Mi ero ripromesso come recensore di non esprimere più mezze opinioni, ma solo giudizi chiari, netti, trancianti: o elogi sperticati o stroncature senza appello.
Ecco però che con gli Ulver, come al solito, le cose si
complicano...
Per ascoltare "The Assassination of Julius Caesar" ho fatto una cosa che non facevo da molto tempo: ho scelto un momento propizio in cui sapevo che nessuno mi avrebbe rotto i coglioni, mi sono sdraiato sul letto, ho spento il cellulare, ho inforcato le cuffie ed aperto il booklet con i testi. Un lusso di questi tempi, ma questo lo dovevo agli Ulver, che seguo dagli inizi: se questa vita frenetica ci sequestra il tempo, cerchiamo allora di lavorare sulla qualità di quel poco che ci rimane. Gli Ulver se lo meritano.
L'idea di leggere con
attenzione i testi non origina però solo dal rispetto nutrito per Kristoffer Rygg e soci, ma viene in
parte suggerita dal fatto che l'opera si immerge in un complesso concept
lirico in cui i vari brani (musicalmente scollegati fra loro) si
specchiano l'uno nell'altro attraverso una serie di rimandi principalmente di
matrice storica: ignorare questa componente avrebbe offerto una lettura
parziale dell'ultima fatica discografica dei Lupi, tanto più che a questo giro la scelta ricade su una
inaspettata veste "pop".
In verità
"The Assassination of Julius Caesar" non è propriamente un album pop
(avevate forse dei dubbi?)
in quanto l'adozione degli stilemi dell'electro-pop,
che non è un male in sé, si impregna di quelle soluzioni non banali a cui i
norvegesi ci hanno da tempo abituati e che fanno del prodotto un qualcosa che
non rinnega la ricerca stilistica che la band
porta avanti praticamente da sempre.
Un melting pot d'autore,
dunque, che sa sintetizzare electro-pop
ottantiano ed atmosfere sfacciatamente neo-romantic
con la solita parata di influenze kraut,
cosmic, elettronica, dove i riferimenti primi continuano ad essere David Sylvian (figura chiave per i
"nuovi" Ulver) e Tangerine
Dream. Ma a ben vedere non si tratta della svolta fatta tanto per stupire,
perché, proprio alla luce della lettura dei testi, l'aver optato per sviluppi
lineari che prediligono il formato canzone, una durata dei brani mediamente
contenuta, melodie orecchiabili e ritornelli talvolta accattivanti sembra una scelta funzionale
proprio ad acuire il messaggio lirico.
Inevitabilmente la chiave di
lettura ideale per comprendere al meglio l'opera diviene intersecare le due dimensioni. Sotto questa luce, un pugno di canzoni pop diviene la beffarda veste per una cinica visione della Storia, in cui
"le tragedie si ripetono in un cerchio perfetto": uno spericolato
viaggio dalle ampie maglie spazio-temporali fatte di accostamenti impensabili. Uno su tutti: l'imperatore Nerone che dà ordine di incendiare Roma
da un lato e l'incidente stradale in cui perse la vita Lady Diana dall’altro. Non si tratta di nomi e fatti pescati a caso: il nesso c’è
e sta nei riti pagani dell'antichità (Nemoralia: Il Festival delle Torce) volti al culto della Dea Diana, appunto. Ma è la cornice, ossia
la fase dell'Impero Romano in cui convivevano paganesimo e cristianesimo, ad
intavolare il tema principe, ossia quel copulare di sacro e profano, che poi
non è altro che quello di cui da sempre ci parlano i Lupi, dalle origini immerse nel folclore nordico, alle liturgie "chiesastiche" del
recente "Messe I.X-VI.X".
Ed è divertente (si, tragico
ma anche divertente) ritrovare tutto questo in un album dalle movenze sensuali,
ammiccanti, a tratti radiofonico, a tratti ballabile: un'opera che va a certificare una coerenza
concettuale che sa andare oltre gli abiti di volta in volta indossati. Del
resto oramai (e non da oggi) la libertà degli Ulver è puramente concettuale,
volitiva, una vera e propria cifra stilistica. Ma da un punto di vista
espressivo gli Ulver rimangono gli Ulver, con i loro pregi e i loro difetti…
E già a questo punto
incontriamo le prime difficoltà di valutazione: applausi per questa band unica
che si muove oramai al di fuori di ogni riferimento stilistico conosciuto; però attenzione
a non farsi abbagliare, perché lo spettro del manierismo, dopo così tanti anni
di attività, sebbene ben nascosto, è presente. A peggiorare le cose,
paradossalmente, la mano pesante di Martin "Youth" Glover, che si
porta dietro una storia assai illustre: bassista della prima formazione dei Killing Joke, guru nel corso degli anni novanta negli
ambienti techno-ambient ed infine produttore di grido (di recente, peraltro, lo
abbiamo visto a fianco di David Tibet
dei Current 93 nel progetto
esoteric/ambient "Hypnopazuzu").
