"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

30 apr 2016

RESURREZIONI (settima puntata): ANATHEMA, SIAMO QUI PERCHE' SIAMO QUI!




Quello che doveva essere un post prettamente pasquale (il tema della resurrezione nasceva proprio come spunto per celebrare quelle festività, sebbene passare la Santa Pasqua assieme agli Swans non sia stato proprio il massimo dell’ortodossia cristiana!) è divenuta un saga di sette puntate dedicate alle reunion o alle rinascite artistiche che si sono verificate negli ultimi anni nel metal. Se abbiamo avuto modo di onorare gli apprezzabili ritorni di Swans (appunto), Burzum e Celtic Frost (tanto per citare quelli che abbiamo gradito di più), abbiamo anche dovuto constatare che la maggior parte di queste operazioni si sono rivelate, se non disastrose, poco significative. Heavy metal classico, glam, thrash, death: nessuno è scampato al fenomeno dell’Eterno Ritorno.

Concludiamo tuttavia questo ciclo di trattazioni (che ovviamente non ha pretese di esaustività) con una nota positiva: il ritorno degli Anathema con l’ottimo “We’re Here Because We’re Here”, rilasciato dopo sette interminabili anni di silenzio discografico.


Abbiamo già abbondantemente parlato della creatura dei fratelli Cavanagh sul nostro blog, toccando un po’ tutte le fasi artistiche attraversate dalla band inglese, dal doom/death degli esordi al rock sofisticato dei nostri giorni: analizzando il brano “We, The Gods”, parlando degli Antimatter (il progetto avviato dall’ex bassista Duncan Patterson) e ponendo l’eccellente “Weather Systems” al secondo posto della nostra classifica dei migliori album non-metal fatti da band o artisti metal.

Dal punto di vista della chiarezza d’intenti, quella attuale è la fase più splendente dell’epopea artistica degli Anathema. Guardandolo a posteriori, il percorso di maturazione della band si è rivelato strettamente legato alle dinamiche interne nella band, la quale, nonostante gli svariati cambi di line-up, è riuscita con costanza ad assicurare una produzione discografica più che buona.

Gli Anathema nascevano con tre teste pensanti: il cantante Darren White (poeta romantico dalla voce da orco), il chitarrista Daniel Cavanagh (estroso come pochi in ambito gothic-doom) e il bassista Duncan Patterson (anima sperimentale sospesa fra Pink Floyd e Celtic Frost). Con l’uscita di White, le energie creative iniziarono a polarizzarsi intorno alle figure carismatiche di Cavanagh e Patterson. Se la spinta volta ad emanciparsi dagli stilemi del metal estremo fu principalmente dovuta a Patterson, egli trovò sicuramente in Cavanagh un valido alleato. Nello striscione del traguardo c’era scritto “Pink Floyd” e in questa corsa il bassista rappresentava indubbiamente l’anima watersiana, mentre il chitarrista quella gilmouriana. Logico che due forze così complementari, ma anche opposte (l’una tendente al minimalismo, l’altra alla sontuosa messa in scena), dovessero, dopo aver dato grandi frutti, finire per manifestare la loro inconciliabilità.

Uscito Patterson (come si diceva, egli fondò gli Antimatter), tutto il peso creativo gravò di colpo sulle spalle del buon Daniel (sebbene piano piano stesse emergendo il potenziale del fratello Vincent, che nel frattempo era subentrato a White in qualità di vocalist). La band in un primo momento sembrò subire il contraccolpo e “Judgement” appariva ancora influenzato dal fantasma dell’ex bassista, come se i Nostri non fossero in grado fino in fondo di liberarsi dall’ego ingombrante di colui che una volta era stato il maggiore autore all’interno della band. “A Nice Day to Exit” già rappresentava un bel passo avanti, distaccandosi definitivamente dall’universo dark/pinkfloydiano tanto caro a Patterson, per spostarsi verso un rock sentimentale e moderno in stile Radiohead. A sentire Daniel, però, la gestione della band non era per niente facile, sentendosi sul groppone non solo le responsabilità della direzione artistica, ma anche di tutto il resto (organizzazione, promozione ecc.), tant’è che una sera, ubriaco fradicio, esasperato e mezzo depresso, decise di ufficializzare sulla pagina web il suo abbandono. Ciò avveniva nel 2002, anno in cui il Nostro si unì agli Antimatter, già orfani di Patterson (ma va?) e sotto la guida del solo Mick Moss.

