I
MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL
1° CLASSIFICATO (parte seconda): “PERDITION CITY”
Nella nostra recensione di “Bergtatt” scrivevamo (e
in quella di “Kveldssanger” ribadivamo): “Gli Ulver, la Norvegia
di quegli anni, ci raccontano anche un’altra storia: il fatto che la vera Arte,
per motivi soprattutto sociologici, non si fa più nelle grandi città (Londra,
Berlino, New York), ma laddove non c’è niente, dove l’uomo, l’artista
può trovare se stesso e le verità dentro se stesso, non distratto dalla
confusione, dal chiacchiericcio, dalla frenesia della società del mondo
moderno.”
Bene, prendete quelle parole e buttatele pure nel cesso: il
Lupo lascia la foresta e scende in città! Ma non aspettatevi goffe imprese
da commedia americana in stile Mr Crocodile Dundee che, proveniente
dalla selva australiana ed atterrato a Manhattan, si ritroverà a “combattere” con
il bidet, quello strano sconosciuto! No, il Lupo scende dal taxi, veste cool
e si confonde nello scenario urbano, disinvolto schiva la folla e fa
il suo ingresso nel club più in della città.
Tappa numero due: “Perdition City”, anno 2000.
Li avevamo dunque lasciati a “Kveldssanger”. Il passo
successivo, “Nattens Madrigal”, fu un pugno in faccia per tutti quelli che si aspettavano il ritorno ad un bel black melodico intriso di
suggestioni folk, così come era successo con il prodigioso debutto “Bergtatt”.
No, niente di tutto questo: il Madrigale della Notte riemergeva dalla
ferocia più assoluta di un black metal primordiale che proprio dei primordiali
istinti dell’uomo andava a parlare. Licantropia, suoni
lo-fi e stile darkthroniano per l’ennesimo capolavoro targato
Ulver.
Ci fu poi la (s)volta dell’ancor più sconvolgente “Themes
From William Blake’s The Marriage of Heaven and Hell” (1998), incredibile
doppio-album che ci consegnava degli Ulver totalmente rimessi a nuovo. Via il
black metal, via la lingua norvegese, via boschi, lupi, miti e tradizioni del Grande
Nord. Con una formazione rimaneggiata che vedeva al suo centro il cantante Garm
(alias Trickster G., alias Kristoffer Rygg) e il sound-designer
Tore Ylwizaker (provvidenziale nuovo ingresso, nonché deus ex machina
del nuovo corso artistico dei Lupi), gli Ulver stravolsero il proprio sound
per addentrarsi nei territori dell’industrial-rock, dell’elettronica,
dell’hip-hop, dell’ambient e dell’avanguardia, mantenendo comunque forti dosi
di chitarra elettrica ed atmosfere gotiche d’antan. Le medesime atmosfere gotiche, faustiane, teatrali che avevano pervaso quel "divino" connubio fra
metal ed avanguardia che erano riusciti, un anno prima, a combinare gli Arcturus
de “La Masquerade Infernale” (alle cui registrazioni avevano partecipato
Rygg stesso, il chitarrista Knut Magne Valle e il bassista Skoll: in pratica
metà del coevo assetto ulveriano!).
Non ancora ripresi dallo shock, i fan
superstiti della band (perché non tutti ce la fecero a sopportare i radicali cambiamenti
portati dal Matrimonio del Cielo e dell’Inferno) dovettero subire un
ulteriore affronto. Quell’affronto portava il nome di “Metamorphosis”,
EP del 1999 che presentava solo ed esclusivamente sonorità elettroniche:
non altro che un piccolo assaggio che andava ad anticipare il capolavoro assoluto “Perdition
City”, edito l’anno successivo.
Gli Ulver di “Perdiction City” si sono ridotti ad un duo: Kristoffer
“Garm” Rygg alla “regia” e Tore Ylwizaker diviso fra pianoforte e pattern
elettronici. Contornati da uno stuolo di ospiti (fra cui sopravvive Haavard,
storico chitarrista della band), i due si dividono fra macchinari ed alambicchi
elettronici, generando visioni notturne di una Oslo da incubo urbano.