Per la prima volta, infatti,
gli Ulver sembrano più manierati e portatori di qualche soluzione non proprio
loro. La forma comunque ne giova (i suoni sono strepitosi e la cura del dettaglio è a dir poco maniacale) e poi, si diceva, la valenza dell'opera sta
soprattutto nell'integrazione fra suoni
e parole. Vediamole.
In passato ho affermato che
Rygg non è un paroliere irresistibile e non sono oggi a rimangiarmi la parola.
Lo definii "una persona in origine brillante (che), una volta calata nelle
vie ristrette di una lingua non sua, si limita a fare battute fulminee e
volutamente criptiche per celare le falle della sua scarsa padronanza della
lingua inglese". Leggendo i testi di "The Assassination of Julius
Caesar" l'impressione si conferma. Ma nonostante questo Rygg rimane una
persona brillante e riesce ad inanellare, in qualche modo, una serie di
immagini vincenti che, associate al tono beffardo della sua voce (oramai un mix indissolubile di tonalità
carezzevoli, flavour epico e melodie oblique),
creano un effetto straniante che sa mettere insieme, in modo credibile, tragedia e farsa.
Nel ritornello della bella opener "Nemoralia" (gioiello electro-pop che già possiamo annoverare fra i classici del repertorio ulveriano), si consuma il primo
bizzarro ossimoro, dove da un lato si fa riferimento all'incendio appiccato da
Nerone (un fatto tragico, senza dubbio), ma dall'altro lo si fa in modo trasognato,
come se si assistesse ad uno spettacolo pirotecnico da un bar sulla spiaggia, sorseggiando cocktail all’ora dell’aperitivo, prima di andare in discoteca. Ed è
già pelle d’oca ad ogni piè sospinto…
"Rolling Stone" (questa volta il riferimento è alla pietra del
sepolcro di Cristo, e il richiamo alla band di Mick Jagger e soci, da sempre simbolo di trasgressione
nell'immaginario collettivo, non è altro che l'ennesimo duello fra sacro e
profano, spiritualità e cultura popolare) strappa un sorriso per
l'auto-citazione del ritornello che recita "Poor little sister, I hope you
understand, The babe in the woods will be taken by the wolf" (che
addirittura vi sia un richiamo a "Bergtatt" e "Nattens Madrigal"?). E, tornando
alla musica, vi è da segnalare un bel ritornello con controcanti femminili "very urban" che se si trattasse di un duetto di Beyonce e Jay-Z saremmo tutti qui ad indignarci, ma siccome sono gli Ulver ci piace. E'
il pezzo, ad ogni modo, ad essere irresistibile, almeno nella prima parte con il
suo groove martellante e i ricami
avvolgenti della chitarra distorta. Un po' leziosa invece la seconda porzione
dove il brano sprofonda in un maelstrom
di percussioni ed in esso si inseriscono le contorsioni di sax (cortesemente da parte
di Nik Turner, Hawkwind): qui riemergono gli Ulver avanguardisti di "Blood Inside", governati dalla
mano sapiente di Youth, che ne addomestica le intemperanze, laccando
doverosamente i suoni, ma svuotandoli di verve
(quello che manca un po' a tutto l'album).
E come non può non affiorare sulle
labbra una smorfia di soddisfazione con "So Falls the World", ballata dai toni elegiaci, grazie
alla quale tornano alle mente gli umori crepuscolari di quel capolavoro che era
stato "Shadows of the Sun".
Essa, fra orchestrazioni maestose e ritmiche soffuse, narra della caduta di
Roma, per poi animarsi nel finale con un'esplosione dance delle più bieche, a schernire gli umori apocalittici e
seriosi che avevano pervaso il brano fino ad un secondo prima.
Con questo prodigioso terzetto iniziale gli Ulver offrono le loro migliori energie di questo anno di grazia 2017: l'album di fatto perderà, proseguendo, un poco di tonicità a livello musicale, sebbene la narrazione che lo pervade manterrà alta la tensione.
Con questo prodigioso terzetto iniziale gli Ulver offrono le loro migliori energie di questo anno di grazia 2017: l'album di fatto perderà, proseguendo, un poco di tonicità a livello musicale, sebbene la narrazione che lo pervade manterrà alta la tensione.
"Southern Gothic" (che fin dal titolo sembra voler richiamare
la “Norwegian Gothic” di "Wars of the Roses") torna a
cavalcare sonorità electro-pop, ma lo fa in modo meno convinto: senza far
gridare allo scandalo, essa costituisce un primo momento di stanchezza. Quanto
al testo, continuo a sogghignare, mentre Rygg, con un'enfasi pure eccessiva (che
mal cela un ironico distacco nel guardare l'umano
affliggersi su questo mondo), canta "But you do not listen, your mind
is somewhere else, I speak with a frozen tongue, in a dead language",
tracciando i contorni di un difetto di comunicazione che attraversa la Storia
intera.
