26 set 2019

SPACE ROCKS: ANATHEMA, AMPLIFIER, VOYAGER LIVE AT INDIGO - LONDON (21/09/2019)



Space Rocks è un evento che, nell’arco della giornata di sabato 21 settembre, ha ospitato scienziati, studiosi, ex astronauti, attori, scrittori e chi più ne ha più ne metta. Il tema: lo Spazio, in senso ampio, ampissimo e...cazzo frega a me dello Spazio? 

Il fatto è che nel programma del festival troviamo anche la “cosmic music” (così recita la locandina...) di Anathema, Amplifier, Voyager e Anna Phoebe. A solleticare la mia curiosità, ovviamente, è stata la presenza in cartellone degli Anathema che, per l'occasione, avrebbero confezionato uno show unico con l’apporto multimediale della visual media artist Kristina Pulejkova e della European Space Agency

Il titolo scelto per lo spettacolo, “The Space Between Us”, in verità potrebbe dire tutto e niente (e stando alle parole dello stesso Vincent Cavanagh, parrebbe essere legato più che altro ai temi della comunicazione e della interconnessione fra esseri umani), ma era lecito aspettarsi qualcosa di diverso dal solito: non dico una improvvisazione dalle tinte cosmiche, ma almeno una riapparizione sul palco dell’antico spirito pinkfloydiano della band, o una rispolveratina di episodi un po’ più datati e dal tocco “siderale” come “Eternity part 1 e 2”, “Alternative 4”, "Pulled under at 2000 Metres a Second”. Tanto più che nelle date dei mesi precedenti i Nostri avevano mostrato maggiore indulgenza nei confronti del loro glorioso ma bistrattato passato, pescando a piene mani da “Judgement” (“Deep”, “Don’t Look so Far”, “One Last Goodbay”, Parisienne Moonlight”), “Alternative 4” (“Lost Control”, “Regret”, “Destiny”, oltre all’immancabile “Fragile Dreams”) e persino qualcosa da “Eternity” (“Angelica”) e “The Silent Enigma” (“A Dying Wishah, che goduria...). 

Insomma, io adoro gli Anathema e li ho visti diverse volte dal vivo: come headliner e come gruppo spalla; in tour promozionali e in date estemporanee, ma sempre con scalette circoscritte all’ultima loro fase artistica, cosa che nel tempo è divenuta un tantino prevedibile e limitante per il reale potenziale della band e per la sua illustre storia. Questa dunque poteva essere la volta buona per vedere qualcosa di diverso. 

Procediamo con calma. La coda fuori dal locale è già lunga e pare di essere alla Sagra della Normalità. Non è facile distinguere gli appassionati di fantascienza da quelli che sono espressamente venuti per il concerto. Qua e là spunta qualche maglietta di Anathema e Paradise Lost, ma ben più numerose sono quelle di Tool, Tesseract e Pineapple Tree, a dimostrazione di quella che è l'attuale fan-base della band di Liverpool. I metallari veri e propri oramai si contano sulle dita di una mano, mentre a prevalere sono i cultori del prog classico (con picchi di età anche molti elevati) che ben si mescolano alla schiera dei nerd attirati dalle tematiche spaziali. Non manca qualche personaggio strambo appartenente ad entrambi i mondi. 

L’Indigo stasera è un angolo di intimità passatista nel più ampio e caotico complesso dell’O2, entro il quale la famigerata O2 Arena è il luogo a Londra dove suona la gente che conta. Più che al futuro il contesto sembra guardare al passato: il clima è di ordine e raccoglimento, echeggiano canzoni dei Beatles, la gente ti fa passare avanti lungo la fila al bar, mentre crani calvi e occhiali infestano l'ambiente. Qua e là sono ancora presenti stand con gadget, plastici degni di un laboratorio di scienze di scuola media e macchinari che sembrano uscire da un film di fantascienza degli anni sessanta; sul palco, di lato, campeggia persino un missilone bianco un bel po’ kitsch. Così su due piedi, mi pare l’evento più "provinciale" a cui abbia partecipato da quando vivo a Londra: l'aria che si respira sa di iniziativa municipale, con la differenza però che a suonare non c’è la banda di paese ma gli Anathema. 