Apprendendo la notizia, mi chiesi cosa si sarebbero inventati i superstiti Anathema privati della loro guida. La mia risposta fu: nulla. Ed infatti nulla fecero, ma ebbero anche poco tempo per ingegnarsi, visto che il chitarrista rientrò quasi subito e la band dette alla luce “A Natural Disaster”, completamente scritto da Daniel. In esso troviamo forse i momenti più “alti” di quella fase con brani come “Closer”, “Are You There?”, “Flying”, e la splendida title-track, brano intenso che portava i Nostri addirittura dalle parti del trip-hop portisheadiano, eleggendo come protagonista l’ugola fatata della cantante Lee Douglas (sorella del batterista John). “A Natural Disaster”, tuttavia, non sempre appariva perfettamente focalizzato, rivelandosi discontinuo e a tratti sbilanciato (perché, per esempio, concludere il tutto con una strumentale di dieci minuti come “Violence”, la quale sfoggiava al suo interno blast-beat e partiture black metal che peraltro gli Anathema non hanno mai annoverato fra le proprie influenze?). Era la solitudine artistica di Daniel Canavagh, lasciato a se stesso, libero di sbagliare, senza un valido argine quale era stato in passato un autore rigoroso come Patterson.

Era il 2003. A seguito la band cadde in un limbo di immobilità per molti anni. Non giunse mai la notizia di un loro scioglimento, ma i segnali non erano incoraggianti. L’abbandono, seppur temporaneo, di Daniel aveva costituito un precedente inquietante e non dava sicurezze sulla tenuta della band, che incorse in grandi difficoltà nella ricerca di una casa discografica che la supportasse in modo adeguato. Abituati ad una uscita discografica ogni due anni (in certi casi, anche meno), quel silenzio prolungato era per i fan motivo di grande preoccupazione. Quando nel 2008 uscì in sordina “Hindsight” (trascurabile operazione che raccoglieva rivisitazioni acustiche di vecchi brani) di certo non esultammo: era come cercare di soddisfare con una nocciolina una fame arretrata di una settimana. Tutti dunque temevano il peggio, ci fu chi si rassegnò, chi persino se li dimenticò, quando all’improvviso, nel 2010, fu annunciata l’uscita del nuovo album di inediti: “We’re Here Because We’re Here”.

Un album importantissimo, non solo perché è venuto dopo sette anni dal rilascio dell’ultima testimonianza discografica vera e propria, ma anche e soprattutto perché fotografa gli Anathema in quella che è probabilmente la loro incarnazione più forte e determinata di sempre. Per i fan della prima ora saranno cazzi amari, non tanto perché il sound muterà ancora una volta, bensì perché i fratelli arriveranno a rinnegare il passato tale sarà la convinzione di essere finalmente sulla retta via, dopo anni di irrequietudini. Noi ci siamo perché ci siamo non è solo una forte attestazione di esistenza, di fermezza di intenti, ma è anche un’imposizione del presente visto come dimensione assoluta che toglie importanza a tutto il resto: il passato non ci appartiene più, il futuro non ci interessa, siamo qui e basta. Probabilmente la capacità di provare emozioni e di saperle trasmettere in modo così vivido, sincero ed immediato, è dovuta proprio a questa focalizzazione estrema su un hic et nunc esistenziale ed artistico. 

E così i vecchi classici della band inizieranno a scomparire dalle scalette dei concerti per lasciare spazio a pezzi scaturiti dalla sinergia di musicisti affiatati che sono soprattutto persone che si vogliono bene: non più contrasti, non più compromessi, non più personaggi carismatici a rompere i coglioni. La nuova incarnazione degli Anathema vedrà al suo centro l’incrocio di sangue dei due assi di fratelli: da un lato i Cavanagh, dall’altro i Douglas. Daniel e Vincent continuano a fare la parte del leone: il primo finalmente nelle condizioni di spaziare in totale libertà (senza ostacoli da un lato, con una band affiata alle spalle dall’altro); il secondo, cresciuto nel frattempo sia come cantante che come autore ed arrangiatore, si eleverà a front-man indiscusso della band. Più defilato, il terzo fratello Cavanagh, quel Jamie, gemello di Vincent, che si occuperà con diligenza, ma senza scalpore, del basso. Dietro di essi si consolidano il batterista John Douglas, forse scarso tecnicamente ma grande motivatore e collante psicologico della band (a dire dello stesso Daniel) e sua sorella Lee, nata come corista e nel tempo affermatasi sempre di più nel ruolo di co-protagonista dietro al microfono.