Insensatezza e morte: questo
il filo rosso che attraversa la Storia e la sua bislacca ricostruzione che gli Ulver ci offrono.
Di guerra ci parla infatti "Angelus
Novus", che riporta l'album ad alti livelli, grazie a suoni densi e
pregni di pathos, con synth epici e
solenni che sospingono un Krygg in stato di grazia. Qui il riferimento è la
battaglia di Dunkerque (Seconda Guerra Mondiale), e mentre osservo la foto in
bianco e nero che ritrae truppe di soldati che si ritirano via mare non posso
non impressionarmi nel leggere i seguenti versi: "Back to the beginning of
time, an endless beach, where a table has been set for one with salt and
water". Se non altro, rimane una bella immagine quella di una "spiaggia infinita" chiamata, in
questo caso, a simboleggiare la schiera senza fine di vittime e di eccidi che di
sangue hanno macchiato la Storia dell'Uomo.
Il brano, a guardar bene,
costituisce, insieme ai due successivi, un concept
nel concept, una sorta di Trilogia della Morte, sebbene (altro
paradosso) essi suonino come i più pop dell’album. "Transverberation", che parte evocando il tentato-attentato di Papa Wojtyla, affonda nuovamente gli “artigli”
nel "sacro", ma lo fa con piglio neo-romantic,
come potrebbe fare una band di oggi dedita al revival ottantiano più ispirato.
"1969", sempre con eleganza e suoni raffinati, enuncia una
serie di eventi verificatisi in quel periodo: dalla strage di Beverly Hills (dove per
opera della setta di Charles Manson
perse la vita Sharon Tate, moglie di
Roman Polanski), alla pubblicazione
della "Bibbia Satanica" di Anton
LaVey, passando per la beatlesiana
"Helter Skelter", canzone
che, come tutti sanno, costituì il clic nella testa che condusse Manson ai
fatti sanguinari poc'anzi citati.
"Let
it Bleed"…
Si torna a casa. "Coming Home" è il momento meno pop
del lotto: la voce di Krygg si fa roca e greve, il suo crooning recita i titoli di coda, trasportato da un'elettronica
minacciosa, sospesa fra trip-hop ed
atmosfere notturne. Un po' di maniera, invece, la coda strumentale a base di
ritmi incalzanti, imponenti bordate di synth
e sax squillante: tutta fuffa che gli
Ulver riversano nelle nostre orecchie, forse per riaffermare il loro status di
inguaribili avanguardisti (come se, dopo tutti questi anni, ce ne fosse ancora
bisogno). E così, mentre queste note svaniscono, l’impressione è che le
emozioni appena vissute siano qualcosa di evanescente,
pronte a smaterializzarsi appena avremo posato il booklet e il silenzio tornerà a regnare.
Che dire, dunque: purché Kristoffer Rygg canti, a noi ci va bene tutto! Ma al di là di questa innegabile buona notizia, “The Assassination of Julius
Caesar” è un album modesto, o semplicemente buono, ma sicuramente non qualcosa di sensazionale. I dati nudi e crudi ci dicono che su quarantatre minuti di durata, almeno quindici non sono
proprio imprescindibili: un po’ troppi, se si pensa che nessuno corre dietro
agli Ulver, i quali, invece di rilasciare un album dopo l’altro, potrebbero
raccogliere energie ed attendere il momento propizio per pubblicare quei capolavori
che sono alla loro portata.
I norvegesi, in definitiva, portano bene i loro anni (oramai più di venti), ma forse essi
ci appaiono più giovani di quello che
sono per un mero effetto ottico (o sonoro...): un po' per le continue metamorfosi (che portano ogni volta linfa vitale),
un po' perché i Lupi sono approdati solo
negli ultimi anni ai salotti buoni della critica musicale,
la quale, scoprendoli di recente, li vede ancora come una proposta fresca. Un po' perché riverniciati a nuovo dal buon Martin
"Youth" Glover: un tagliando che però solo in
parte copre le falle di ispirazione che inevitabilmente possono affossare chi è
da così tanto tempo, e in modo così prolifico, sul mercato discografico.
Una produzione sempre di alto livello, quella degli Ulver, ma che, in particolare da dopo "Shadows of the Sun", sembra volersi limitare a menar il can per l’aia, mettendo insieme ottimi brani, qualche riempitivo di troppo e colpi di scena che esaltano più chi li ha scoperti di recente e si accontenta della forma, che chi li segue da sempre e bada invece alla sostanza…
Una produzione sempre di alto livello, quella degli Ulver, ma che, in particolare da dopo "Shadows of the Sun", sembra volersi limitare a menar il can per l’aia, mettendo insieme ottimi brani, qualche riempitivo di troppo e colpi di scena che esaltano più chi li ha scoperti di recente e si accontenta della forma, che chi li segue da sempre e bada invece alla sostanza…