La bellissima voce di Rygg, sempre più pigro dietro al microfono, sopravvive in
sporadiche vocalità che si muovono disorientate fra le geometrie
spigolose di edifici di vetro e riflessi di luci al neon. Il suo avvolgente
timbro ricorda un George Michael epurato da tentazioni pop e condannato
all’obliquità di fraseggi che sono più vicini all’impro-jazz vocale che
alla “musica popolare”. L’album è praticamente strumentale, salvo qualche
gorgheggio nelle ottime “Lost in Moments” e “Porn Piece or The Scars
of the Cold Kisses”, mentre l’unico brano veramente cantato è la conclusiva
“Nowhere/Catastrophe”, sorta di astratta alt-pop song notturna, ballad
sconsolata da fine del mondo, trip-hop per sonnambuli, apice e manifesto concettuale dell’intero
album.
Per il resto il tessuto sonoro di cui si compone “Perdition City” è un’elettronica
ipnotica e suadente che guarda sicuramente al catalogo Warp dell’epoca
(Aphex Twin e Autechre in primis), ma che sa annettere a sé gli
echi di un jazz badalamentiano e il dark-industrial “lunare” dei Coil
(di cui gli Ulver non hanno mai nascosto una grande ammirazione). Senza perdere
in omogeneità e coesione, “Perdition City” sa passare in rassegna un vasto
immaginario sonoro che va da architetture minimal, scricchiolii e solchi
noise-ambient, a poderosi assalti orchestrali (con tanto di
doppia-cassa del grande Bard “Faust” Eithun degli Emperor, altro
ospite di ”lusso” nonché insospettabile presenza all’interno di un platter del
genere).
Atmosfere notturne, ambientazioni metropolitane, umori noir:
una serie di istantanee che tratteggiano una brulicante città della
perdizione, in cui immergersi ed annullarsi. Un rito che assume le fattezze di un aperitivo psicoanalitico. Attrazione, magnetismo,
fascino per la città della perdizione, ma anche alienazione, solitudine
e paura di smaterializzarsi in un pulviscolo cinetico di azioni fini a se
stesse (“Perso in momenti” è la traduzione del titolo del brano apri-pista). Gli
ampi accordi di piano di Ylwizaker e gli svolazzi di sax di Rolf
Erik Nystrom (presente in veste di session) conferiscono
calore e spessore ad un impianto celebrale fatto di suoni processati ed
incespicanti beat elettronici (molti dei quali farina del
sacco di Rygg, dato che è riconoscibile il tocco un po’ rozzo di certi inserti electro
rinvenuti nei brani degli Arcturus).
In questa caduta libera ed incosciente verso ignote
destinazioni, i “principianti” Ulver niente hanno da invidiare a grandi autori come
Christian Fennesz e Bernard Fleischmann, che fra l’altro solo
successivamente (rispettivamente nel 2001 con “Endless Summer” e nel
2003 con “Welcome Tourist”) produrranno i loro capolavori. Artisti,
questi, che vogliamo citare in quanto con gli Ulver condividono una concezione “umana”
dell’elettronica, elevata a medium artistico per l’espressione di sentimenti,
di emozioni, di mondi interiori (e non è un caso che il sottotitolo dell’album
sia proprio “Music to an interior film”!). Parole che mi fa piacere spendere
in quanto, se all’epoca la proposta dei nostri mi sembrò (nella mia insipienza)
impersonale ed a tratti pasticciata, oggi, con le orecchie ben più allenate, mi
sento di sostenere che l’opera degli Ulver non è affatto da relegare alla serie
B dei “dilettanti allo sbaraglio”. Questa mia impressione verrà confermata
dal fatto che la band e le sue opere diverranno nel tempo oggetto di
rivalutazione anche da parte di certi “salotti bene” dell’intellighenzia
musicale più snob.
Da ascoltare rigorosamente con cuffie ed immersi nella più
profonda oscurità, preferibilmente negli stadi appena prima o appena dopo il
sonno (come consigliato dagli stessi autori), “Perdition City” è una
perla preziosa che certifica la straordinarietà (dentro e fuori i confini del metal) di un ensemble che ha saputo nella sua corsa spericolata cogliere
e vincere le sfide più impensabili.