19 apr 2020

MEMORIE DALLA QUARANTENA: BURZUM E PRINCE, LA DIMENSIONE CASALINGA E IL SENSO DEL TEMPO



Il Conte e il Principe. Non sono certo i millantati titoli nobiliari ad unire Varg Vikernes e Prince. E nemmeno la musica, ovviamente. Non c’è niente, biograficamente, musicalmente, concettualmente, che può accomunare colui che sta dietro al monicker Burzum, eccellenza in materia di black metal ed oggi tessitore di arcani inni folk-ambient, ed un artista pop come il folletto di Minneapolis, che certo non ha bisogno di presentazioni.

Ad unirli è forse una domenica pomeriggio, in cui la nostra e la loro dimensione casalinga confluiscono in una sfera comune di sensazioni.



Thulean Mysteries”, ultimo lascito discografico di Burzum, e “Piano & a Microphone 1983”, pubblicazione postuma che ha visto la “luce” due anni dopo la morte di Prince, entrano e si intrecciano in casa mia, suscitando stranamente le stesse impressioni. C’è una similare trascuratezza nei due lavori, una comune attenzione per le assenze, dispersione di idee e guizzi poetici.

“Thulean Mysteries”, nella sua ora e mezza di durata, raccoglie materiale composto e registrato negli ultimi sei anni da parte di un oramai auto-proclamatosi non-musicista che ha relegato la musica ai margini delle sue occupazioni quotidiane. Intuizioni, melodie, visioni catturate nei ritagli di tempo libero, presumibilmente fra le pareti di casa, bozzetti appena accennati messi accanto a brani più strutturati certamente non concepiti per stare insieme: da qui la disomogeneità del tutto, fra lunghe esplorazioni di sintetizzatori e quadretti folcloristici di diversa impostazione.

Il sospetto che l’operazione sia solo un rimaneggiamento di scarti e vecchi pezzi per raggranellare qualche spicciolo non contraddice la bontà del prodotto finale che, ricollegandosi agli ultimi lavori (“Sol Austan, Mani Vestan” e soprattutto “The Ways of Yore”), persevera in un percorso in cui l’autore si è dimostrato credibile anche al di fuori dei canoni del black metal da cui era originato. E questo lo si capisce soprattutto nei momenti in cui riaffiora la ruvidità della chitarra elettrica ad evocare fascinazioni dal passato metal che ancora oggi sanno incantare, al contempo definendo uno stile unico che è riuscito ad emanciparsi dai maestri dell’ambient, della musica cosmica, dell’ethereal-folk a cui il Nostro ha sempre guardato (un esempio di questo mix personale potrebbe essere la bellissima “The Road to Hel”, fra posati arpeggi, percussioni rituali e lo sfrigolare delle distorsioni).

I trentacinque minuti scarsi di “Piano & a Microphone 1983” ritraggono Prince in una cornice casalinga ad abbozzare, accompagnandosi con il solo pianoforte, brani che avrebbero visto la completa realizzazione in pubblicazioni successive ed altri invece destinati a rimanere nel cassetto per decenni. Anche qui si affaccia l’idea che il fine ultimo sia stato il lucro della casa discografica nello sfruttare i copiosi archivi del defunto artista, ma anche in questo caso ci dobbiamo ricredere, data la qualità delle registrazioni recuperate (che del resto appartengono al periodo d'oro dell'artista).

Personalmente parlando, posso rispettare Prince, ma ovviamente non è un artista che rientra nelle mie corde. Ma è nel minimalismo di un lavoro come questo che riesco a rinvenire un estro che forse non avrei colto o accettato in uno sfavillare di arrangiamenti barocchi. L’anno successivo sarebbe uscito il capolavoro e gran successo commerciale “Purple Rain”, con soluzioni sonore troppo al di là della mia soglia di sopportazione per essere accolto con piacere incondizionato, mentre in queste tracce scheletriche (fra cui figura anche un breve accenno alla leggendaria title-track dell'album sopra menzionato) mi riscopro a mio agio. Qui l’arte del genio di Minneapolis scaturisce senza filtri, dieci dita che scorrono sui tasti d'avorio ed una voce che si getta in voli pindarici, o ripiega in borbotti, grugniti, fra soliloquio e suggestioni funk-jazz.

Anche in “Thulean Mysteries” è percepibile la libertà di un estro che sgorga e fluisce senza condizionamenti e soprattutto senza la pistola del mercato discografico puntata alla tempia (condizione che sta rendendo insipida la stragrande maggioranza dei lavori odierni ed in particolare quelli rilasciati dalle vecchie glorie del metallo). Mi commuove la chitarra acustica di “Forebears”, un folk-rock che potrebbe evocare l’incipit di “Stairway to Heaven”, a suo modo una soluzione inedita nel canzoniere di Burzum: niente più che un arpeggio che si ripete per qualche minuto, ma in cui sta tutta la cifra dell’artista, l’ossessività, la malinconia, lo scavo interiore. Lo stesso riprendere e reiterare in una dilatazione che vorrebbe puntare all'Eternità i temi già proposti in vecchi album, più che un bieco riciclaggio, sembrerebbe un volersi abbandonare in maniera compiacente ad un feeling che certe melodie sanno sempre trasmettere a chi le ha ideate.

“Thulean Mysteries” è un lavoro che certamente proietta lo sguardo verso il passato (in linea con il pensiero anti-modernista dell’autore), ma che nei fatti si muove al di fuori del tempo, rispecchiando la dimensione di isolamento atemporale in cui vive Vikernes attualmente. “Piano & a Microphone 1983” è invece fortemente radicato nel tempo, potremmo quasi definirlo un concept sul tempo, sul trascorrere dello stesso, come suggerisce il testo dell'opener17 Days”, un tempo scandito dall'ansia di non poter stare con la propria amata: 

"Ti ho chiamato ieri 
Non hai risposto al telefono 
Il tormento è saperlo 
Probabilmente non eri sola 
Mi siedo nella mia stanza solitaria 
Sto cercando il mio raggio di sole 
Ma tutto quello che ho sono due sigarette 
E questo mio cuore spezzato 

[...]

Sei stata via diciassette giorni 
Diciassette lunghe notti 
Il tormento è saperlo 
Stai stringendo qualcun altro 
Vorrei chiamarti ogni giorno 
Scongiurandoti di starmi vicino 
Ma so che la tua testa è sott'acqua 
Dubito che tu possa sentirmi"

Ma nemmeno Prince, come Vikernes, sembra avere fretta, giovandosi della solitudine e dell’intimità del suo appartamento-studio. Di tanto in tanto accelera il passo per acciuffare la nota indicata dall’ispirazione, mentre Vikernes pare rallentare proprio per mettere a fuoco la sua ricerca. In “The Great Sleep”, uno dei pochi brani cantati, il Nostro si getta in un falsetto arcaico che raramente è scaturito dalle sue corde vocali. Recita il testo in norvegese, probabilmente mutuato da un canto del folclore:

"Dormire sarà bello 
Dormire tutta la notte 
Fino al giorno successivo 

Riposare sarà bello 
Riposare tutta la notte 
Fino al giorno successivo" 

“Thulean Mysteries” e “Piano & a Microphone 1983”, così lontani e così vicini, ci consegnano due artisti nudi che dialogano con se stessi. Forse entrambe le opere non avrebbero dovuto vedere la luce, ma questo le rende ancora più preziose, non tanto per la brama voyeuristica che mostra un fan nello spiare i suoi beniamini che agiscono quando non sanno di essere osservati, ma per il senso di intimità che questi suoni sanno trasmettere.

Forse dovremmo solamente scrollarci il tempo di dosso...