Essendo il sound dei nuovi Anathema infarcito di pianoforte, tastiere e sprazzi di elettronica, il tastierista Les Smith si conferma indispensabile, anche se poi sarà determinante la mano, dietro alle quinte, del guru Steven Wilson. Come sappiamo egli non è solo un produttore accorto, ma anche un musicista sopraffino e saggio consigliere, cosa che gli permetterà di intervenire in tema di arrangiamenti e di scelte stilistiche vere e proprie. Cosa che apprezziamo, se il risultato dei suoi consigli era stato ieri un album come “Blackwater Park” degli Opeth ed oggi un “We’re Here Because We’re Here”: mai prima l’arte degli Anathema avevano potuto godere di una veste così elegante e raffinata, mai la loro visione artistica era emersa così a fuoco, perfettamente bilanciata nelle sue componenti ed armoniosa nei suoi sviluppi.

Una visione artistica luminosa, come la bellissima copertina: atmosfere sognanti, venate a tratti di positività (a momenti si rasenta il rock-pop melodico dei Coldplay), anche se poi il mood rimane inevitabilmente malinconico e struggente. Gli Anathema targati 2010 sono dunque zuccherosi, sanno di meringa anche se lecchi loro i piedi e ti fanno venire il diabete solo a guardarli. Ma sono intensi, emotivi, emozionanti come solo loro sanno essere. Dal doom al gothic al rock progressivo, gli Anathema rimangono coerenti a loro stessi: vogliono trasmettere emozioni e vi riescono. Ma contrariamente a ieri, oggi lo fanno in modo fluido ed armonioso: la voce di Vincent è oramai uno strumento incredibilmente affilato; Daniel, dal canto suo, continua ad essere il motore pulsante della band, dividendosi fra languori chitarristici da brividi e intese parti di pianoforte. Lee acquisisce nuovi spazi, gli altri operano nel migliore dei modi, senza protagonismi, senza frenare la verve creativa dei due fratelli, oramai liberati da ogni giogo e limitazione.

Da un punto di stilistico i Nostri si assestano sul formato della ballata evocativa, spesso arricchita da suggestioni pinkfloydiane ed orchestrazioni finemente arrangiate, e senza disdegnare momenti più incalzanti che danno quel retrogusto pop/rock al tutto. Ovviamente con una ricercatezza che da sempre caratterizza la proposta dei Nostri. Gli Anathema vengono oggi definiti con l’etichetta neo-prog, ma non suonano prog né tanto meno post-rock. Sanno però annettere elementi provenienti da entrambi gli universi: espandendo i loro brani con costruzioni poste al centro o in coda che arricchiscono i brani e li fanno uscire dai binari della strofa e del ritornello (è qui che la mano di Wilson diviene maggiormente evidente, visto che echeggia sovente lo spirito dei suoi Porcupine Tree) ed allestendo crescendo emotivi che a volte culminano in denotazioni liberatore, altre in climax irrisolti (il dream pop dei Sigur Ros può essere un utile riferimento per comprendere). “Thin Air”, “Angels Walk Among Us” (l’ennesima dedica amorevole alla madre venuta a mancare), “A Simple Mistake”, “Universal” sono destinate a divenire i classici della nuova era della band e presenza fissa nelle scalette dei brani da riproporre dal vivo.  

Quali dunque i fattori che hanno determinato il successo del ritorno degli Anathema? Una squadra compatta, una visione artistica forte e condivisa, una produzione che ha saputo contenere gli eccessi e valorizzare i pregi delle ferventi energie creative messe in campo. Ben tornati Anathema!  


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