music dei norvegesi si tinge di umori squisitamente catastrofici. 

Torna il Nord soprannaturale, tornano le misteriose creature che avevano caratterizzato opere come “Bergtatt” e “Kveldssanger” che, alla luce di “Drone Activity”, trovano una continuità nei drammi urbani di “Perdition City” e nella spiritualità raccolta del requiem “Shadows of the Sun”. 

Gli Ulver, nonostante tutto, ci sono anche questa volta.