Partono i Voyager, direttamente dall’Australia, con un prog-metal che rispetta tutti i crismi della contemporaneità. Nonostante le tematiche spaziali trattate nei testi, quella che udiamo è musica con i piedi ben piantati per terra. Da certe ruffianerie targate Muse alle sfuriate djent che chiamano in causa i Meshuggah (con tanto di growl in un passaggio – decisamente fuori luogo a mio parere), non sembra mancare proprio nulla alla proposta degli australiani, eccetto l’originalità. Una mezz’oretta dignitosa, quella dei Voyager, musicisti più che discreti ma dallo scarso carisma e, nonostante i quasi vent’anni di esistenza, ancora un po’ ingenuotti sul palco: basti dire che alla fine dell’esibizione mi è venuta voglia di Dream Theater

Decisamente più interessanti sono risultati gli Amplifier, spostati su un sound più soft, psichedelico e, diciamolo, finalmente “spaziale”, in perfetto tono con la serata. Già durante il soundcheck il cantante/chitarrista Sem Balamir (che potrebbe sembrare l'onesto droghiere sotto casa) si era rivelato un personaggio simpatico, cimentandosi in un paio di siparietti dallo squisito humour inglese. Nel momento in cui le luci calano in sala, tuttavia, egli saprà sfoggiare una caratura di sincera autorialità, sebbene anche gli Amplifier, fra Pink Floyd e Porcupine Tree, non brillino per l’originalità. Ma le fluide suite imbastite dal trio, con qualche distorsione chiamata a graffiare certe melodie fin troppo scorrevoli, sono balsamo per le orecchie e consegneranno le prime vere emozioni della serata: cosa che rende gli inglesi non solo un gustoso antipasto per il piatto forte della serata, ma anche una realtà degna di essere approfondita una volta tornati a casa. Grandi Amplifier! 

Con qualche minuto di ritardo (cosa strana a Londra) ecco che finalmente Daniel Cavanagh compare sulle assi, sorridente e caloroso come suo consueto. L’inizio è da brividi, con la violinista Anna Phoebe a dar man forte in quella che sembrerebbe una rivisitazione post-rock di “San Francisco”: un crescendo strumentale che vede i musicisti unire le proprie forze per introdurre il pubblico nel loro universo di emozioni. Per il sottoscritto son già lacrime: non perché sul palco accada chissà che cosa, ma perché gli Anathema, ogni santissima volta, sanno fottutamente emozionare. Scoordinati, imprecisi, sembrano dei ragazzi alle prime armi che provano nel garage, ma che grande cuore sanno ancora mettere nelle mani dei loro fan. Una sensazione rara, difficile da spiegare: forse chi non li ama potrà ritenerli dei “vecchi dilettanti”, eppure, con tutte le imperfezioni, le sbavature, i disallineamenti, la loro musica non perde mai di vista la sua funzione principale: quella di emozionare

Per "effetto strascico" mi godo anche la movimentata “Can’t Let Go”, sebbene non sia il mio estratto preferito dell’ultimo album. La tensione calerà mano a mano che i pezzi verranno eseguiti, insinuandomi un atroce dubbio che poi si rivelerà atroce certezza: anche stasera ce ne torneremo a casa senza nessun vecchio classico in saccoccia. “The Lost Song, part 3”, che già su disco non mi ha mai entusiasmato, sul palco non sembra rendere meglio, avventandosi su di noi in modo un po' disordinato; “The Optimist”, che avevo già visto dal vivo, me la sarei francamente evitata; anche “Thin Air”, che in verità ha sempre un buon tiro sul palco, alla centomillesima volta che te la ripropongono perde un attimino di mordente. E poi “Springfield”, che evidentemente piace tanto alla band, ma che a me sinceramente fa sbadigliare già dopo trenta secondi. 

Ne approfitto per andare al bagno e cambiare lato del palco, visto che la figura pingue di Daniel e il suo fare ciarliero da animatore di villaggio-vacanze mi iniziano ad urtare: mi rifugio così sotto le gambe di Lee Douglas che stasera, grazie ad un vestito che le dona in modo particolare, sembra più bella del solito. 

Con la seconda parte del set le cose miglioreranno, e non per le grazie della Douglas, che mantiene come sempre il suo basso profilo. Coinvolge anzitutto la riproposizione integrale della lunga e visionaria “The Storm Before the Calm”, dal suo incipit di cupa elettronica all’enfatico finale orchestrale. La Douglas, come già riscontrato la volta precedente, appare decisamente più in forma di Vincent, giù di corda anche stasera. Daniel, come al solito, suderà le proverbiali sette camicie coordinandosi fra chitarra e pianoforte. Nel sottofondo passano fotogrammi, animazioni, riprese satellitari che vanno dal tema spaziale a quello paesaggistico, non senza il richiamo frequente a quello – attualissimo – dei cambi climatici (mi fa ‘na sega il Jova Beach Party!). 

Qualche incertezza mina l'inizio di “Closer”, tanto che Daniel decide di interrompere tutto ed imbastire un breve siparietto con il fratello che ha qualche problema con il vocoder. Risolto l'inghippo, la cassa inizia a pulsare, trasformando la sala concerto in una discoteca, come del resto accade sempre con questo brano. Il trend positivo viene consolidato dalle buone vibrazioni emanate dalla band, che dopo un lungo rodaggio sembra essere finalmente entrata nel giusto mood (altra costante delle esibizioni degli Anathema). Vincent fa la spola fra palco e retrovie, dove nell'oscurità può con calma armeggiare ai suoi marchingegni, lasciando spesso i riflettori alla Douglas.

A proposito della Douglas, la palma di miglior brano toccherà stasera a “A Natural Disaster”, dove la Nostra recita la parte della protagonista, e con la Phoebe che torna ad incantarci con il suo violino. Il fatto è che, nonostante i brani proposti siano più o meno sempre gli stessi, un concerto degli Anathema si conferma ogni volta unico ed irripetibile. Questo perché i Nostri rifuggono la freddezza e la prevedibilità del mestiere, e dunque può capitare che oggi venga bene un brano e domani un altro a seconda delle alchimie del momento. 

Distant Satellites”, attraversata da ipnotici beat elettronici e vigorose percussioni nel finale, risulterà un altro passaggio memorabile del concerto. “Untouchable, Part 1”, accolta con un boato, puzza di gran finale, considerato anche l’orario, ma ecco che una “Untouchable, Part 2” (altro grande momento, non a caso dominato dalla voce cristallina della Douglas) rimescola le carte in tavola, rimarcando il fatto che verso la fine di ogni concerto degli Anathema arriva sempre quel magico momento in cui pare che l’esibizione prenda un corso imprevisto e tutto possa accadere. Lo conferma l’inaspettata cover di “Keep Talking” dei Pink Floyd, di certo non il brano più esaltante del non esaltante “The Division Bell”, ma davvero accattivante nella veste tagliata dagli Anathema, con le prodezze solistiche di Daniel che rievocano l’estro del grande Gilmour

Ma proprio sul più bello, ecco che tutto finisce. Daniel, incassato il diniego definitivo da parte dei fonici, se ne va via mostrando evidenti segni di stizza, facendoci intuire che avrebbe continuato volentieri. In effetti un’ora e mezza è poca cosa per la portata emotiva degli Anathema: io sarei rimasto anche tutta la notte ad ascoltarli, ma se poi si fosse trattato di sorbirsi per l’ennesima volta “Fragile Dreams”, forse è meglio essersi salutati qui. 

La scaletta e l’evento in sé, non presentando quei caratteri di specialità sperati, sono stati una mezza delusione, inutile negarlo. Ma assistere ad un concerto degli Anathema non è mai tempo sprecato, in quanto le emozioni, con i fratelli Cavanagh sul palco, non mancano mai...